Riflessioni

La dissimulazione onesta: un’uscita di sicurezza per il cinema gay?

Il cinema a tematica gay è un'avvilita area protetta, un girone penitenziale: esaurita la forza d’urto della visibilità e della denuncia, tramontati la graffiante audacia e il rigore o la spavalda anarchia dei pionieri, oggi molto si risolve in una miscela di autocommiserazione e autocelebrazione, in lacrime e risate a comando, nella spossata reiterazione di vezzi espressivi e plot risaputi. Per la legge secondo cui solo l’ovvio gode del consenso del popolo sovrano, tale arte è tracimata ovunque, rendendo ancor più meste le rassegne deputate a valorizzarne la pretesa novità. La pressione lusinghiera del mercato, che ha imposto un vero e proprio genere con i suoi filoni (il romantico, la commedia brillante, il pride and prejudice), e la mancanza di fantasia degli autori uniformano il quadro. Dominano grandi amori e tradimenti, contrasti famigliari e fidanzamenti: ironia alquanto dubbia, arcaismi affettivi, perbenismo, volgarità intellettuale, azzeramento della valenza erotica, emotività da fotoromanzo, didattica dell’ovvio. Emblema di questo cinema della bastonata estetica, della camomilla tematica, della carota dottrinale è in Italia l’opera di Ozpetek, la cui fattura (esemplata da micidiali panoramiche esplicativo-istruttive) corrisponde in pieno al manifesto morale: il cinema come via privilegiata alla somministrazione della minestra ideologica; una versione smidollata, predicatoria, monotòna, petulante, ruffiana della complessa polifonia di L’Età Acerba, dell'asprezza sensuale di Edoardo II, dell'inquieta passionalità di Happy Together.
Fuori da questa prospettiva rassicurante, che a suo tempo dovette rimuovere la disturbante scomodità di Cruising tacciandolo, olè, di omofobia (per dire dei misfatti delle buone intenzioni), vengono percorse due strade. La prima assume la responsabilità del proprio tema senza scappatoie nel tran tran sentimentaloide: si va dalla densità lirica di Lifshitz all’innocenza sorprendente (essendo nota la malizia dell’autore) con cui Mysterious Skin affronta l’indicibiledella passione; dalla solare fiducia nella vita di Krámpack al pessimismo estremo di Bu San e La Vergine dei Sicari, fino all’apocalisse di O Fantasma. Nella varietà delle poetiche, il punto comune è l’assunzione di un dato esistenziale come a priori dell’elaborazione estetica, non come punto d’arrivo d’una perorazione, di un’omelia, d’un ammicco (si pensi al tremendo In & Out); così, ci si può fare un baffo della correctness e dei suoi cascami, ove resta invischiato il cosiddetto intento civile che deve inventarsi una stracca mitologia dalle intenzioni più che sospette, i cui eroi son come li ha voluti il paternalismo dell’autore.
Brokeback Mountain vorrebbe navigare su tale meritorio versante, ma troppe ipoteche lo condizionano. Per evitare l’ipocrisia come lo scandalo, il regista adotta una concezione normativa espressa in forme banalmente inappuntabili e articolata attorno a un impulso famigliare, le deroghe al quale sono visualizzate come pietose infrazioni a una sorta di codice matrimoniale: immaginario antiquato ma sempre di gran moda, anomia depurata dalle dissonanze, polizia degli enunciati. Utile termine di paragone è Quasi Niente: da un lato, l’anonimo professionismo d’un oratore incline alla generica commozione e alla pesantezza didascalica della metafora (un esempio: l’uso ingombrante del montaggio parallelo), la compitazione d’un cinema blandamente esortativo e d’un eros asettico e imbarazzato; dall’altro, lo scrutinio asciutto e lucido del groviglio dei sentimenti, la finezza di scrittura, il parossismo d’una passione che si afferma tra la sabbia e le ombre col vigore di una legge morale.
La seconda strada ricusa uno svolgimento frontale e muove da interrogativi formali e metatestuali. Una singolare inversione ne costituisce il frequente diversivo: il film vive sotto mentite spoglie ed è condotto a un referente emergente, mentre il discorso autoriale scorre al di sotto e ragiona di strutture narrative, meccanismi percettivi, sistemi di valore. È probabile che tale espediente sia stato suggerito, oltre che da inclinazioni personali, dal desiderio di evitare le forche caudine – mai tanto perniciose come in epoca d’omologazione – della “giusta immagine” da trasmettere, e i Comitati di Salute Pubblica che esigono omosessuali adeguati a un modello ben educato, sentimentale e incistato in una famiglia sia pure di nuovo conio, sì che un pugno nello stomaco come Spetters oggi sarebbe “inopportuno”, e un capolavoro come Gohatto passa praticamente sotto silenzio.
Dei suddetti Comitati, a suo tempo un Fassbinder se ne infischiava, ed era infatti attaccato con virulenza dalle stesse associazioni di categoria, sparute ma incazzose. Tutto oggi è cambiato; le contrapposizioni radicali non sono di moda, le associazioni di categoria vogliono essere presentabili all’elettore medio, i dogmi melliflui d’un immaginario deprimente hanno l’implacabile violenza di tutto ciò che è “perbene”. Si capisce come autori spesso di lungo corso, disincantati e senza troppa voglia di predicare nel deserto come Villaronga, di venire dissecati al tavolo autoptico dei dibattiti sulla “diversità” o miserabilmente fraintesi come l’Elliott di Priscilla, o di finire penosamente annichiliti come l’ultimo Schlesinger, abbiano deciso di gabbare la Ronda del Buon Costume. Sottigliezze, capovolgimenti tattici, gesti irriverenti. Nelle loro mani, la filigrana semantica non si accontenta dei segni filmici elementari, esige un attento lavorio a cavallo fra i testi. Il citazionismo diventa adulto, e in uno con l’elaborazione stilistica traspone in discorso il sesso, il desiderio, la concezione del reale, additando una strada intricata ma promettente per giungere ancora una volta a sfiorare il mondo attraverso le forme.
Lontano dal Paradiso di Todd Haynes rifà Douglas Sirk raffreddandolo, asciugando la scrittura cinematografica quanto basta a renderla accettabile ai palati odierni. Oggi come allora sono l’ipocrisia, l’ordine sociale, la convenienza economica ad avere la meglio nei rapporti umani; ma il minuzioso disegno delle coartanti forme della vita comunitaria e famigliare ha preso totalmente il posto della foga sentimentale pure visualizzata dal maestro. Non cinema della nostalgia (come non lo era stato Velvet Goldmine) o archeologia cinefila, ma consapevolezza che i topoi del cinema classico devono essere assunti non già prestandovi fede, ma con distanza critica (favorita dallo stesso distacco storico da un mondo così puntigliosamente rappresentato): se non vogliamo credere nei simulacri, è il giro della prigione la libertà più preziosa.
Con Psycho, Van Sant porta all’estremo il citazionismo realizzando un calco che equivale a una sconsacrazione. È il contrappunto fra un luogo mitico della storia del cinema e le variazioni al suo codice genetico – nelle bande cromatica e sonora, in dettagli figurativi e di sceneggiatura – ad attivare i significanti; e non solo la chiassosa vivacità coloristica, che avvicina il film alle riproduzioni della pop-art; vengono esaltati la grinta aggressiva di Lila, l’androginia di Marion, la virilità di Sam, la fisicità solida e fremente di Norman e la repressione sessuale che lo sovrasta: il sottotesto omoerotico, che l’epoca e l’ottica hitchcockiane chiedevano fosse soltanto alluso, brilla in primo piano. Psycho è da un lato l’eccessoparadossale e sarcastico della politica del remake, dall’altro il classico riletto da un professore moderno e brillante, capace di interessare un pubblico pop che resta lontano dai film in bianconero e a cui i testi vanno spiegati in un linguaggio cordiale, meno ambiguo e più esplicito.
Proseguendo sulla strada del cinema concettuale, Elephant simula il libello socio-psicologico provocando lo spettatore a lasciarsi cullare nei luoghi comuni di cui l’opinione pubblica si era nutrita di fronte all’orrore di Columbine: nefasta influenza di sciagurate  ideologie politiche, derelizione famigliare, anomia sessuale, deserto scolastico, facilità a procurarsi armi sono trabocchetti piazzati a bella posta nel film ma accompagnati da indizi che li contraddicono o ne mostrano l’ambiguità o l’insignificanza. La provocazione ha colto nel segno: il film è stato inteso soprattutto come opera moralista, e criticato per la ritenuta valenza di pamphletlatore del superstizioso nesso “disagio famigliare–solitudine patente–omosessualità–crimine”. Come in un esperimento psicologico, lo stereotipo ha prevalso sulla ragione.
La costruzione a universi paralleli e a tempo soggettivo di Elephant (più avanti perfezionata in Last Days) enuncia la crisi delle strutture diegetiche e iconiche della rappresentazione. Una strada già percorsa da Van Sant in Gerry, dove la scarnificazione diegetica giunge a contemplare per 15 minuti i ripetuti tentativi di spiccare un salto da un costone roccioso. L’omoerotismo, che in Psycho è programmaticamente esibito quasi con dispetto – ad esempio, la prima scena è una risposta polemica alle osservazioni contenute nella celebre intervista di Truffaut a Hitchcock – in Gerry è sottile, solo la visione totale del film consentendo di apprezzarne la persistenza: la tensione erotica si accampa istante per istante nel vuoto del deserto, tanto che un altrimenti banale contatto fisico, uno scontro verbale, uno sguardo accorato scoccano più scintille di un rapporto sessuale. Ma è la deflazione del reale, garantita dal quasi-nulla della trama, che consente di porre in evidenza l’eros come fattore pervasivo nelle relazioni umane: ecco il primissimo piano che per cinque minuti unisce i protagonisti nell’inutile esplorazione; ecco le lente, estatiche panoramiche attorno ai loro volti. Dotti esegeti hanno ipotizzato che i due protagonisti fossero compagni. Ipotesi inutile, ma anche rivelatrice. Solo il rapporto di coppia giustifica una comunicazione erotica? Solo l'identità d'orientamento la rende possibile? Se la precettistica identitaria della biopolitica è giunta a questo punto, il suo ordine repressivo ha davvero raggiunto una spietata efficienza.
In Psycho la catastrofe è scatenata dalla paranoia che nella ricerca della felicità (l'amore) e del benessere (i soldi) ha eretto i miti totalitari della contemporaneità: non a caso Van Sant sottolinea l’analogia tra la frustrazione di Marion e quella ormai folle di Norman attraverso una serie di segni (tic, risatelle fra lo stolido e il nevrotico, sguardo paralizzato, placidità sospetta, superficialità materialistica dei caratteri) che avvicinano i due più di quanto accadesse nell’originale. I ragazzi di Elephant sono spazzati via in una cornice di benessere e serenità antifrastica fino alla beffa: strade tranquille, giardini curati, case accoglienti, scuole fornite di tutto; la civiltà – questa civiltà, almeno – con il suo ordine apparente, i suoi oggetti-feticcio e i suoi sforzi di governare (l’atteggiamento del preside) e tollerare (il dibattito sull’orientamento sessuale) è incommensurabile alla vitalità plastica ma fragile, e precocemente addomesticata, della gioventù che ne viene fagocitata.
In Gerry, è la Natura a rappresentare la forza distruttiva che cancella l’umano (la coscienza può sopravviverle, come in Last Days, ma solo abbandonando la parte più sofferta di sé): i protagonisti sprofondano progressivamente nel paesaggio fino a ridursi a punti in movimento in un universo estraneo, il cui scenario desolato è il traguardo dell’epica gravida di speranza di My Own Private Idaho: l’avventura cede all’angoscia e diviene affannoso girare a vuoto; l’affetto umano non è che un abbraccio tormentato e impotente; le nuvole ambigue che in quel film avevano osservato la ribelle libertà marginale di Mike e il suo amore per Scott, ora assistono impassibili alla fine di Marion in Psycho, alla deflagrazione di Elephant, all’implosione di Gerry.
Negli ultimi film di Almodóvar la trama può complicarsi o farsi tersa, lacrimare nel mélo o sorridere nella commedia o incupirsi nel noir, ma sempre più mette in abisso il proprio oggetto, lo allontana e lo rende incerto, antinomico; l’architettura filmica sembra rilanciare, a ogni situazione di scacco, la tensione ideale, ma in contorni via via più ambigui, sino a finali apparentemente positivi, in realtà indecidibili. Tutto su Mia Madre e Parla con Lei esaltano la potenza rigeneratrice dell’amore o ne smascherano l'illusione? La Mala Educaciòn affida o preclude alla sublimazione artistica la fuga dalla distruttiva coazione a ripetere dell’eros? In Volver ogni livello espressivo contraddice gli altri e ne viene a sua volta contraddetto: vedere e raccontare non sono fonti di vero sapere, ma modi di sostanziare i fantasmi; più del personaggio della madre si parla come di uno spettro e più esso ha solide movenze; più ne viene confermata l’esistenza in vita e più esso si manifesta in sequenze, atmosfere, frasi fantasmatiche. Esaltazione della solidale comunità muliebre (in quanto affrancata, ancora una volta, dal giogo della sensualità), o confessione di sfiducia tanto radicata da rifugiarsi in un sogno impossibile? Transfert con una femminilità clamorosamente idealizzata – dunque consapevolmente falsificata – o truffa delle etichette?
Rispetto alle riproduzioni di Van Sant e di Haynes, in Gocce d’Acqua su Pietre Roventi manca la matrice: la pièce di Fassbinder che ne è alla base non fu mai tradotta in immagini. Ozon si appropria tuttavia (con varianti significative) delle cifre dell’autore tedesco: accentuata profondità spaziale, frontalità teatrale, ritorti movimenti di macchina, carrellate e panoramiche a ingabbiare le figure in un universo claustrofobico (rafforzato dall’abbondanza di vetri e specchi). Il cinema di Sirk guardava alle relazioni umane siccome dominate dal potere economico, dal pregiudizio sociale e razziale; Fassbinder lo prese a modello nevrotizzandolo e mirando a uno sguardo critico libero da ricatti emotivi, in una chiave politica materialista e antidialettica. Se Haynes rifà Sirk, Ozon rifà Fassbinder, ma nel prendere di mira la falsa coscienza dei ruoli (sessuali, sociali, psicologici), punta meno sulla polemica aguzza che sulla loro ridicola ostentazione; elude il nucleo politico (peraltro acerbo) del testo e bada all’evidenza stridente di un dettaglio, all’identificazione grottesca tra segno e significato (da casalingo frustrato, Franz indossa un grembiule da casalinga). Soprattutto la dinamica del desiderio fisico interessa Ozon, ricondotta al paradigma ricerca–soddisfazione–noia–nevrosi–ricerca: circolo di matematica precisione talora inceppato dalla trappola dei sentimenti. Se per Fassbinder questi sono la manifestazione perversa della logica di potere borghese, per Ozon sono l’ingannevole, nobilitante veste applicata all’incontro fra corpi che interagiscono nella seduzione, nel sesso, nella relazione di coppia.
L’opera di Ozon ha al proprio centro i corpi, nella loro scontrosa materialità. In Gocce d’Acqua… la scena della seduzione è condotta con una morbidezza sorniona (ignota all’asciutta stilizzazione di Fassbinder) che ne rivela il carattere predatorio. Significativamente, il personaggio di Vera viene trasformato da Ozon in un uomo che ha cambiato sesso, manipolando nel modo più radicale il corpo per aderire al desiderio del partner, che chiedeva appunto nuovi corpi al suo piacere. Inoltre, l’età di Leopold è aumentata da 35 a 50 anni: viene così intensificata la distonia fra il suo corpo e quello di Franz, e viene messo a fuoco un tema ricorrente nel francese. In CinquePerDue, i corpi di Marion e di Gilles stentano a trovarsi, a comunicare (su questo e altri aspetti, si veda la monografia sul regista); il sadismo psicologico – fino all’umiliazione del racconto sprezzante (edulcorato dal doppiaggio) di un’esperienza omosessuale – e quello fisico condotto fino allo stupro, sono la sostanza immutabile occultata dal paravento romantico-sentimentale e dal passaggio a sempre nuove compagne.
In Sotto la Sabbia, Marie si sforza di trattenere un corpo che non c’è più, ne crea il fantasma e ci si confronta costantemente, anche quando fa l'amore con un nuovo partner; in Swimming Pool è il personaggio di un romanzo a divenire creazione mentale d’una realtà materiale: la scrittrice di mezza età, solitaria e in crisi creativa (tema palesemente pretestuoso), non può più sentire e leggere il mondo, perché il suo corpo intatto è anche cieco e muto. Solo la tangibile – ancorché delirante – vicinanza del giovane e iper-erotico corpo di Julie potrà, almeno per un po', donarle nuova luce e una presa sulla realtà.
In Il Tempo che Resta, ancora una volta l’espediente diegetico (il cancer movie) dissimula l’oggetto, che come nell’ultimo Van Sant è il rapporto con la fine. Ma dove l’americano depreca l’ossessione per la bellezza adescatrice, per il prefabbricato benessere e gli affetti d'ordinanza che sembrano l'unico orizzonte di una società sazia e autistica, indifferente, e incanala l'anelito libertario e la domanda di senso in una forma di spiritualismo stoico, Ozon sente la ferocia e l'inanità dell'ingranaggio ma vi è completamente immerso: lo sguardo si identifica con l'orizzonte.
L’infinita ricerca di nuovi corpi è condotta non per egoismo o per vizio, ma per sopravvivere, come dice l'alter ego del protagonista: solo il vorace rapporto con essi (anche con quello del padre, che spaventato si offre e si ritrae) può distrarlo dall'insensatezza che avverte fuori e dentro di sé. Ricerca fallimentare, destinata all’insoddisfazione perenne per una contraddizione irrisolvibile: da un lato egli sa che l’unica verità è quella parlata dai corpi, dalla loro intrattenibilità e precarietà; dall’altro sperache esistano stabilità e senso, ma inevitabilmente tenta di reperirli laddove troverà solo immediatezza e fugacità, l'abisso da cui tenta di fuggire: la possanza erotica dei corpi dice solo se stessa, non rimanda ad alcun valore o progetto.
Se si è di fronte a una strada sbarrata, che fare nel momento di massima vulnerabilità? Tornare alle antiche cullanti favole, che la nostalgia non ha cessato d'alimentare. La musica di Ärvo Part, che in Van Sant accompagna il doloroso processo in cui l'uomo trascende se stesso e tutto quanto lo abbaglia e lo illude, in Ozon pedina il progressivo riaccostarsi a quelle illusioni, il riconoscimento (per debolezza speculativa o disperazione) che esse ci sono indispensabili.
Sotto la Sabbia porta all’incandescenza la pulsione scopico-cognitiva (lo sguardo vede l'assente) ed erotico-cognitiva (il sesso spettrale); Il Tempo… ne fa un sommario toccante ma scolastico (la fotografia che illude di eternare realtà volatili, la ricerca dell'abbraccio). Nel primo film è un corpo putrefatto, che nega la fede ripostavi, a segnare l’esplosione della follia: a Marie non resta che rilanciare l’illusione nel naufragio del proprio Io; nel secondo, Ozon rafforza il nesso fra corpo e morte (la visione sanguinosa; la mano sul cuore non potrà trattenervi il soffio vitale), fra sesso e morte (l’impulso omicida durante l’amplesso).
La morte è il più clamoroso dei nomi a cui affidare le proprie ossessioni; ma anche il più magnetico e deformanteIl Tempo… ne è sovrastato; ogni segno vi è attratto irresistibilmente, tanto che si produce un accentuato slittamento dei significati. Quando isola i dettagli del corpo di Sasha, e subito dopo nella promiscuità del locale d’incontro sessuale, Ozon inquadra bensì i corpi come generatori simbolici risolti in se stessi, ma è lontanissimo dalla torrida, assassina furia erotica del Fassbinder in limine mortis o dai corpi palpitanti, affamati e monadici di Tsai: il gelo dello sguardo e l’interazione con la particolare condizione del protagonista – che osserva la scena sulle note del Tenebrae factae suntdi Charpentier e torna con la mente alla felicità vissuta con Sasha – inducono a svisare quell'epifania; deragliamento ermeneutico legittimato nel momento in cui Romain abbandonerà l’eterno presente dell’eros dedicandosi alla sessualità funzionale, alla procreazione: l’altrimenti totale gratuità della sottotrama che sfocia nell’attesa d’una nuova vita dice bene quanto essa fosse necessaria a una finalità a suo modo edificante. Dall’ostentazione di quanto siano fragili i bastioni del nostro radicamento nel mondo (il soggetto, l’altro, il destino, il futuro) all’illusione di sopravvivere nel succedersi delle generazioni; e poi, commossa riconciliazione, lirismo in eccesso (si confronti la sequenza finale con quella scabra, interrogativa, laica di Son Frère), apoteosi.
La schizofrenia tra l’assunto poetico e l’approdo drammatico rilancia il contrasto tra due forme di discorso: la fabula, e i dati di realtà colti in immagine che documentano sì una radicale, letale fissazione sull’hic et nunc del sesso, ma la contestualizzano in modo da degradarne lo scandalo (l'unica forma possibile d'amore è la, è quella) in pruriginosa indiscrezione, disperazione contingente, squallida sterilità. Quale miglior prova che l’interrogativo sul senso delle forme e sul loro rapporto col reale, dopo che brillanti medici legali ebbero a dichiararne la fine, è ancora vitale? L’ibrido mostruoso fra idealismo e informatica che smaterializzò il mondo, e lo ridusse a mera combinatoria formale fomentando un nuovo classicismo paludato e minaccioso quanto l'antico, non ha retto alla prova dei fatti. Oggi, non regge neppure alla prova dei testi.