TRAMA
Un’amicizia, due storie d’amore e quattro tradimenti: è ciò che accomuna Mario, Luca e Ginevra. In Africa avranno modo di chiarirsi o perdersi per sempre.
RECENSIONI
La vita facile è quella ambita da Mario, chirurgo affermato e incline al compromesso che sfoggia un benessere non privo di ombre; l'inquietudine gli appartiene, il timore di perdere tutto è per lui una costante; del resto se hai ottenuto tanto, non sempre in modo lecito, giocare in difesa diventa inevitabile. Ma La vita facile solletica molto anche la bella e astuta Ginevra, che ostenta ingenuità ma sottintende calcolo ed è disposta a prendere ciò che le va, quando le va, senza alcuna remora morale; tanto domani è sicuramente un altro giorno. La vita facile, però, è anche quella dissimulata da Luca, medico volontario in Africa, lontano da agi, comodità e affetti; una scelta estrema dettata non solo da uno spirito caritatevole e idealista, corazza benpensante dietro cui in parte si nasconde, ma anche, e forse soprattutto, dall'incapacità di affrontare una realtà insopportabile. I tre sfaccettati personaggi si ritrovano a rendere conto di conflitti mai definitivamente risolti e ancora brucianti nell'ospedale di una ONG in Kenya. In gioco ci sono amicizia, amore e quel che resta della vita, possibilmente ancora facile.
Lucio Pellegrini torna alle origini, sia del cinema nostrano che della sua personale visione. Come nella più classica commedia italiana, infatti, a un impenitente ma simpatico guascone (sulle tracce di Sordi? Manfredi? fate voi) la vita mostra il conto e ancora una volta (dopo basta, però!) è una donna l'ago della bilancia. Come nelle sue opere d'esordio, poi, (E allora Mambo e Tandem), Pellegrini continua a scavare nel terreno minato dei sentimenti puntando sull'agrodolce. Si apprezza la voglia di uscire dalle convenzioni dando luogo a caratteri che accarezzano lo stereotipo per poi distaccarsene, si entra con giusta progressione nell'intreccio tra passato e presente, si gusta l'utilizzo in chiave narrativa di canzoni non solo belle ma anche evocative (soprattutto "Ti sento" dei Matia Bazar e "La stagione dell'amore" di Franco Battiato) e si percepisce l'intesa del cast, a suo agio e divertito nel farsi tramite di interrogativi universali. L'impasto, però, convince solo in parte.
Manca il necessario collante (gli snodi della sceneggiatura) in grado di agganciare le premesse tragicomiche con la chiusa a un passo dal noir. Nel momento in cui i personaggi smettono di alludere e giocano le loro carte, infatti, tutto accade repentinamente e la voglia di alzare ripetutamente la posta moltiplica i colpi di scena a scapito della plausibilità. Nell'eccesso di contrapposizioni urlate si perdono un po' anche gli attori, per buona parte invece misurati e incisivi, soprattutto Stefano Accorsi (i cambi di registro non sono mai stati il suo forte), ma anche Vittoria Puccini, ogni tanto vittima della vaghezza del suo personaggio. Più controllato, nonostante il suo Mario sia il più a rischio macchietta, Pierfrancesco Favino, forte di una presenza scenica che non ha bisogno di sottolineature. Tra scene madri, troppe, addii, sbronze (dalla resa debole), liti e riappacificazioni, il finale arriva quindi originale ma frettoloso, lasciando una sensazione di occasione mancata. L'Africa fa da sfondo alla vicenda con sobrietà, ma le figure di contorno dalla battuta pronta sanno un po' di sit-com televisiva.
