Giallo, Noir

LA RAGAZZA DEL LAGO

TRAMA

Sono le otto del mattino quando Marta, addentando una ciambella, sta tornando a casa dopo aver dormito da una zia. Un furgone si ferma: Mario, ragazzo affetto da ritardo mentale, la convince a seguirlo nella sua fattoria. L’allarme scatta subito, Marta ha solo sei anni. Nel paese arriva il commissario Sanzio, un poliziotto esperto, da poco trasferitosi in quelle zona un pò sperduta. Il più giovane collega Siboldi, residente in quelle valli, diventa la sua guida anche per conoscere i legami famigliari e affettivi della piccola comunità. I due, accompagnati da Alfredo, fedele collega di Sanzio dai tempi della sezione omicidi, si dovranno trattenere nel paese, perchè un altro delitto si sta per consumare.

RECENSIONI

Andrea Molaioli, già aiuto regista di Nanni Moretti, esordisce alla regia con un film atipico nel panorama italiano. La storia, infatti, intreccia la risoluzione di un mistero (una ragazza è stata uccisa), con la quotidianità di personaggi in grigio, provati dalle pieghe inaspettate della vita. Le speranze di un ritorno al cinema di "genere" si scontrano con un ibrido più apprezzabile nelle intenzioni che nei fatti. Al di là dell'originale ambientazione nella provincia friulana, comunque non particolarmente sfruttata, l'indagine intrapresa da un amareggiato commissario è infatti tutt'altro che appassionante. Si dirà che non è il fulcro del film, più attento a descrivere i personaggi e il loro sentire che a creare tensione, ma allora tanto valeva non preoccuparsi troppo di ideare un mistero e abbozzare piste false fino alla cupa soluzione finale. Sta di fatto che il dietro le quinte di indagati e indagatori non è poi tanto interessante, così come non avvince particolarmente la successione dei dettagli tesi alla scoperta dell'assassino. Quanto agli interpreti, colpisce il consueto carisma di un Toni Servillo contratto (a quando un utilizzo esplosivo del bravo attore?) e la direzione misurata degli altri, ma la costante mestizia che incombe su tutti i personaggi sembra più forzata che spontanea. Una sorta di thriller di provincia che, pur rifuggendo dalla tv, si abbandona ad alcuni stereotipi televisivi. Basta pensare al protagonista, solo e ovviamente triste (a parte un paio di battute efficaci), mentre si rapporta alla figlia che deve accudire ma da cui finisce per essere accudito. Non sfigurerebbe di certo, magari solo un po’ meno sgualcito, "alle ore 20.30 su RaiUno", con un caso nuovo da affrontare a ogni puntata. Lo spunto del racconto è il romanzo norvegese "Il corpo di uno sconosciuto" di Karin Fossum.

Si ripiomba nel cinema italiano (quello dei film amorfi e privi di identità che non riconduci a nessuno, che capisci da chi sono diretti solo se hai l’avvertenza di leggere i titoli) con il film di Molaioli, già collaboratore di Mazzacurati e Moretti, che sposta in Friuli la vicenda tratta dal romanzo di Fossum, tentando la strada del noir nostrano con un occhio a certi nodi durrenmattiani.
La sceneggiatura (di Petraglia, uno che di televisione ne ha fatta e ne fa - come in questo caso -), assecondato lo sviamento consapevole dell’inizio (la scomparsa della bambina si risolve in un falso allarme), tratteggia i personaggi attraverso la velata macchietta (il protagonista e il collega della sezione omicidi in primis) e tenta lo scavo del male della provincia (un padre perverso, i giovani spiantati, il pettegolezzo, l’omertà) attraverso una sfilza di trite figurine, condite da tutto il corredo di situazioni e dialoghi che il suo consumato mestiere gli consente.
Molaioli, facendo leva sulla severità dei luoghi, ce la mette tutta per rendere algido e secco il tono di questo film, che vorrebbe intimo in filigrana, ma non bastano i lenti movimenti di macchina e la musica atmosferica a sfuggire al cliché: il problema è interno, è in un meccanismo commerciale e cerchiobottista che è già insito nello script e la cui applicazione è automatica rinuncia a un percorso originale e creativo. La trappola dello schema è già scattata: ecco allora che il percorso a tappe diventa, italianamente, una sorta di piccola parata di riconoscibili attori in vacanza ma pronti a dare una mano (due, tre ciak, ci sbrighiamo in una settimana). Il rispecchiarsi della vicenda intima e umana del commissario nell’oggetto della sua indagine traspare da alcuni dialoghi virati sul punto a dovere e che suonano esattamente per quello che sono: strumenti a disposizione di chi guarda per concludere che, sì, il protagonista in questa storia è coinvolto emotivamente, che dietro la sua maschera (Toni Servillo, attore altrove magnifico, veste ancora i panni dell’Impenetrabile, replicando il modello de Le conseguenze dell’amore, e ci mette una punta di dialetto che fa colore e umanità) si celano un dolore e una partecipazione veri.
La pervicacia veristica del nostro cinema continua ad annichilirci, pervicacia che avrebbe dell’ammirevole se non si risolvesse in un presuntuoso sciorinare fatti e parole che sono veri solo per sentito dire. Dalla televisione, ovviamente.