Intervista

Intervista a Maria De Medeiros

conversazione in francese e traduzione a cura di Manuel Billi

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Brasserie Zeyer, Alésia, Paris, ore 14.02.
_x000D_(gennaio 2008)
MB: Vorrei partire dal futuro prossimo: dove e quando rivedremo al cinema Maria De Medeiros?

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MDM: Beh, ho appena terminato le riprese della seconda stagione di Vénus et Apollon di Tonie Marshall,  girato per Arté. Sei mesi di riprese, è stata davvero una bella avventura. Il principio alla base della serie è che tutto si svolge in un istituto di bellezza, dove la gente si ritrova, parla, rivela i propri segreti, si analizza e analizza gli altri, come una seduta psicanalitica. Ciò produce situazioni molto interessanti. Poi, in dicembre sono finite le riprese del film Mes stars et moi, realizzato da una giovane regista francese, Colombani, con Catherine Deneuve, che tuttavia non ho avuto modo di incontrare sul set. Non voglio svelare altro, dovrete attendere settembre, quando il film uscirà in sala.

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_x000D_MB: Il suo presente cinematografico coincide, invece, con Riparo di Puccioni, presentato l’anno scorso a Berlino e, più recentemente, al Festival Gay parigino. Cosa l’ha spinta ad interpretare il film di un giovane e semisconosciuto regista italiano?

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MDM: Sono rimasta molto sorpresa dalla sceneggiatura, davvero molto bella, interessante, ricca di spunti; una storia di sentimenti ed insieme un racconto simbolico sulle relazioni Nord-Sud, paesi ricchi e paesi poveri. Ho accettato ma questo ha inevitabilmente spinto il regista a modificare un poco il personaggio originale, per giustificare il fatto che non sono friulana, non avendo tra l’altro nemmeno proposto di doppiarmi. E’ un film che amo e sono contenta dell’ottima accoglienza  a Berlino, a Torino e ultimamente al Rex, qui a Parigi.  
MB: Come si è preparata  all'interpretazione del personaggio di Eleonora Pimentel Fonseca nel bellissimo  e misconosciuto film di Antonietta De Lillo Il resto di niente? E quali sono  stati i rapporti con la regista sul set? La De Lillo le ha impartito ordini  precisi, o le ha lasciato libertà di improvvisazione?

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MDM: Quello della De Lillo è sicuramente uno dei più bei film della mia carriera, un film che amo molto, che ho nel mio cuore. Mi sono subito appassionata alle vicende di un personaggio storico così importante, ma non molto conosciuto in Portogallo. E poi, ho avuto modo di conoscere una città come Napoli, identificandomi totalmente con Eleonora, anche lei, come me, una portoghese in Italia. Condividevo inoltre il suo amore per la rivoluzione, passione che già mi aveva spinta a realizzare Capitani d’Aprile, ancora una storia di rivoluzione. Il lavoro con Antonietta è stato lungo ed intenso, siamo entrati in sintonia fin dal primo incontro ed il rapporto è stato lungo, dal momento che in quel periodo ero in dolce attesa. Insomma, una grande, mutua fiducia, un vero scambio: lei era aperta alle mie proposte e viceversa. Antonietta ha fatto un lavoro straordinario anche a livello di direzione d’attori,tutti napoletani, davvero formidabili. C’è solo il grande rammarico che il film non sia stato accolto come avrebbe meritato, ero particolarmente frustrata e trovavo incomprensibile il fatto che al festival di Venezia sia stato selezionato per una sezione collaterale, quando avrebbe sicuramente ben figurato in competizione.

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MB: Ha citato Capitani d’Aprile; da regista, che rapporti ha con gli attori? Quanta libertà concede loro?

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MDM: Ho sempre realizzato film, piccoli esperimenti. Come attrice ho esordito a 15 anni e dai 20 sono anche regista. E’ rimasta per me un’attività parallela, anzi, diciamo che è piuttosto la carriera d’attrice ad avermi in parte allontanato da quello che fin da piccola avrei voluto fare, Belle Arti, e dalla passione per la messa in scena: messa in quadro, illuminazione, rapporto tra immagine e musica. Il fatto di essere attrice mi aiuta dal momento più facilmente riesco a comprendere l’attore, ciò che può o non può fare : vi è dunque una grande economia di parola, non ho molte cose da spiegare agli attori. Con Stefano Accorsi, attore formidabile, inizialmente un poco timoroso, alla fine ci siamo intesi alla perfezione. Spesso i registi non riescono a capire l’attore, perdono tempo esponendo teorie e l’attore finisce col non capire cosa il regista voglia veramente. L’essere attrice mi aiuta in questo: poche parole e un contatto umano che faciliti la comprensione immediata. Dopo Capitani ho realizzato un documentario sulla critica (Je t’aime… moi non plus: Artistes et critiques, NdR), film ludico, tutti hanno parlato in maniera sincera. Un’opera molto soggettiva in cui ho voluto mettere a confronto critici e registi. Credo sia molto importante proteggere lo spazio dei critici, è importante che esista, sono per libertà di espressione. Attorno ad un’opera d’arte c’è uno spazio critico necessario. Tutti sono d’accordo. Cronenberg ha dichiarato di essere stato più volte ferito dalla critica, ed anche Wenders… Adesso sto progettando un nuovo film di fiction.

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MB: Ci sono dei registi ai quali si ispira? Quali quelli italiani che preferisce, quali quelli con cui vorrebbe lavorare o avrebbe voluto lavorare?

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MDM: Non c’è un regista nel quale mi identifichi totalmente, ho gusti eterogenei. Amo registi affatto differenti come Tarkovsky, Coppola o Scorsese, o ancora Almodóvar. E, ovviamente,  De Oliveira. In generale, apprezzo quegli artisti che manifestano e mantengono una grande libertà di espressione, anche quando lavorano all’interno di un sistema di produzione rigido come quello hollywoodiano. Apprezzo quei registi che ci insegnano come proteggere questa libertà fondamentale. I registi con i quali vorrei lavorare? Meglio non dire. Per superstizione, non ci penso mai, deve come accadere per miracolo.
MB: Arriviamo, dunque, ad uno dei maestri da lei citati, Manoel De Oliveira: che ruolo ha avuto (ha tuttora) nella  formazione di cinefili-cineasti come lei?

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MDM: Nutro per lui la più grande ammirazione, sono fiera di aver conosciuto una delle personalità più importanti del mio paese. Ho lavorato due volte con lui e debbo dire che è stata un’esperienza gratificante ma difficile, ed è anche per questo che si avvale della collaborazione di un gruppo consolidato di attori, che conosce bene e che sanno cosa vuole. E’ un artista completamente libero, un uomo infaticabile, iperattivo, dalla creatività inesauribile. Nel suo cinema, amo soprattutto la relazione col tempo, la costruzione e dilatazione temporale. Paradossalmente, forse non lo sa, ma quando era giovane De Oliveira era un atleta, partecipava a gare automobilistiche,  era appassionato di velocità. Al contrario, al cinema ha contribuito a decostruire il tempo, a dilatarlo.

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MB:Che ricordo ha di João César Monteiro? Se non sbaglio è stato lui a scoprirla.

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MDM: Si, dico spesso che è César Monteiro il responsabile, il colpevole della mia carriera, anche perché, prima di realizzare con lui Silvestre, non pensavo minimamente che avrei avuto una carriera di attrice. Ho imparato molto da lui, sono molto legata al suo cinema perché è un esempio di cinema artigianale, ed io non amo il cinema industriale.
MB: La Fabienne di Pulp Fictionè un personaggio straordinario, impossibile da dimenticare. Ed è talmente enigmatico e sfuggente che è difficile immaginare come un regista possa "imporlo" ad un'attrice. La domanda, in sintesi, è questa: quanto Fabienne era un personaggio già chiaro e definito e quanto è invece frutto diuna sua reinterpretazione personale?

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MDM: Ho conosciuto Tarantino al festival cinematografico di Avignone, dove presentava Le iene. Era uno dei suoi primi viaggi in Europa, ed in Pulp Fiction, nel mio personaggio in particolare, c’è molto delle sue prime impressioni sull’Europa, le ragazze parigine incontrate e cosi via (Madame De Medeiros sorride, Ndr). È’ forse enigmatico in questo, perché il personaggio è quasi una cristallizzazione dell’essere europeo, della “francesità”, giocando così sulle differenze di valori, di stili di vita rispetto all’American Way of Life. Le sceneggiature di Tarantino sono scritte al millimetro, e benissimo. Non potevo cambiare niente. Tutto era previsto, non c’erano margini di manovra; la sceneggiatura era enorme, quasi mille pagine. Dopo averla letta ho pensato: “assolutamente geniale, devo farlo!”. Il suo è un cinema dove tutto è possibile, amo questa idea.

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MB: Sempre riguardo a Pulp Fiction, era consapevole che stava girando un film icona degli anni 90? Se no, quando l'ha capito?

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MDM: Non ci pensavamo perché ci divertivamo. Tarantino è un istrione, un vero spettacolo, brillante, divertente.

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MB: Nonostante la sua carriera sia costellata di premi (anche una Coppa Volpi), lei continua a scegliere i film indipendentemente dal loro potenziale successo e dal prestigio dei registi. Dunque l'amore per il cinema può resistere alla vanità e alla corruzione della fama?

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MDM: Non ho mai avuto l’American Dream, tanto meno il mito di Hollywood. Di fronte a quel mondo resto fredda, mi lascia indifferente. Forse la colpa è di Monteiro, come le ho già detto mi piace il cinema artigianale. Per questo scelgo registi come Guy Maddin, mi trovo molto a mio agio con loro, sul set ero felice; Guy è un autore a parte, e ha offerto uno dei più bei ruoli alla Rossellini, attrice formidabile ma sottostimata. In generale, non ricevo proposte per film commerciali, perché i registi oramai sanno che non accetterei.

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MB: Il film di Franchi è stato accolto molto male dalla critica italiana: lei l'ha visto? L'ha convinta il risultato finale? Con gli occhi da regista quali sono i pregi e gli eventuali difetti che riscontra nel film?

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MDM: Non l’ho ancora visto. Ho conosciuto Franchi perché è un grande fan del Resto di niente. Sul set è andato tutto bene, sono abituata ai film bi o trilingue. Anche se ho fatto “Europe pudding” che non funzionavano, la lingua non è una barriera. Sono contenta di aver ritrovato sul set Bruno [Todeschini, NdR], siamo entrambi parigini ed amiamo lo stesso tipo di film.
MB: Vorrei concludere con A Little More Blue: da cosa nasce questa esperienza musicale? Perché ha scelto proprio il tropicalismo di Buarque, Veloso e Gil? E' l'inizio di una carriera parallela?

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MDM: Mio padre è compositore, pianista classico, sono cresciuta a Vienna, dove tutti sono musicisti, dunque sono nata in un milieu fertile. Per me è stato come tornare alle origini: sono molto legata alla musica, essa occupa un posto importante nel mio lavoro. Appartengo ad una generazione di portoghesi cresciuti in una prospettiva quasi “rinascimentale”, in cui tutti fanno tutto, amano tutte le arti. Questo nonostante una politica culturale disastrosa. Per me è stato quindi un approdo o “ritorno” assolutamente naturale, un omaggio alla musica brasiliana, legata alla rivoluzione. Fino a 9 anni ascoltavo solo musica classica, non conoscevo né i Rolling Stones né i Beatles. In Portogallo, mi sono avvicinata alla politica e contestualmente ho scoperto il jazz e la musica brasiliana. Mi interessava soprattutto il ritorno della Bossa Nova, ma con contenuti nuovi. La musica brasiliana è una forma inseparabile dal contenuto e negli anni ’70 abbiamo soprattutto testi di resistenza alla dittatura, codificati, dal messaggio criptato per superare la censura; è ciò a renderli interessanti per le sottigliezze che ci sono. Dopo la première al Théatre de Bastille abbiamo presentato lo spettacolo a Roma ed è stato un grande successo, la sala era gremita. Il 10 uscirà in Italia, con una traduzione in italiano dei testi.