Intervista

Intervista a Sébastien Lifshitz

Sébastien Lifshitz (Neully-sur-Seine, Francia, 1968) studia storia dell’arte a l’Ecole de Louvre e all’Università Paris I dal 1987 al 1993. Realizza il primo cortometraggio,Il faut que je l’aime nel 1994. Nel 1995 ha diretto il documentario Claire Denis, la vagabonde. Sono seguiti Les Corps ouverts (1997), Les Terres froides, (1999, film per la televisione), Presque rien, (2000), La Traversée (2001), Wild Side (2004).
_x000D_L’incontro col regista è avvenuto in occasione del 23mo GLBT Festival che ha proposto la sua filmografia.

_x000D_

_x000D__x000D_

conversazione in francese e traduzione a cura di Luca Pacilio

_x000D_

Torino, 20 aprile 2008, Starhotel Majestic.
Dopo il suo primo cortometraggio, “Il faut que je l’aime”, il suo lavoro è stato fatto subito oggetto di attenzione ed elogi. Essere immediatamente considerato dalla critica un talento le ha facilitato il compito o lo ha reso più impegnativo?

_x000D__x000D_

Direi che aiuta, aiuta molto. Aiuta essere sostenuto dalla critica soprattutto quando si fanno dei film intimisti come i miei, delle opere non commerciali; dunque ho un assoluto bisogno di essere incoraggiato e di avere l’aiuto della stampa… E’ essenziale perché il film esista e abbia una visibilità.

_x000D__x000D_

Lei ha girato un documentario dedicato a Claire Denis. Cosa la colpiva del lavoro di questa regista?

_x000D__x000D_

All’epoca in cui ho girato il documentario su Claire Denis cercavo di trovare in Francia una figura singolare, qualcuno che avesse una scrittura filmica un po’ diversa e che tentasse di lavorare su dei personaggi fragili, marginali, non necessariamente omosessuali; ho riflettuto sulla presenza in Francia di un autore che rispondesse a queste caratteristiche, che sentissi vicino alla mia sensibilità. Volevo incontrare Claire Denis e, facendo questo documentario, parlare con lei proprio della difficoltà di fare film di quel tipo in Francia. La Denis mi è sembrata veramente la regista più emblematica per incarnare quel cinema, un cinema dell’intimo, che prova a lavorare su un certo tipo di personaggi e sull’estetica e la struttura della narrazione in modo del tutto peculiare. Tenga conto che ero molto giovane quando ho fatto quel documentario ed era per me molto stimolante il lavoro di Claire Denis, molto formativo perché la trovavo una cineasta, un’intellettuale, che portava avanti un discorso molto chiaro sul suo cinema; ritenevo interessante ascoltare questo discorso. Spesso il cineasta non argomenta il proprio cinema, non è detto che ne sia capace, e posso capire questo perché non è compito del regista parlare del proprio lavoro, ma trovavo che la Denis invece avesse una visione molto chiara del cammino che voleva intraprendere.

_x000D__x000D_

E lei ha lavorato con la Denis sul set di “Nenette et Boni”?

_x000D__x000D_

No, io ero solo un giovane stagista, ma Claire mi ha assegnato un posto molto vicino alla macchina da presa. Dunque per me che avevo fatto fino ad allora solo piccole cose, un cortometraggio, fu il modo di constatare dal vero un procedimento di lavoro molto concreto… Ho guardato ed ho appreso… Io non ho frequentato una scuola del cinema, ho compiuto studi di storia dell’arte… Dunque avevo una carenza di conoscenze tecniche riguardo al cinema. Conoscevo la fotografia, perché io sono fotografo, ma su quel set ebbi modo di rendermi conto dell’organizzazione delle riprese e di un metodo concreto, che non era il mio metodo, se lei vuole, ma che costituiva un’occasione per ovviare a quelle carenze.
Parliamo del suo approccio al tema dell’omosessualità: trovo che nel suo essere lontano sia dallo stereotipo che dalla militanza risulti del tutto particolare.

_x000D__x000D_

Non so se sia particolare ma quel che lei dice è giusto. Parto dal principio che l’essere omosessuale oggi non è come l’essere omosessuale trenta anni fa, cioè c’è un contesto sociale dopo trent’anni che non consente più di parlare di omosessualità come prima. Se parto da questo principio, cioè che qualcosa è cambiato e che gli omosessuali hanno ottenuto un riconoscimento e una visibilità, tutte queste dimensioni di rivendicazioni politiche e sociali allo stato attuale risultano inevitabilmente meno pregnanti. E dunque ritengo che non sia più necessario attribuire ai film una connotazione politica così forte come negli anni 70 , come nei film di Fassbinder o Pasolini, film che erano molto legati alla loro epoca, erano relativi a una realtà sociale e politica veramente dura per le minoranze: omosessuali, arabi, poveri, tutte le diversità erano oppresse, non esistevano, erano umiliate o rese caricaturalmente. Al giorno d’oggi gli omosessuali hanno intrapreso una battaglia che ha permesso loro di vivere una situazione di quasi normalità; mi spingerei a dire che la condizione dell’omosessuale si è quasi banalizzata nella società e anche il cinema deve prendere atto di questa realtà. Non dico mai di fare dei film sull’omosessualità, ma dei film con dell’omosessualità, che è molto differente. I personaggi dei miei film sono immersi in questioni più universali, esistenziali, questioni che concernono l’identità in generale, che riguardano il progetto di vita che ci si propone, di come sia possibile costruirsi una propria esistenza indipendentemente dalla propria storia passata, dalla propria estrazione familiare. E’ questo che mi interessa in effetti: come si riesce a sottrarsi al proprio destino familiare per costruirsi una vita propria e inventarsi altrove. Per me queste sono questioni fondamentali e non sono necessariamente legate al tema dell’omosessualità.

_x000D__x000D_

Non ha senso per lei, dunque, parlare di cinema gay.

_x000D_

Dunque.

_x000D__x000D_

Dunque (ridiamo). Dico cinema, ma potrei anche dire letteratura o far riferimento ad altri tipi di espressione artistica, ovviamente.

_x000D__x000D_

La questione della definizione "cinema gay", per me, è un po' strana. Come dicevo, la questione dell'omosessualità oggi è meno urgente sul piano della conquista sociale e politica. Si pensa che basti semplicemente essere omosessuali per essere in un festival gay. Ma questi film parlano della questione in modo aderente alla verità? Non è sicuro, perché se così fosse allora bisognerebbe fare dei festival su personaggi di colore, arabi e puoi declinare all’infinito il nome di una categoria di personaggi. D’altra parte capisco che per questioni di distribuzione e di visibilità dei film la comunità omosessuale cerchi di raccogliere film con personaggi omosessuali per mostrare quale sia oggi e di anno in anno il modo in cui si parla di omosessualità in tutte le sue differenze. Dunque lo capisco, ma è vero che la definizione "cinema gay" per me non è necessariamente giusta.

_x000D__x000D_

D’altra parte “Presque rien” è divenuto un film simbolo per la comunità gay. Secondo lei perché?

_x000D__x000D_

Non lo so. Non lo so davvero. Forse perché è stato uno dei primi film a non porre più una questione di rivendicazione proponendo invece dei personaggi del quotidiano, molto semplici e nel quale tutto sommato si prende atto del fatto che si può essere giovani, omosessuali, avere dei problemi ma che questi ultimi non sono necessariamente legati all’omosessualità, ma a questioni più ampie, più generali che ineriscono all’esistenza, all’emancipazione, a…

_x000D__x000D_

L’identità?

_x000D_

L’identità, certamente. A delle nevrosi personali… Ecco. Certo, queste sono solo delle ipotesi. Lei cosa ne pensa?

_x000D__x000D_

Credo che possa essere legato a quanto dicevo prima, al fatto che queste figure sono lontane dal cliché e che non appaiono come palesi creazioni. Questo può aver facilitato molto l’identificazione e il conseguente culto per il film. Mathieu e Cédric non sono mostrati come personaggi a tutto tondo, e quindi artefatti, ma come esseri narrativamente incompleti, per così dire, e proprio per questo molto umani, molto vivi. Che è poi una delle principali caratteristiche del suo cinema, e una delle ragioni per cui lo amo molto, il fatto che pone al centro personaggi ritratti in questo modo…

_x000D__x000D_

Grazie.
… e adoro anche il suo antididascalismo , la sua tendenza ad evitare la didascalia narrativa, le sue ellissi: lei lascia tutte le possibilità di interpretazione allo spettatore. Penso ancora a “Presque rien”. Quello che accade al protagonista, il suo percorso esistenziale dopo la storia con Cédric non è mai perfettamente chiarito. E’ un metodo di scrittura che lei adotta coscientemente?

_x000D__x000D_

Sì, per me è estremamente importante che un film conferisca un ruolo attivo allo spettatore e dunque per questo motivo io creo sempre uno spazio opaco che interroga il pubblico sulla realtà globale degli avvenimenti, che non è mai data nei miei film… Io vorrei che il film non mi dominasse, che lasciasse sempre libera una parte di sospensione e di mistero, di segreto, per spingermi ad approcciarmi al mio interiore e consentirmi di ricostruire da me la storia. Mi piace che il film contenga sempre un invito allo spettatore a inventare da sé una parte della vicenda, questo dà al pubblico un posto speciale. Ci sono molti spettatori che, invece, detestano questa cosa, che amano film in cui tutto viene spiegato e a volte le reazioni nei confronti di questa mia tendenza sono state violente: persone che mi dicono che non hanno capito nulla, “questo film è maldestro, è pieno di buchi”…

_x000D__x000D_

Che è invece, ripeto, una delle cose che preferisco del suo cinema e una sorta di marca di riconoscimento…

_x000D__x000D_

Un marchio di fabbrica (ride).

_x000D__x000D_

Sì, il suo marchio di fabbrica.

_x000D__x000D_

Io lavoro il frammento e non la narrazione globale; ci sono dei pezzi, anche l’immagine non è mai esaurita, rimane indefinita e lascia il film in sospensione.

_x000D__x000D_

Che è poi la stessa cosa che accade in “Wild side”: anche lì il passato dei protagonisti non è raccontato e va sostanzialmente intuito.

_x000D__x000D_

Sì, assolutamente.
Una curiosità. La scelta dell’immagine del manifesto di “Presque rien”: la fotografia di Pierre&Gilles mi pare in netto contrasto col tono del film. Mi sono sempre chiesto se fosse  una cosa voluta.

_x000D__x000D_

(sospira) E’ complicato. In effetti è vero che la locandina è molto diversa dal film ma bisognava trovare un’immagine generica per il film con i due protagonisti e non c’era nessuna foto del film veramente forte che potesse funzionare. Occorreva inoltre trovare un’immagine che fermasse lo sguardo… Un’immagine un po’… commerciale e io apprezzo molto Pierre&Gilles perché lavorano sull’icona e dunque ho chiesto loro se erano disponibili a realizzare il manifesto e Pierre&Gilles mi hanno risposto “Sì, naturalmente… ma il tuo film è molto differente dal nostro mondo!” E io ho replicato: “Sì, lo so ma proviamo!”. E l’immagine fu realizzata. Il manifesto ne presenta, peraltro, solo una parte, perché nell’immagine completa gli attori sono completamente nudi. Abbiamo deciso di mettere solo un pezzo. Trovo che quell’immagine rappresenti i due ragazzi al culmine del loro amore, nella sua pienezza. E’ vero che quella locandina può dare un’idea del film un po’ superficiale, non so, non mi rendo bene conto, ma in definitiva la amo molto anche per questo contrasto.

_x000D__x000D_

Sì, piace molto anche a me, era appunto solo una curiosità dettata da quella contrapposizione così marcata.

_x000D__x000D_

Riconosco che è vero (ride).

_x000D__x000D_

La rassegna che il GLBT Festival le ha dedicato si intitola “Sébastien Lifshitz: il road movie infinito”. In effetti quello della fuga è uno dei suoi leit motiv…

_x000D__x000D_

(ride) … Rido perché il mio prossimo film sarà un road movie… Ok… E’ difficile sondare le ragioni profonde di questa ossessione perché questo implica un discorso del regista sul suo cinema e non è il regista a dover detenere la verità sulla sua opera nel discorso che la inerisce, poiché questo determina un’autorità e una sorta di limitazione all’interpretazione del suo lavoro e preferisco che sia sempre il critico ad analizzare e a tentare di trovare delle spiegazioni: dunque io non amo spiegare cose così specifiche che sono nei miei film. Sulla questione della fuga, di conseguenza, tutto quello che posso dire è che i personaggi dei miei film tentano di fuggire dal loro passato, dalla loro storia familiare che è come una sorta di turbine che li spinge verso la distruzione e la regressione… Un movimento interno di regressione… E i personaggi scappano da questo destino familiare, da queste nevrosi familiari tentando di intraprendere un percorso individuale che crea un movimento verso la vita. Il film si consuma sempre in questa linea di tensione tra una pesante vita familiare, difficile, nevrotica, e questo movimento individuale di libertà. Di conquista sessuale, anche. Si crea una linea di frattura permanente nel film: da un lato un passato ossessivo e dall’altro un presente che, al contrario, crea una sorta di speranza.

_x000D__x000D_

Come definirebbe “La traversée”? Leggo dappertutto documentario, ma mi pare una definizione un po’ limitativa.

_x000D__x000D_

Perché la trova limitativa?
Per varie ragioni: per l’uso non convenzionale che lei fa della voce fuori campo, tanto per cominciare; per molte altre soluzioni che adotta e che mi sembrano parimenti  lontane dal documentario in senso stretto e che fanno percepire, all’interno dell’opera, invece, un intenso lavoro di scrittura.

_x000D__x000D_

In effetti penso di aver applicato il metodo di lavoro proprio della finzione nell’ambito di un documentario: ne La traversée domina una forma ibrida, il film è all’inizio costruito come una finzione. La prima parte racconta del passato del protagonista e poiché di quel passato non avevo immagini ho dovuto per forza costruire una narrazione nel viaggio imbastita come una finzione, con quelle foto di Stéphane che vengono dal passato e che descrivono la sua vita, il suo percorso. Quando arriva a New York, per esempio, la città si presenta come un mondo di fantasmi: non è la realtà, è un luogo in cui egli si immagina bambino accanto a suo padre, come in un sogno…

_x000D__x000D_

New York è il sogno in cui Stéphane può finalmente dare una casa, un luogo preciso al suo fantasma…

_x000D__x000D_

Esattamente, e questo sogno l’ho fabbricato come una finzione quando l’ho filmato e d’altra parte ho passato molto più tempo a New York a girare questo piano narrativo che dopo a riprendere il road movie veridico, il che è bizzarro a ben pensarci. Ho passato più tempo a costruire la parte finzionale, quella del sogno di Stéphan… Ciò che amo di quel film è che la prima parte è molto lavorata proprio per la questione della finzione e che procedendo il film prende un’altra forma, assume le fattezze di un documentario perché la forma del film si semplifica man mano e il suono diretto diventa più presente, la voce off sparisce… il suono diretto invade tutto a quel punto e le voci prendono la forma del dialogo. Quindi il film parte dalla finzione per arrivare al documentario.

_x000D__x000D_

La rappresentazione del corpo sembra aver subito una netta evoluzione del corso dei suoi film: dalla sfuggente irregolarità de “Les terres froides” all’aderente tenerezza di “Wild side” il suo sguardo pare essersi avvicinato ai corpi degli attori, alla loro realtà fisica, alla loro particolarità. Trova pertinente questa considerazione o per lei si tratta di un’impressione vagamente infondata?

_x000D__x000D_

Non me ne rendo bene conto dato che in partenza io sono fotografo: ho dovuto di film in film apprendere il mestiere di regista e conquistare una distanza sempre più vicina all’attore e infine trovare quella giusta. Non avendo mai fatto film prima, ogni lavorazione per me è un apprendistato, dunque provo delle cose, ma penso che la questione della distanza tra la camera e il personaggio sia essenziale.
Un’ultima domanda. Da "Les corps ouvert" a "Wild Side" lo stile del suo cinema si è fatto progressivamente più scarno e essenziale, le inquadrature più secche e decise, il montaggio  più ellittico e esatto. Per "La traversée" e "Wild Side" ha collaborato con Stéphanie Mahet: come si svolge la fase di montaggio dei suoi film? Prevede rigorosamente ogni stacco o considera questa fase come un momento di intervento forte sul corpo del film?

_x000D__x000D_

Il lavoro di Stephanie Mahet è davvero speciale perché io le domando di non leggere la sceneggiatura, dunque lei si avvicina al film senza saperne nulla. Quando il girato del film arriva l’assistente mette le sequenze al computer e a quel punto lei scopre il film nell’ordine del tournage, che non è l’ordine della sceneggiatura, provando a comprendere la storia attraverso le scene che arrivano in disordine. Dunque fa delle associazioni tra le scene che non esistono nella realtà della sceneggiatura e inventa una narrazione molto libera nella sua testa. Questo procedimento le conferisce una grande creatività e un modus operandi indipendente dallo schema della sceneggiatura. Solo quando ha visto tutto il girato lei legge la sceneggiatura e la compara alla sua versione personale. A quel punto procede al montaggio: ha dunque molta libertà nei confronti della materia per poter inventare una struttura di narrazione differente da quella della sceneggiatura. E’ un lavoro particolare insomma, che si fonda su un mélange tra rispetto del testo e inventiva personale.
Un grazie ad Alessandro Baratti e a Riccardo Olerhead