Intervista

Intervista a Pappi Corsicato

Pappi Corsicato nasce a Napoli nel 1960. Si iscrive a Architettura, a Napoli, salvo poi trasferirsi a New York dove studia danza e coreografia, all’Alvin Allen Dance School, e recitazione. Nel 1990 conosce Pedro Almodovar, di cui è assistente alla regia in Legami!. Esordisce nel 1992 con il cortometraggio Libera, che andrà a costituire un frammento del suo omonimo esordio nel lungometraggio, presentato con successo critico al Festival di Berlino nel 1993 e premiato con il Nastro d’argento per la migliore opera prima, la Grolla D’Oro e il Globo d’Oro della stampa estera. Nel 1995 il successo di I buchi neri lo consacra definitivamente. Nello stesso anno filma la regia di Nun te scurda’, videoclip di una canzone degli Almamegretta. L’anno successivo realizza Argento puro, videointervista a Marco Ferreri, sul set di Nitrato d’argento. Del 1997 è La stirpe di Iana episodio di I vesuviani, opera collettiva che raccoglie i più talentuosi cineasti napoletani: con lui Mario Martone, Antonietta De Lillo, Antonio Capuano, Stefano Incerti. Nel 2001 gira Chimera, opera ambiziosa, autoprodotta, accolta da estremi e contrastanti pareri critici. Dopo avere lavorato a documentari dedicati all’arte contemporanea (percorso iniziato nel 1995), esordisce in teatro con Eva Peron, confermando il decennale sodalizio con Iaia Forte, sua interprete feticcio. Dopo 7 anni di assenza dal circuito cinematografico ritorna con Il seme della discordia, presentato in concorso all’ultimo Festival di Venezia. Tra gli altri suoi lavori, La voce umana cortometraggio/libera interpretazione del celebre monologo di Cocteau. 

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Conversazione telefonica 13/02/2009  
GS: Quanto hai dovuto pagare la libertà di un film straordinario, estremo e così lontano dal minimalismo imperante come “Chimera”? 

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PC: Innanzitutto non pensavo avrei pagato. Quando decisi di autoprodurre il film, con un budget molto basso, ci fu un grande supporto di Maurizio Costanzo, che mi stimava molto: con il suo aiuto riuscimmo, grazie alla prevendita televisiva, a ottenere la somma necessaria per montare il film. Ovviamente uno dei problemi dell’autoproduzione, sempre che si riesca a terminare il film, sta nella distribuzione e nella promozione, che risultano penalizzate: Chimera, un film scarsamente commerciale, uscì con meno di 20 copie, cosa che inficiò il risultato di un’opera comunque- mi rendo conto- non esattamente nazional-popolare. Il film non fu sicuramente un grosso successo d’incassi, visto che andava contro il trend, che era di tutt’altro genere. Fu un tentativo di lavoro complicato, intellettualistico, che trovò un suo riscontro, ma non a livello popolare. In questo evidentemente ho pagato. Nel frattempo mi sono occupato di video sull’arte contemporanea, ho curato la regia di opere liriche, ma ho avuto serie difficoltà a realizzare film. Lo stesso Il seme della discordia era un progetto che avevo in cantiere da tempo, e che finalmente, grazie alla Rodeo Drive, pur a basso costo, sono riuscito a girare. Ovviamente è un lavoro sul piano narrativo molto più semplice rispetto a Chimera

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GS: Come è stato lavorare con Medusa? 

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PC: Il mio referente era la Rodeo Drive, quindi di fatto non ho avuto un diretto contatto con Medusa, entrata in seguito come co-produttore. 

GS: Le esperienze che hai fatto con il teatro, con i documentari d’arte, senti ti appartengano quanto il cinema? 

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PC: Sicuramente il rapporto video/arte è molto particolare. Conosco e seguo da anni l’arte contemporanea, ma non ne sono uno studioso. C’è un rapporto di tipo creativo più breve (una settimana, se il lavoro è molto complicato) e molto più libero. Si colloca in un circuito particolare, quasi per addetti, dove però la libertà espressiva è massima. La cosa mi diverte molto, anche se probabilmente si rivolge a un pubblico di nicchia. Per quanto riguarda invece il teatro: molti anni fa componevo musica per teatro, ma Eva Peron è stata la mia prima regia. Mi è molto piaciuto poter provare per un mese con gli attori: questo permette un lavoro di approfondimento, anche di scandaglio del testo. Una sorta di studio in profondità sull’interpretazione degli attori. Al cinema, con i tempi delle produzioni, non mi era mai capitato. E’ stata un’esperienza importante, che riporto a quello che è il mio lavoro, il cinema. 
GS: Dietro la superficie divertita, colorata, citazionista dei tuoi film si aprono degli spiragli attraverso cui si vede l’abisso, la piccola tragedia umana dei personaggi. Spesso pare che le storie che racconti siano già assimilate, già date e che al contempo i tuoi personaggi siano persone che necessitano di un ruolo, di una storia con cui raccontare e raccontarsi, per darsi finalmente un senso…

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PC: Sicuramente. Quello che mi interessa, molte volte, è affrontare storie poco lievi tramite un lavoro estetico-espressivo che appaia leggero. Cerco una modalità, una tonalità con cui relazionarmi a questo sottofondo più articolato, drammatico. E’ la leggerezza del contemporaneo: tutto passa, tutto si insabbia. Come dicevi tu: io cerco di creare personaggi apparentemente superficiali, per dare l’idea anche di questo non sapere come e dove possano trovare un proprio centro. Quello che vedi è una rappresentazione di un concetto, di una ricerca di verità, di identità o di un sentimento, come ne I buchi neri. Sono opere concettuali, all’apparenza lineari (a parte Chimera): i personaggi sono metafore, concetti, simboli che si muovono in un contesto irrealistico, come testimoniano la recitazione, la musica, le scene, i costumi. Non si capisce se siano film del passato o film del futuro. Marco Muller ha definito Il seme della discordia un film di fantascienza anni ’60. L’idea è, in effetti, di dare un’atemporalità, di sottolineare quanto il film sia rappresentazione di un concetto e non una storia raccontata in maniera realistica o neo-realistica, cifre che io per ora non credo di voler sperimentare.
GS: In effetti Il seme della discordia richiama opere come “La decima vittima” di Petri…  

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PC: Sì. Quelle sono cose che mi piacciono. Il film è pieno di riferimenti estetici, che poi diventano altro. Anche di film giapponesi anni ’60, come quelli di Suzuki Sejiun. C’è anche Ozu. E Kurosawa. Il mio gusto è vicino all’estetica di quei film. E poi i riferimenti a certi film mi aiutano a decontestualizzare le mie opere dal realismo. Fondamentalmente a me diverte creare  un’atmosfera, un mondo. Non è un fatto esclusivamente estetico: mi interessa creare un mondo all’interno del quale i personaggi si muovano. Ad esempio: il Centro Direzionale lo trasformo in modo che richiami un quartiere giapponese o, al contempo, americano. Le musiche da western, da thriller, richiamano un cartoon che vedevo alla fine degli anni ’70, Tiger man. Gli stessi film giapponesi anni ‘50/’60 hanno una colonna sonora il più delle volte tutt’altro che esclusivamente giapponese: in Anatomia di un rapimento, mentre il rapitore si gode un momento di relax, la radio trasmette ’O sole mio per mandolino. Quando mi capitò di vedere il film la cosa mi sorprese molto. E’ un film straordinario, con un’atmosfera meravigliosa: il sole, i riflessi del mare, questi fiori in primo piano, lui con gli occhiali a specchio. ’O sole mio è una scelta che mi sembra particolare, spiazzante, anche spiritosa. Comunque: ciò che mi diverte è fare un pasticcio di riferimenti allo scopo di creare un’atmosfera, che è quello che spesso, alla fine, ti rimane addosso di un film. 
GS: Lo spessore dei tuoi personaggi viene a galla da una sceneggiatura che, più che svelare, suggerisce attraverso la struttura, le ripetizioni, le assonanze anche e soprattutto visive. E’ forse questo che ti fa autore alieno, rispetto al panorama italiano…  

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PC: Io ho paura di essere didascalico, cerco di raccontare attraverso simboli, non è detto che sempre ci riesca. Ci sono cose che visivamente raccontano più delle parole. Un pubblico che è abituato a un rapporto più didascalico con quello che sta vedendo, un pubblico che punta alla spiegazione, con i miei film si trova magari in difficoltà. E capisco che, da un lato,  questo non spiegare troppo possa essere un mio limite. Spesso mi rifaccio al codice Hays. All’epoca i registi dovevano inventare molto per raccontare: io parto da questo principio, mentre ti mostro qualcosa ti dico anche dell’altro. Il punto è che a questo non si è più tanto abituati. 

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GS: Parlare con l’immagine, anziché adagiarsi sulla parola…

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PC: Sì. Una cosa che mi dicono spesso è: “Che bei colori hanno i tuoi film! Che bei colori!”. I miei film si basano su una ricerca fotografica, che rimanda ad altro. Non è questione di fare film colorati. Di film colorati ne vedo parecchi. E magari non colpiscono tanto. Non per darmi una botta di presunzione, però c’è una volontà diversa. 

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GS: Cosa pensi del cinema italiano d’oggi? 

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PC: Vado a periodi, a volte ne vedo molto, a volte no. Mi pare che comunque, ultimamente, ci sia una maggior cura da parte dei registi, dei produttori, a livello proprio di prodotto. Poi magari ti può interessare o meno il contenuto, quello che ti stanno raccontando. Questa cura per la confezione mi pare rappresenti un minimo passo avanti. La precedente sciatteria generale mi pare sia venuta meno. Il problema è che poi si rischia di creare un trend che uniformi i prodotti, rendendoli simili esteticamente e contenutisticamente. Un trend che può creare asfissia. Comunque complessivamente mi pare che il cinema italiano sia migliorato. Poi che piaccia o non piaccia è una questione di gusto, non entro nel merito. 

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GS: Qualcosa che ti ha colpito, ultimamente, al cinema? 

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PC: Devo dire che ho trovato Revolutionary road un capolavoro. A te è piaciuto? 
GS: Ho visto due prove attoriali magnifiche, un testo potente e doloroso, ma uno scollamento, netto in certi momenti, tra il realismo del testo e la confezione estetizzante. Certo: ci sono dei momenti bellissimi e devastanti, da lacrime agli occhi…

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PC: Sì, ci sono momenti molto forti. Prendi il momento in cui la Winslet è alla finestra, dopo l’aborto: c’è un eccesso di estetismo, ma è la prima volta che vedo un film in cui una donna abortisce e tu riesci a percepire quel senso di malessere, senti quel senso di ineluttabilità. Per me è stata una scena molto dura, non avevo mai visto una cosa del genere in un film. In quella scena non succede niente, lei è semplicemente davanti alla finestra, ma senti tutto il suo smarrimento, il dolore di una scelta del genere. E’ la prima volta che ho percepito questa cosa veramente. E’ un film che riesce a darti emozioni illuminanti e dolorose, senza troppe chiacchiere. 

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GS: E’ vero. Però in quella scena c’è un compiacimento che mi pare faccia attrito…  

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PC: Certo, lì c’è un eccesso che ha infastidito pure me. Ma al contempo ho sentito questa emozione fortissima. Chissà: se non avesse girato così quella scena ci avrebbe irritato meno, ma non è detto che avrebbe avuto lo stesso impatto emotivo… 

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GS: Ovviamente dire “avrebbe dovuto fare in questo modo” non ha alcun senso…  

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PC: Molte volte delle cose che uno fa hanno un risultato, come dire, diverso dalle sue intenzioni. E’ una delle cose belle del cinema.