Criminale, Drammatico

LA TERRA DELL’ABBASTANZA

TRAMA

Periferia romana. Sono amici fin da piccoli, Mirko e Manolo. Ingenui, cuore buono, sogni d’evasione non troppo grandi. Una notte investono un uomo e la loro vita cambia per sempre. Il crimine li assolda e devono uccidere ancora…

RECENSIONI

Ponte di Nona, Roma. Masticano rumorosamente, avidamente i loro panini con la cicoria, Mirko (Matteo Olivetti) e Manolo (Andrea Carpenzano). Inizia così La Terra dell'Abbastanza (già in Panorama alla Berlinale 2018). Sono nella macchina di Mirko, la complicità dei due si espande in risate quasi insensate, come insensato è lo spazio, lo scenario in cui si stagliano, uno spettrale, enorme vuoto garroniano che pare trasfondere quell'auto in una macchinina, oggetto d'infanzia, tanto da rendere difficile (e inutile) ipotizzare che ora è laggiù, che luce sia. Si conoscono da bambini, un'amicizia tanto forte che li porta a definirsi e ad amarsi come fratelli; se non si faranno bocciare il futuro sarà sempre più vicino, saranno più liberi, adulti. Ma mentre l’immaginazione, l’ingenuità, l’orizzonte asfittico visto dalla periferia si fanno parola, i due investono un uomo, in una notte deserta, si spaventano, lo lasciano lì sull'asfalto, scappano. Si rifugiano dal padre di Manolo, un Max Tortora tragicamente orfano dei Cesaroni e più stagionato,  perché non  può darsi qui la cornice lieta da Garbatella mon amour, padre inadatto che educazione e protezione sa darle come sa (così anche in passato al fianco di Claudio Amendola e Antonello Fassari, in effetti), figura disperatamente non giudicabile, come di lieve, quasi impercettibile e al contempo presente comicità nella sua profonda e inerte solitudine. La madre di Mirko (Milena Mancini), invece, è esplicitamente più drammatizzata, proprio perché individuata nella relazione con il figlio, tra dipendenze reciproche e stati emotivi progressivamente contrapposti, intrecciati, dolci e virulenti.

Per questo loro lungometraggio d’esordio, i gemelli romani Damiano e Fabio D’Innocenzo (i titoli espungono, però, il nome inquadrandoli come Fratelli D’Innocenzo), classe 1988, cresciuti tra pittura e fotografia, senza cortometraggi ma con diverse sceneggiature tra ghostwriting e progetti in attesa di realizzazione (sono presenti nei credits di Dogman anche), convocano nelle note di regie le parole di Italo Calvino: "L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, dargli spazio".

Dalla teoria alla pratica, il passo qui è breve, e la periferia romana, assurta ormai a genere a sé da qualche anno, in un arco che sa comprendere più cose dell’umanità marginale tra amore e crimine, drammi e passioni, noir e commedia, realismi e neorealiasmi vari - ma un arco forse meno ampio di quel che sembra -, diventa nella Terra dell'Abbastanza territorio esplorativo, dimostrativo, tuttavia non didascalico. L’inferno dei due ragazzi ha i contorni e le viscere, la carne di un corpo e di un luogo tanto anonimo quanto brutale; concreto e astratto, sospeso (la fotografia di Pietro Carnera e le scenografie di Paolo Bonfini lavorano in questa direzione mirabilmente, tra sottrazioni e accumuli, abbagli e sfocature, giorni e notti). Pesa tantissimo, allora, quell’abbastanza, perché non definisce, non caratterizza nulla,  e così l’inferno sa normalizzarsi, formalizzarsi magari in un selfie meno infernale, in mezzo a un male inghiottito e poi continuamente riprodotto nel quotidiano.
Hanno ucciso un uomo - scopriranno Mirko e Manolo - un tempo affiliato al clan della zona e poi diventato traditore. Un rito d’iniziazione involontario, il loro, l’anticamera di un mondo che li trasformerà in sicari paradossalmente freddi e allo sbando,  in sfruttatori di prostitute, in trafficanti di vite, sebbene posti solo alla base della piramide criminale che trova nel personaggio interpretato da Luca Zingaretti (paradossalmente più umano e ruspante che minaccioso, ma mai macchiettistico) una delle figure apicali. È in questo progredire di paradossi stranianti e fallaci, di apparenze, di verità inautentiche, di riproposizioni simili eppure sempre diverse, dentro un impianto drammaturgico acutamente piano (e le note di Toni Bruna disincarnano qui il tempo, i tempi), in questo espandersi di ellissi psicologiche e nascondimenti, di rimozioni, di tagli invisibili che sta tutta la dimensione del tragico, la  portata filosofica del film ben prima dell’epilogo, degli epiloghi, degli atti confusi e sfumati in un montaggio (Marco Spoletini) quasi antiazione, ma non per questo “povero”, e anche definirlo essenziale sarebbe inesatto, fuorviante. La Terra dell'Abbastanza, così, apparentemente calato in una tendenza estetica e narrativa che rischia di ossificarsi forse prima del previsto, si congiunge alle forme pregresse, ai loro codici, ma in parte le neutralizza e le rielabora su misura dei suoi attori (Matteo Olivetti, soprattutto, che alle spalle aveva lontane e piccole esperienze in film televisivi: tanto intenso lui quanto imploso Carpenzano), su misura dei suoi personaggi, del racconto, di una visione. E già questo, oggi, è assai più che abbastanza (restando in attesa del secondo lungo dei d'Innocenzo: a quanto pare un western al femminile).