TRAMA
Roma si offre indifferente e seducente agli occhi meravigliati dei turisti, è estate e la città splende di una bellezza inafferrabile e definitiva. Jep Gambardella ha sessantacinque anni e la sua persona sprigiona un fascino che il tempo non ha potuto scalfire. È un giornalista affermato che si muove tra cultura alta e mondanità in una Roma che non smette di essere un santuario di meraviglia e grandezza.
RECENSIONI
Fra Roma, mondanità e vacuità, matrice grottesca-surreale e giornalista protagonista, può venire in mente La Dolce Vita di Fellini (Sorrentino cita però La Terrazza di Scola) ma, a parte il co-protagonismo delle bellezze antiche della capitale e a parte le stoccate morali contro una precisa fauna umana, i due film sono molto diversi, perché differenti e distanti sono le poetiche dei loro autori (le ambizioni emulative di Sorrentino, poi, se mai ci fossero, sosterebbero più dalle parti di 8½). Conviene partire dal finale per valutarne la presunta bellezza: magnifico, con una letterarietà illuminante (per lo più assente, purtroppo, nel resto della pellicola), che dona senso, un percorso, un fulcro, un personaggio che si iscrive appieno nella galleria sorrentiniana di uomini soli, promesse non mantenute di un’eccellenza che possedevano in qualche campo (fattore che, con la complicità delle soavi musiche di Lele Marchitelli, stringe il cuore). Per arrivare a questa chiusura, però, per quanto ci sia l’alibi dello specchio del rappresentato, la vacuità con passare di palla in frasca è spossante ed abusata: eccentricità e grottesco, tipici del regista, funzionano su impianti narrativi altrettanto eccessivi ma saldi, su racconti coloriti dove anche la trama, per quanto diramata, fa parte dell’universo surreale ritratto. In questo caso, la mancanza di epicentro condivisa con Il Divo si risolve in dispersività poco felice: per un’ora e mezza (e la versione integrale del 2016 aggiunge quaranta minuti, con Giulio Brogi come regista che cita il titolo e ha fiducia nell’Arte) il protagonista, anche voce narrante, abita luoghi e comprimari ritratti troppo a lungo (la festa discotecara di Jep) o facenti parte di sprazzi episodici appesi come inutili appendici. Ad un certo punto, per fortuna, le briciole sparse si trasformano in tasselli di un mosaico che guida Jep verso una maturazione e il film si fa più interessante, pur non rinunciando ad eventi fini a se stessi e apparentemente gratuiti, perché non c’è bisogno, ad esempio, di mostrare la body art, l’action painting e il botox party per ribadire sempre lo stesso concetto (di universi dove l’Arte diventa radical chic), soprattutto se, per criticare la moda della stramberia a tutti i costi, la rincorre incoerentemente (vedi la scena dei “religiosi” e della santa ultracentenaria; divertente, invece, che la direttrice del giornale sia modellata sulla Edna de Gli Incredibili).
La Grande Bellezza è la sintomatica conferma, e cristallizzazione, di una “tendenza” incapace oramai di occultare un’assenza di sguardo, di prospettive, non solo di risposte ma di domande. Potremmo chiamare questa tendenza “barocchesco”: un profluvio di movimenti di macchina e di effetti senza affetti, un bozzettismo avvilente, un grottesco che ottunde le asperità invece di potenziarle. Il grottesco pare oramai essere diventato il rifugio dei non umili peccatori della nostra cinematografia nazionale, il vuoto finto-pieno nel quale giace da qualche anno anche il cinema di Paolo Sorrentino. Si dice che il regista de Le conseguenze dell’amore non sia uno sprovveduto, “scrive pure romanzi!”. Dopo “le conseguenze del Potere”, ecco a noi le “conseguenze della mondanità”. Volendo volare alto, il modello diretto non poteva che essere La dolce vita. E una volta scomodato Fellini, tanto valeva persistere. Il modello indiretto è, infatti, Otto e mezzo: il film nient’altro è che il romanzo, tradotto in immagini, sulla genesi della scrittura di un romanzo. Letteratura, dunque. Alta. Fellini non poteva bastare. Ecco quindi il nostro eroe, lo scrittore Jep, citare più volte Flaubert e il suo sogno impossibile (e mai realizzato) di scrivere un romanzo sul Nulla. Non c’è riuscito Flaubert, dovrebbe riuscirci Jep. E con Jep, indirettamente, il modestissimo “adattatore” Sorrentino, il quale, giusto per facilitarsi il compito, vorrebbe parlare di vuoto saturando, colmando a dismisura, anche e soprattutto stilisticamente (e “barocchescamente”): dolly, carrelli, zoom, ralenti, flash-forward. Il rigore è cosa vostra. Con due referenti come Flaubert e Fellini (per non parlare del Céline in esergo), o sei un genio assoluto, o sei destinato ad affondare inesorabilmente come la Concordia-“simbolodiunpaesealcollassoItalia”, uno dei tanti personaggi secondari del film.
Ciò che annichilisce di questa Grande Bellezza è proprio la patologica ingenuità del suo autore, un’ingenuità che tuttavia è raggelante ma certo non sorprendente, essendo Sorrentino un reciDivo. Gli slanci prometeici si risolvono in cadute clamorose e rovinose: un fuoco (fatuo) di fila di sequenze che si vorrebbero esemplari ma che restano alla “superficie del superficiale”, di figurine categoriali tra il grottesco e lo scolaresco (lo Scrittore, la Cocainomane, la Puttana, la Santa, la Puttanasanta, il Giovanenicciano, il Carloverdone, la Fanniardan, l’Antonellovenditti, ladivainpieno - disfacimentopsicofisicoche - ricordaAnitona, la quasi Marinabramovich, il Collezionistadartecontemporanea- degenerata, il Mafiosodelpianodisopra - chetieneleredini - delPaesedevastatoevileItalia), di battute di spirito riciclate con il quale il regista, e con lui il suo protagonista, vorrebbero stigmatizzare gli orrori del presente e rievocare gli allori del passato. E, come se non bastasse, il mare in una stanza. Se l’obiettivo era di mettere alla berlina il milieu dell’alta borghesia romana – operazione facile quanto fu facile a suo tempo fare di Andreotti una caricatura – bastava far sussurrare a Jep una sillaba a caso di un romanzo a caso di Walter Siti, che dice più, e tutto quello che c’era da dire al riguardo, di questo interminabile “discorso”, in fin dei conti assolutorio, sul “cosasiamodiventati”. Oltre ad essere irritante e compiaciuto ai limiti dell’onanismo nella messa in scena del “dentro”, La Grande Bellezza delude anche come traversata della città eterna: una stucchevole “passeggiata” che si vorrebbe felliniana, ma che al massimo sarà ricordata come una versione intra muros del Granderaccordoanulare di guzzantiana memoria. Il “fuori” è un coacervo di poeticismi derivativi (e, nella maggior parte dei casi, decorativi), di suore a cui manca solo l’accento romagnolo, di ghirigori, di sorrisini e bisbigli, di “snaporaz” fuori tempo massimo, di uccelli migratori che fanno tanto carcassa di balena sulla spiaggia del litorale romano. Alla fine della proiezione, una sola certezza scuote il protagonista e noi tutti: escludendo le vestigia del passato monumentale, la Bellezza è “altrove”. Nulla di sorprendente: quando un simil-Baricco riscrive un Fellini già riscritto da Tonino Guerra, la “grande bellezza” non può che essere altrove.
«A un dato momento, non leggi più gli articoli...
solo la pubblicità... ti dice tutto...
e la 'rubrica dei necrologi'...
sai quel che la gente desidera... e sai che sono morti...
basta!... tutto il resto, blablabla...».
(Céline, Nord)
Si ha una gran bella ragione a dilaniare La grande bellezza, a deprecare tutto il cinema di Paolo Sorrentino come vacuità manierista e compiaciuta: bisogna farlo, credo, più o meno come esercizio spirituale. Questo è appurato – nel giro di una settimana si è alimentata una letteratura sull'argomento a cui quasi non si potrebbe aggiungere nient'altro. Da parte mia, infatti, non avrei voluto aggiungere proprio niente – io volevo scrivere su un film con una dattilografa francese che batte a macchina a velocità supersonica –, ma è andata diversamente: il fatto che concordi in pieno con le analisi più feroci e che, al tempo stesso, abbia enormemente apprezzato La grande bellezza rendeva in qualche modo il mio intervento obbligato (almeno per quel curioso principio di auto-promozione editoriale che è il giochetto liberale del pro-e-contro). Mi trovo a difendere, contro critici e critiche di enorme acume, un film che avrei dovuto detestare, almeno per generica coerenza. Dopotutto è per via di questo disagio che ho bisogno di una premessa in cui precisare che parlo per me stesso – o di me stesso – fino a non distinguere modestia e narcisismo. La tronco. La prima occorrenza della 'grande bellezza' appare a due terzi del romanzo Hanno tutti ragione, una letturina salutata come epigono su carta de L'uomo in più, ma che a distanza sembra contenere un paio di chiavi dell'intera opera di Sorrentino. È parte di uno di quei numerosi momenti di sospensione del racconto in cui l'autore esercita, ossia ostenta, il monologo brillante. «Meravigliarsi di se stessi in base al nulla che ti accade. Farsi il caffè e fissare il caffè che sale fino all'ultima goccia perché tanto dopo non hai niente da fare. Imbottirsi di rituali quotidiani. Lavarsi lentamente, ostentando davanti allo specchio il corpo cadente come un tempio di grande bellezza. Sono tutti morti gli architetti che avrebbero potuto ristrutturare i nostri corpi quando essi oltrepassavano i funambolismi della gioventù. Non si può andare ovunque oltre il proprio corpo». Tony Pagoda ha lasciato l'Italia, mondanità, vizi e squallori per una vita da asceta in Brasile passata a farsi tollerare dagli scarafaggi. In Sorrentino la narrazione si costituisce attorno al viaggio di un protagonista stanco e debole, alla ricerca di un qualcosa (serenità, amore, godimento, giustizia, bellezza) che dovrebbe ridare la vita. È la violenza di un'immedesimazione sgradevole (io, spettatore, non voglio guardare il mondo dai suoi occhi) che rende ogni protagonista sorrentiniano miserabile, via via meno repellente e più umano, e per questo ancora più miserabile, e meschino, e minuscolo. Il nulla. Non solo lì però, il nulla serpeggia in ogni dove – cosa peraltro dichiarata più volte tramite il progetto irrealizzato di Flaubert di un romanzo sul nulla. «Sai che una volta ho visto Piazza Navona piena di neve?», «E com'era?», «Bianca» (e non è nemmeno tra i dieci momenti più bassi del film). La costruzione ad episodi, a volte significativi e altre puramente ornamentali, vuole comporre un mosaico in cui, com'è giusto che sia, ogni singola tessera è un insignificante quadrato di colore (da intendersi anche nel senso di folklore, di pittoresco, semplicemente di kitsch – un mare di kitsch!). Una distinzione allora è necessaria: chi legge il film come una fotografia beffarda della più bagorda borghesia romana, magari sulla scia del Cafonal di Pizzi e D'Agostino, perde inevitabilmente, anzi rinuncia ad una posizione di ascolto, replicando così il cinismo di una pietà senza empatia («guardali, quei porci!»). Di sicuro ci si diverte di più, d'accordo: un piacere pornografico che ha il suo apice in Serena Grandi interprete svergognata di se stessa. È un altro film, grottesco e spietato finché si vuole. Eppure basterebbe giusto l'invettiva di Jep contro Stefania, l'intellettualicchia che redime il popolo dai salotti televisivi, per comprendere che ci si muove in una disperazione che non ha niente di grottesco (di più, disperazione talmente ingrata che non ha nemmeno l'eroismo del tragico).
Arrivati a questo punto tocca parlare di Fellini. Pure qui, vorrei azzardare, si sta consumando un equivoco, e lo si sta facendo – purtroppo senza ironia – alla maniera del «Do Your Movie Yourself» di Umberto Eco («L'utente acquistava un 'plot pattern', vale a dire una 'gabbia' di soggetto multiplo che poteva riempire con una serie molto ampia di combinazioni standardizzate. Con un solo pattern, accompagnato dal pacchetto delle combinazioni, si potevano fare, per esempio 15.751 film di Antonioni […] Per fare un esempio, il basic pattern di Antonioni ('Una distesa desolata. Ella si allontana') può generare altri film come 'Un labirinto di Autogrill Pavesi con visibilità incerta. Lui tocca a lungo un oggetto', eccetera»). Nel plot pattern di Fellini, allora, Sorrentino avrebbe pescato a casaccio una santa, un lanciatore di coltelli, bambini, pretini, culoni, eccetera. Insomma... Innegabilmente c'è di più, è vero: ad andare a caccia di analogie con La dolce vita, con 8 ½ e con Roma (e con il Satyricon e Prova d'orchestra no?) ci si riempie la serata. Sì, ma a che serve Fellini, a parte a vendersi postmoderni? Piano commerciale – italiano/felliniano – per ottenere il riconoscimento estero di cineasta nazionale (Sorrentino, si sa, è un egotista mitomane)? Mi pare riduttivo e latamente paranoico. Preferisco pensare che il Fellini cannibalizzato, ovvero i riferimenti superficiali alla sua iconografia, faccia parte di una strategia morfologica e stilistica che comprende anche l'insania dei movimenti di macchina, l'abuso dei numeri di regia, la scrittura per scenette virtuosistiche, la fotografia impregnata di giochi di ombra e altro ancora. In una parola, il Barocco. Insisto su strategia perché non mi pare sufficiente convocare la nozione di Barocco esclusivamente per delle qualità formali (un calderone dove si potrebbero infilare dentro alla stessa maniera Ken Russell e Tim Burton, Orson Welles e Peter Greenaway, Powell e Pressburger e Nicholas Ray), quanto piuttosto per un'estetica – quindi una politica – dell'esuberanza vuota e dell'integrazione dei contrasti. Maravall scriveva che il Barocco, per lui rigidamente delimitato nel primo cinquantennio del XVII secolo, è l'insieme dei mezzi culturali uniti e articolati per integrare gli uomini al sistema sociale. All'incirca negli stessi anni Carlo Ossola identificava nel nulla l'elemento distintivo del Barocco: costretta da nessun referente reale, da nessuna legge della verosimiglianza, da nessun canone dell'imitatio, «la scrittura potrà concrescere come monstrum, meraviglia del mostrare l'indescrivibile». Ecco, infine, l'orrore barocco de La grande bellezza: la domanda di integrarsi al nulla.