Intervista

Intervista a Peter Greenaway

Incontro Peter Greenaway a Lucca, in occasione del Lucca Film Festival che ospita un omaggio al regista (altro trovate qui) aperto da Goltzius & The Pelican Company, il suo ultimo film, e una videoinstallazione, Lucca Towers Hybris. L’occasione è propizia per parlare dell’ultimo periodo della sua produzione – pressoché invisibile in Italia – e dei suoi progetti futuri.
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Accanto alla sua produzione cinematografica, c’è un ampio catalogo di opere solo annunciate: nel corso del tempo lei ha parlato di molti script che non si sono mai tradotti in film. C’è qualcuno di questi che rimpiange particolarmente di non aver fatto?

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A cosa pensavi in particolare? Hai qualche titolo?

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Ne ho tantissimi. The Historians, Augsbergenfeldt, Love of ruins… Se le dico The man who met himself, per esempio?

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Sì, esiste ancora come script, ma succede che si sia affascinati da un soggetto, ci si lavori e che poi lo si abbandoni per uno, due, tre anni. Pian piano si trasforma in uno scheletro che rimane nell’armadio. Intanto altre idee si affollano e magari, gradualmente, alcune di esse vengono realizzate. Adesso per esempio siamo impegnati per quattro film da realizzare uno dopo l’altro e diversi dei relativi script sono stati concepiti qualche tempo fa. Quello che può capitare è che io non realizzi una sceneggiatura per tutta una serie di ragioni, ma che poi ci ritorni su e la rinvigorisca. E che magari la cambi, scelga un altro titolo, tenga buoni degli elementi, ne elimini alcuni e ne aggiunga degli altri.

Mi può dire di questi film che ha in programma?

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Tra tre settimane parto per il Messico per un film su Eisenstein.
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_x000D_Eisenstein in Guanajuato, ne ho letto. Perché un film sul regista russo?

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Perché era ebreo, omosessuale e comunista. Nel 1931, in Messico, perse la sua verginità, aveva trentatrè anni.
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_x000D_Poi?

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Poi torno per fare un film sullo scultore Brancusi che nel 1906 è andato a piedi da Bucarest fino a Parigi: è stata una camminata che è durata per ventisei settimane. Ha camminato in estate, in primavera, in autunno e in inverno attraverso la Romania, l’Ungheria, la Germania, la Svizzera e la Francia; quindi divideremo il film in quattro sessioni di riprese che saranno associate alle stagioni. Poi porteremo il film su Eisenstein al festival di Cannes nel maggio 2014, dopodiché cominceremo a lavorare ad una specie di remake, una mia versione di Morte a Venezia intitolata Food of love. Ricorderai la storia di Tadzio…
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_x000D_Certo, e il film di Visconti.

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Sì, la mia storia racconta cosa accadde a quel giovane quarant’anni dopo… Una sorta di reincarnazione… Visconti usò le musiche di Mahler, io invece userò Vivaldi. Un brano di Vivaldi è all’origine dell’idea di questo film. Il titolo è tratto da un verso de La Dodicesima Notte di Shakespeare [If music be the food of love, play on; Give me excess of it, that, surfeiting, The appetite may sicken, and so die – Se la musica è il cibo dell’amore, continuate a suonare, datemene in eccesso, così che, ormai sazio, l mio appetito se ne ammali, e muoia – NdR] che è la perfetta descrizione del mio film. Mi piacerebbe girarlo come fece Antonioni con quel film sulla borghesia milanese… Non rammento il titolo… Prima della trilogia…
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_x000D_Cronaca di un amore?

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Sì. Antonioni girava magnificamente, con quella macchina da presa che entrava nei salotti…

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_x000D_Lo girerà a Venezia?

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Sì, buona parte a Venezia, il resto a Londra.

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_x000D_E il quarto progetto?

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Un film su Oskar Kokoschka, il pittore viennese che era perdutamente innamorato della vedova di Mahler, che costruì una bambola a dimensioni naturali, con tutti gli attributi sessuali, e che è vissuto con questa bambola per due anni e mezzo.

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_x000D_Un’agenda pienissima…

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C’è dell’altro: una storia di fantasmi giapponese ambientata a Kyoto e ancora un film su Giuseppe; la mia figlia di cinque anni mi ha chiesto qualche tempo fa come mai Gesù avesse due papà, quindi le ho dovuto spiegare… Ricordi la storia di Rosemary’s baby di Polanski?

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_x000D_Sì.

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Ecco, pensa allora a una sorta di Mary’s baby. E poi c’è un progetto e ancora un altro progetto… Questi che ti ho citato sono quelli stanno bollendo in pentola adesso. Il problema è sempre quello di trovare i finanziamenti e i produttori per realizzarli. Nel frattempo ci sono poi gli eventi, come quello organizzato qui a Lucca. Sono stato appena invitato per un grande evento a Pompei, di cui sono molto contento. Un altro intitolato The dance of death sarà a Basilea alla fine di novembre e un altro è in programma a Manchester. E poi potrei parlarti di altre quattro o cinque cose. Diciamo che ci sono un po’ di lavori da realizzare che mi terranno lontano dalla strada (ride).
Parliamo di The Tulse Luper Suitcases. Mi sembra che la portata rivoluzionaria di quell’opera sia compresa meglio oggi che all’epoca. Cosa ne pensa?

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Assolutamente sì. E’ sempre stato inteso come un progetto per l’era dell’informazione e voleva corrispondere a quello che sta accadendo ora. E’ stato realizzato senza fare ricorso al vocabolario convenzionale del cinema – che alla fine si traduce solo in favole della buonanotte per adulti – e che, deteriorandosi sempre di più, va a morire rapidamente. Volevo realizzare un lavoro che fosse cinematografico nella sua natura e che parlasse del progetto di una vita – doveva trattarsi di un film perché i miei produttori trovano il denaro a patto che io ci realizzi un film -, ma che ospitasse anche tante altre cose.

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_x000D_Lei disse che il sito internet era il vero cuore del progetto

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Abbiamo iniziato nel 2001, mi pare, e all’epoca il web era già molto rilevante per cui ho pensato ad un ruolo fondamentale per un sito internet; ma ho voluto guardare anche oltre: ho pensato al teatro e ho scritto un’opera, intitolata Gold che era relativa alla parte in cui Tulse Luper si trova a Francoforte… Come sai tutto il progetto è basato sul 92, che è il numero atomico dell’uranio, un elemento decisivo per il secolo scorso, e quindi avevo pensato ad una biblioteca di novantadue libri. E poi a un paio di lavori per la televisione. E’ stato creato un gioco online interattivo, il Tulse Luper Journey, che è durato per tre anni. Poi avevo ideato un VJ show che ha girato per tutta l’Europa e che sporadicamente continua. Come ti dicevo prima ci sono sempre nuovi progetti, ma a quello di Tulse Luper ho ancora delle persone che ci lavorano. A breve è prevista una performance VJ a Zurigo, poi a Berlino e siamo stati appena invitati a Hong Kong: quindi la cosa sta andando avanti. Certo, quattro anni fa ne facevo una al mese, adesso si stanno diradando sempre più._x000D_
Vedendo Nightwatching leggevo nell’incomprensione dell’epoca nei confronti di un’opera d’avanguardia come La ronda di notte di Rembrandt quella del nostro tempo nei confronti di The Tulse Luper Suitcases. E’ solo una mia impressione?

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Non volevo commettere un suicidio cinematografico. Tu sai che The Tulse Luper Suitcases è in realtà una trilogia: quei tre film sono diventati una specie di grande evento da festival; sono stati presentati in quattrocento kermesse durante le quali sono stati molto visti, e anche rivisti, perché in realtà c’era molta gente interessata a quel progetto. Però è stata una totale tragedia nel circuito del cinema ortodosso e dal punto di vista commerciale. Come dicevi The Tulse Luper Suitcases era troppo avanti rispetto ai tempi, era troppo associato con le potenzialità dei fenomeni digitali e distantissimo dall’ordinario cinema narrativo. Ovviamente posso capirlo: era in pratica un’ampia enciclopedia con un’enorme quantità di informazioni che usciva dallo schermo e… ti veniva addosso, ti veniva addosso, ti veniva addosso! Difficile. Poi io sono sempre stato interessato alla possibilità di fermare l’azione in un frame e in quel film c’erano spesso schemi e scrittura contenuti in frame dopo frame dopo frame… Non c’era alcun modo di apprezzarlo al cinema, era possibile solo prevedendo un’interazione. Dovevi essere messo nelle condizioni di congelare il singolo frame ed esaminarlo: l’informazione avrebbe potuto procedere lentamente, avresti potuto entrarci a fondo e constatarne tutti gli strati. Tutto questo non era assolutamente in sintonia col noioso vecchio cinema, ma io volevo schizzare in avanti e operare con le cose fantastiche che puoi fare quando accendi il tuo laptop, non con quello che puoi fare quando ti rechi al cinema. Comunque è ancora lì e, come dicevi, sta gradualmente prendendo piede: viene ancora rappresentato, trovando apprezzamento come all’epoca non era successo. Devo essere paziente per entrare nei repertori._x000D_
Il compromesso tra l’artista e l’estabilishment mi pare essere una costante dei suoi film. Potrei elencare tutti quelli in cui i protagonisti firmano un contratto, a cominciare dal suo primo successo [I Misteri del giardino di Compton House, The Draughtsman’s contract in originale – NdR] che recava nel suo titolo la parola “contract”, fino a Otto donne e mezzo, che comincia con la scena della stipulazione di un accordo che degenera in gazzarra. Anche in Nightwatching e nel suo ultimo film Goltzius & The Pelican Company ritorna questo tema che presumo essere autobiografico. L’artista è sempre condannato a scendere a patti con la committenza?

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Non userei la parola “condannato”. Penso che la posizione dell’artista come outsider sia sempre importante. Perché quando l’outsider diventa un insider perde potere. Ritengo che sia una precisa responsabilità dell’artista quella di essere scomodo, provocatorio. Un agent provocateur.
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Come si è sviluppato il suo personale rapporto con l’estabilishment?

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Ho sempre operato in un modo che era, in realtà, più proprio del mio produttore Kees Kasander: facevamo film sulla base di una specie di schema A – B. Realizzavamo un film A che speravamo fosse problematico, che proponesse sì delle idee ma che risultasse abbastanza ortodosso, tanto da farci guadagnare credibilità presso le banche. A quel punto facevamo un film B, molto più sperimentale. E così si andava avanti: film A, film B, film A, film B. Ma è successo che ho cominciato a fare un film B dopo un film B. E poi ancora un film B… Ho percepito allora che i miei spettatori più conservatori cominciavano a sparire perché per loro quei film stavano diventando troppo difficili. The Tulse Luper Suitcases è stato decisamente un film B. E così abbiamo riflettuto su questo.
Ed è arrivato Nightwatching

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Sì, anch’esso collegato a un progetto più ampio. All’epoca mi ero trasferito ad Amsterdam. Sono stato sempre affascinato da Rembrandt e dagli albori della pittura contemporanea e vivo proprio di fronte al Rijksmuseum che ospita ricchissime collezioni di dipinti olandesi e, naturalmente, di Rembrandt. Qualcuno mi ha offerto questa meravigliosa opportunità: ottenere che la gente guardasse di nuovo questi dipinti. Prendi l’affresco italiano L’Ultima Cena di Leonardo: è talmente famoso che nessuno più lo guarda, tutti pensano di conoscerlo. Quindi è sorta, da La Ronda di Notte, l’idea di ottenere che le persone tornassero a guardare queste opere. E’ nato così il progetto Nine Classical Paintings Revisited [si tratta di video proiezioni digitali effettuate sui dipinti stessi o, come nel caso del Cenacolo, su cloni, NdR]: La ronda di notte, il Cenacolo, Le nozze di Cana di Veronese… Avremmo dovuto fare quest’anno Guernica di Picasso ma c’è una grossa crisi finanziaria in Spagna e quindi è un po’ difficile far partire l’operazione. Poi ci saranno La Grande Jatte di Seurat a Chicago, un Jackson Pollock al MoMa di New York, un Monet, Las Meninas di Velazsquez. L’ultimo obiettivo che spero di realizzare – ma avete un nuovo papa adesso, quindi ho perso il mio sponsor – era affrontare Il Giudizio Universale di Michelangelo nella Cappella Sistina. Ma il nuovo papa non mi sembra molto interessato alla cultura, parla solo di poveri e bisognosi – non parlerà di gay e lesbiche, invece: ha deciso che tutta quella roba non è per lui -. Comunque ci sono cardinali in curia che sembrano ancora interessati all’idea. Ho sempre avuto il desiderio e l’ambizione di dare l’elettricità a Michelangelo.
Il discorso di Nightwatching sulla messa in scena è chiaramente collegato a una riflessione sul cinema, quello di Goltzius all’impossibilità di scindere il cammino delle nuove teconologie di comunicazione da quello della rappresentazione del sesso. Nightwatching e Goltzius sono dunque film che, anche se ambientati in epoche passate, parlano invece del presente?

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Credo che non abbia alcun senso fare un film storico se non lo poni in relazione con il momento attuale, altrimenti diventa un trucco, dell’accademia e questo non mi interessa. Naturalmente Rembrandt è un filmmaker. E Goltzius è un filmmaker. Ed entrambi sono me. Goltzius ha problemi rispetto alla sua tecnologia come io li ho con la mia, il principale dei quali è come trovare il danaro per arrivare ad ottenere il risultato, come gestisci l’organizzazione del tuo lavoro, come seduci il sistema, quale comportamento è più utile per garantirti la continuazione di quello che ti piace di più, che per me è fare dei film. Questo è vero per tutti i miei lavori. Hai assolutamente ragione rispetto al discorso autobiografico che facevi prima: ne I Misteri del giardino di Compton House il disegnatore sono io, ne Il Cuoco, il Ladro, sua Moglie e l’Amante il cuoco sono io, e in essi il protagonista centrale, lievemente o fortemente mascherato, è sempre l’outsider.

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_x000D_E lei è l’outsider.

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Sì. Non pensi che in fondo sia sempre così, anche dentro le produzioni di Hollywood? Che questa sia sempre la natura delle opere d’arte? Sono sempre autopresentazioni, no? Che siano leggermente camuffate o fortemente camuffate, sono sempre presenti in esse tutte le ossessioni, le fascinazioni, le ansie e le frustrazioni dell’artista.
Il ricorso alla forma teatrale, così frequente nelle sue ultime opere, risponde alla funzione di enfatizzare il carattere artificioso della rappresentazione?

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Ho sempre fatto in modo che tu fossi consapevole, mentre lo guardi, che il mio è soltanto un film. Soltanto un film. Non è una fetta di vita, non è una finestra sul mondo: è impensabile fare una cosa del genere, assolutamente impossibile da ottenere. La cosa migliore che possiamo sperare di ottenere è una specie di relazione metaforica della realtà con la nostra esperienza. I miei film sono molto interessati al linguaggio cinematografico e sono sempre autoconsapevoli: Goltzius dunque è molto artificiale e per questo molto teatrale.

Anche la scelta del luogo risponde a questa logica ovviamente.

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Sì, è un dramma del Cinquecento ma io lo ambiento in una stazione ferroviaria per evidenziare alla tua attenzione l’aspetto artificiale di ciò che vado a rappresentare.

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_x000D_Come ha scelto la location?

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Avevamo finanziamenti in Croazia, quindi tutto il film è stato girato a Zagabria. Lì ci hanno offerto ogni sorta di possibilità, anche degli studio. Ma sai, uno studio è uno studio, sono uguali dappertutto: una scatola nera con delle luci dentro. Amo molto l’espressione latina genius loci, il carattere e il senso del luogo. Se riesco, preferisco avere un posto che scelgo e non degli studio, quelle noiose scatole nere. Voglio una location che mi mandi dei feedback, con le sue connotazioni, le sue eccentricità, perché per quanto sia bravo il tuo dipartimento artistico non può inventare il senso del luogo. In un certo posto capitano cose che sono assolutamente inaspettate e spontanee ed è molto importante includerle. Goltzius è stato fatto in interni, in questa vecchia stazione ferroviaria che aveva le sue peculiarità. Io dico allo spettatore: guarda questa cosa, guarda quest’altra cosa, guarda, tutto questo è artificiale; è solo un film storico, e guarda dove lo metto: in una stazione ferroviaria. Non mi sembra che questo abbia causato problemi alla maggior parte delle persone. (ride)

Lei denuncia da tempo il fatto che il cinema è noioso e succube della letteratura. Negli ultimi anni vede qualche spiraglio? C’è stato un mutamento di tendenza?

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Mi sembra che, molto gradualmente, la gente cominci a rendersi conto del fatto che non facciamo più cinema, ma facciamo televisione, perché tutto viene lavorato su nastro; si inizia a comprendere quanto è complesso ed eccitante questo mezzo che stiamo usando. Ma conosciamo d’altra parte la natura del pubblico, sappiamo che va al cinema solo per farsi raccontare delle storie. E conosciamo la natura delle persone che lavorano col cinema e che vogliono guadagnare dei soldi col cinema e che di conseguenza si limitano a dare al pubblico ciò che il pubblico vuole. E che quindi non sperimentano. Non c’è nessun progresso, nessuna eccitante innovazione in quel tipo di cinema. Non trovi che siano molto più interessanti i registi dei popvideo, i videomaker che lavorano, non so, con Lady Gaga?

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_x000D_Ma assolutamente sì. Ormai guardo più videomusica che cinema.

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Questi videomaker sono sicuramente più emozionanti di Scorsese. Insomma: c’è una rivoluzione digitale in atto, ed è una cosa eccitante. Adesso stiamo facendo dei prodotti in Second Life e con i software nuovi che stanno uscendo, ci lavoriamo con grande entusiasmo.
A proposito, ha girato di recente un film con Pera e Godard, utilizzando per la prima volta la tecnologia 3D. Come giudica questa esperienza? Cosa pensa del 3D?

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Un’assoluta delusione. il 3D è una perdita di tempo, non aggiunge niente alla grammatica, alla sintassi o al vocabolario del cinema. Una volta che ho fatto una cosa per tre volte cos’altro posso fare? Ci sono dei registi, fuori e dentro all’estabilishment, persone come Scorsese e Spielberg, che ci fanno delle specie di giochi. Trovo che gli esiti siano un disastro, estremamente noiosi. L’unico uso sensato del 3D l’ho visto in Pina: non era inteso che fosse sensazionale e in esso si usava quel vocabolario in maniera interessante. Penso comunque che quello che ho fatto, dagli anni Novanta in poi, fosse di gran lunga più interessante, quando lavoravo sui fotogrammi multipli, quando parlavo di cinema cubista e rappresentavo passato, presente e futuro nello stesso tempo; primo piano, piano medio e lungo simultaneamente. Come con Picasso si cercava di guardare entrambi i lati del mondo nello stesso momento. E mettevo in discussione la nozione di frame: perché non esiste il frame, io non vedo te in un frame, tu non vedi me in un frame, quindi buttiamo via quel dannato frame ed espandiamo la visione. Tornando al 3D: io non penso che il 3D sia una risposta, neanche dal punto di vista finanziario, perché già non regge più, non ci sono grandi film in 3D. E’ una tecnica che non va da nessuna parte, è servita più a me, per continuare ad imparare quanto più possibile sul cinema e le ottiche. Alla fine è una stravaganza cinica hollywoodiana, portata avanti da Cameron, che ci ha guadagnato una valanga di danaro, per creare un’alternativa al cinema tradizionale e dare qualche motivo in più al pubblico per accorrere in sala.

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_x000D_Qual è la risposta allora?

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Il fenomeno più eccitante è quello correlato al messaging sociale. C’è una nuova trinità, un nuovo Padre – Figlio – Spirito Santo: il Laptop lo Smartphone e la Videocamera. Quando Microsoft metterà insieme queste cose svilupperemo una teologia che diventerà della singolarità. Curiosamente mentre la Trinità originale nel tuo Paese è molto potente, adesso questa nuova trinità sta diventando molto potente in tutto il mondo. Si tratta di mezzi per arrivare a un risultato e che trasformano ogni singola persona in un potenziale filmmaker. E’ qui il grande cambiamento ed è relativo a cose e fenomeni che io vorrei riportare a un mezzo convenzionale come il cinema. La sindrome di Casablanca è morta, è proprio morta. Il cinema non è più quello che conoscevamo. E grazie a Dio. Dico questo naturalmente come ateo.
L’anno scorso a Marienbad di Alain Resnais è, notoriamente, uno dei film che ama di più: lo prenderebbe ancora ad esempio per spiegare la sua idea di cinema?

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Sì, penso di sì. Devo dire che è un po’ di tempo che non lo vedo. Ne posseggo una copia in 35mm, ma non avendo un proiettore in 35mm è molto difficile per me vederlo. Naturalmente lo posso vedere su nastro. Penso sia stato rivoluzionario: era un film astratto, i personaggi non avevano nome, le sequenze si basavano su una struttura ripetitiva. Suonava come un brano musicale. È un film incredibilmente ricco, aveva la fotografia di Sacha Vierny, era il frutto di una straordinaria intelligenza cinematografica, lo script si riportava al nouveau roman, tendenza che oggi è morta. Ricordo sempre la scena del gioco dei fiammiferi: quello dei giochi è un indizio laterale ma indicativo dei temi della logica e della memoria. E’ un film estremamente bello da vedere e profondamente emozionante. Sono sempre stato innamorato di Delphine Seyring, straordinaria attrice; nel film era perfetta, molto importante per il suo esito. A mio avviso L’anno scorso a Marienbad si presta a fare una sorta di divisione tra pecore e capre: ci sono molte persone a cui non piace e penso siano molto stupide; poi ci sono le persone a cui piace, e io le applaudo.
La definizione di cineasta per quanto la riguarda è evidentemente riduttiva: lei è un pittore, un artista multimediale, uno scrittore; qui presenta una videoinstallazione alla chiesa di San Francesco. Attualmente che ruolo occupa il cinema nel suo lavoro?

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E’ uno dei molti fenomeni che mi riguardano. Certo, se ho una qualche reputazione in assoluto è quella di essere un filmmaker. Ma puoi vedere come l’attività di regista metta insieme una molteplicità di cose. Vedi questa signora [Mi indica Ester Marcovecchio, costumista di Lucca Tower Hybris, che è al nostro tavolo – NdR]: l’idea di fare i costumi può essere molto interessante e può non avere a che fare col cinema; tra l’altro parlando con lei ho scoperto qualcosa sulla storia personale di questa signora e di come la sua storia personale influenzi il suo modo di lavorare sui costumi. Comunque, è dai tempi de I Misteri dei giardini di Compton House che la gente sa che può decostruire i miei film, scomporli in altre forme d’arte: l’architettura è molto importante, la danza è molto importante, la nozione di creazione letteraria è molto importante. I miei schermi, ad esempio, sono pieni di testo – testo come testo e testo come oggetto – quindi attraggo calligrafi, tipografi e artisti grafici. Dal momento che i miei film sono molto teatrali si possono anche pensare su un palcoscenico, e abbiamo il teatro. C’è la musica: c’è stato un periodo in cui ho lavorato con quattro musicisti, facendo quattro film [Four American Composers, NdR], ho collaborato con reciproca soddisfazione con John Cage, Philip Glass, Michael Nyman e molti altri. Il cinema è ciò che può operare un grande abbraccio tra le arti in modo molto onorevole e molto convincente.

 → Intervista a Peter Greenaway sul videoclip