Isabella Ragonese nasce a Palermo il 19 maggio 1981. Dopo varie esperienze teatrali, coronate da diversi riconoscimenti, debutta al cinema nel 2006 con Nuovomondo di Emanuele Crialese. Seguiranno, tra gli altri, Tutta la vita davanti di Paolo Virzì (2008), Viola di mare di Donatella Maiorca (2008), Due vite per caso di Alessandro Aronadio (2009), Dieci inverni di Valerio Mieli (2009), Oggi sposi di Luca Lucini (2009), La nostra vita di Daniele Luchetti (2010) per il quale viene nominata al David di Donatello e vince il Nastro d’argento come migliore attrice non protagonista, Un altro mondo di Silvio Muccino (2010) e Il primo incarico di Giorgia Cecere (2010) per il quale ha appena ricevuto la candidatura al Nastro d’argento come attrice protagonista. Il suo prossimo titolo è Il giorno in più di Massimo Venier.
Conversazione telefonica, 26/05/2011
Nasci come attrice teatrale e mi ha sorpreso scoprire che hai recitato anche testi che hai scritto tu stessa. Mi interessava sapere qualcosa in più di questa tua esperienza di attrice-autrice per il teatro.
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_x000D_Cerco sempre, anche per pudore, di minimizzare questa cosa: ho iniziato a Palermo, sono qui a Roma da poco. Sono rimasta nella mia città perché volevo fare teatro e per farlo non avevo bisogno di trasferirmi, non pensavo al cinema. Tanti miei amici che volevano farlo se ne sono andati a diciotto anni, magari hanno fatto il Centro Sperimentale; io invece ho avuto una formazione un po’ più simile a me: incostante, variegata… Sceglievo i miei maestri: quando andavo a vedere uno spettacolo, nell’ottica che tutto potesse tornare utile, chiedevo se facessero dei laboratori… Di ogni tipo, anche di danza, per esempio. Quindi ho fatto tantissime cose, anche un laboratorio per imparare a muovere i pupi di Cuticchio… Sono di indole abbastanza pigra e mi sono sempre creata delle cose da fare per contrastare questa tendenza e nei momenti di attesa, tipici dell’attore che aspetta una chiamata, mi industriavo: ero sempre su internet a cercare bandi teatrali e, con degli amici della scuola o da sola, ho scritto dei monologhi, ho inviato progetti in giro; lavoravo su idee, immagini, improvvisazioni e capitava spesso di vincere, di essere in cartellone in qualche festival. Quindi la cosa è nata così: non volevo stare ferma. Sono molto appassionata del mio mestiere, non lo cambierei …
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_x000D_Quindi il tutto nasce da una necessità…
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_x000D_Sì, dalla necessità di non stare fermi… Anche economica, certo. Però questa cosa prendeva piede, capitava che alcuni di questi progetti avessero fortuna, che vincessero qualcosa e questo mi consentiva di continuare a fare degli spettacoli. Queste esperienze mi hanno molto aiutato perché credo che un attore sia anche autore in qualche modo, che non sia semplicemente una marionetta, che l’interprete sia pensante, possa dare il suo apporto, avanzare delle proposte fisiche o espressive; non necessariamente in modo razionale, perché non sono una che sta a parlare delle ore del personaggio o che si fa gli schemini, ma resto convinta che quello dell’attore sia anche un lavoro autoriale che non muore lì, un lavoro che confluisce nelle cose che faccio: ho avuto modo di collaborare con registi che mi hanno permesso di portare una proposta. Ecco, propongo molto, ma senza teorizzare: tento di capire facendo…
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_x000D_Questa tua riflessione mi fa venire in mente che c’è una sorta di marca costante nelle tue interpretazioni: c’è un’ironia che mi pare appartenere a quasi tutti i ruoli che hai ricoperto. Adesso che mi parli di un contributo personale, di come l’attore pensi e dia il suo apporto alla creazione del personaggio, mi chiedevo se questa ironia che riscontro entri naturalmente nella tua interpretazione o se invece sia il frutto di una scelta studiata e consapevole.
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_x000D_Mi sono resa conto che nel cinema dovevo cambiare delle cose rispetto al teatro: sono due linguaggi molto diversi. Per esempio; mi piace quando mi si dice “mi sono immedesimato perché eri molto naturale”, ma nello stesso tempo mantengo sempre un certo distacco; quindi, a proposito dell’ironia, penso che l’attore debba sempre portare una leggerezza, non prendersi troppo sul serio; quando parlo di leggerezza la intendo alla Calvino, non di certo come superficialità quindi, ma come il passare sulle cose con un passo lieve, quello che mi viene sempre in mente quando vedo la danza: ci sono queste ballerine esili, degli scriccioli, che fanno delle cose difficilissime che, da pubblico, hai la sensazione che potresti fare anche tu. Loro non ostentano lo sforzo, quasi non sudano: fanno apparire i loro movimenti come la cosa più naturale del mondo… Ecco, per come lo intendo io, il mestiere dell’attore dovrebbe essere la stessa cosa: non mostrare il virtuosismo, non far vedere quanto si è bravi, ma far passare tutto leggermente; ogni cosa deve sembrare facile, comune…
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_x000D_Mi stai dicendo che al cinema operi per sottrazione
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_x000D_Sì, il cinema ti porta a fare questo. Il passaggio al cinema mi ha insegnato due cose: essere umili e avere fiducia. Essere umili perché nel cinema l’attore non dico che sia l’ultima ruota del carro, ma certamente è solo una parte del discorso. Noi vediamo l’interprete, ma dietro c’è una fotografia che può salvarti, c’è il montaggio. A volte ti rivedi in pellicola e ti chiedi ”Ma questa cosa l’ho fatta io?”. C’è un fattore di incoscienza. Poi fiducia, soprattutto perché all’inizio si stipula una specie di patto: tu ti affidi all’occhio del regista, perché è ovvio che sia lui quello che racconta la storia. Al cinema sei parte di un lavoro di gruppo molto più che a teatro dove c’è sempre quella sensazione, una volta entrato in scena, di poter cambiare tutto lo spettacolo che hai provato per mesi: ci sei tu sul palco, non ci sono filtri tra te e il tuo lavoro. Al cinema invece affidi ad altri il tuo lavoro e non sai che uso se ne farà e questo in virtù di quel patto di fiducia per il quale hai offerto un servizio; inevitabilmente c’è meno spazio per il virtuosismo. La tua performance non è il perno dell’opera come può esserlo sul palcoscenico.
E’ questo patto di fiducia, dunque, che segna la differenza tra il lavorare a teatro e il lavorare per il cinema.
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_x000D_Sì. Certo, penso che la mia esperienza teatrale mi abbia aiutato tantissimo anche nel cinema… Se avessi cominciato col cinema, probabilmente non costruirei il personaggio anche fisicamente… Per esempio se hai un primo piano, puoi pensare di mettere tutto lì, ma anche in quel primo piano, nonostante il tuo corpo non si veda, tu devi esserci per intero. Questa cosa te la insegna il teatro, in cui non puoi essere soltanto un corpo su un palco, quando compari in scena devi essere un evento. Poi, d’accordo, il linguaggio è completamente diverso; ti dico una banalità: la voce è differente, fisicamente sei portato a fare dei gesti molto più forti… E’ un’altra modalità: non mi piace quando a teatro vedo qualcosa di cinematografico. La scelta del linguaggio è sempre importante e il linguaggio che decidi di usare – sia esso musica, teatro, cinema – non è intercambiabile: nel momento in cui tu scegli di comunicare scegli di utilizzare un dato linguaggio, applichi una grammatica.
_x000D_Poi il cinema ruba molto di più di quello che tu dai… Ti prende molte più cose di quelle che tu intendevi dare in quel momento.
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_x000D_E le eterna. Che è l’altra differenza col teatro, in cui la performance è effimera…
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_x000D_Questa è una delle cose che inizialmente mi faceva rabbia del cinema. Abituata a teatro che ti porta costantemente a correggere le tue performance, a lavorarci su… Poi la memoria teatrale muta con il mutare dello spettatore, ciascuno ricorda delle cose diverse. Invece il lavoro del cinema è un lavoro finito, non mutabile. Per questo non amo molto riguardarmi, sono una pessima spettatrice dei miei film, penso sempre “qui avrei potuto fare…”. Davanti alla macchina da presa dai quello che potevi dare in quella circostanza…
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_x000D_E non c’è appello. La performance attoriale per il cinema ti porta al confronto con un documento…
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_x000D_Certo. E con quel dato momento. Penso che se tra qualche anno rivedrò Tutta la vita davanti rivedrò un’altra Isabella… E questa è una cosa difficile per me; un attore dovrebbe essere anche educato a riguardarsi perché è davvero traumatico all’inizio… Non ti riconosci. Però, tornando al discorso di prima, sei al servizio di un progetto, il tuo corpo, il tuo viso sono al servizio del regista, della sua volontà, di come intende renderti.
_x000D_D’altra parte ritengo che anche i registi dovrebbero fare un laboratorio teatrale da attori per capire cosa provano e come lavorare al meglio con gli interpreti… E lo stesso vale per questi ultimi: a me è servito tantissimo stare dall’altra parte perché avendo vissuto entrambe le esperienze conosco le difficoltà esistenti in un lato e nell’altro, quanto difficile sia affidarsi… Quando davo delle indicazioni gli attori reagivano tutti in maniera diversa.
Mi interessava un tuo parere sul modo in cui il cinema italiano affronta il discorso attoriale. A me sembra che, soprattutto negli ultimi anni, soffra di infatuazioni: si innamora di un attore o di un’attrice, li fa lavorare tantissimo e poi li dimentica per favorire la nuova passione. Si possono quasi individuare delle ere: l’era Accorsi, l’era Locascio, quella di Scarmarcio, poi Germano… Adesso siamo in piena era Favino. Hai anche tu questa impressione?
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_x000D_Da spettatrice sì, da attrice sto tentando a modo mio di sviare, anche se in pochi anni ho fatto tantissimi film e quindi sembra una contraddizione in termini; però, se guardi il mio curriculum, ti accorgi di come abbia cercato di fare un percorso diverso. Da una parte va detto che devi lavorare, e io ho lavorato tanto anche perché mi sentivo in difetto, nel senso che il cinema non puoi impararlo in teoria, lo devi fare, anche sbagliando, anche facendo delle cose rischiose. Ho lavorato tanto per questo motivo: al di là del fatto che mi piacesse e che c’era un bisogno anche economico, ho lavorato tanto soprattutto per imparare, ho preso la cosa come una scuola… E le persone che mi seguono credo che abbiano intuito che è stato un percorso fatto onestamente; un attore dovrebbe fare di tutto e quando dico tutto intendo sia affrontare registri recitativi diversi, sia offrirsi per situazioni produttive differenti: la commedia commerciale, un film ad alto budget, li può alternare a progetti realizzati ad altre condizioni, in cui, per dire, non ti portano neanche il caffè. Opere prime. Il mio modo per stancare meno il pubblico sta proprio nell’eterogeneità delle scelte. Poi, certo, mi dà molto fastidio quando mi dicono “sei un’attrice molto in voga”, una cosa che ti fa cadere le braccia….
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_x000D_L’altro leit motiv è “sei un’attrice emergente”… Ci sono, in effetti, attori in continua emergenza…
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_x000D_Da un lato mi fa più piacere essere emergente, vuol dire che ci sono più cose da fare e da scoprire. Che non hai fatto tutto… Comunque il modo per non stancare è quello che ti ho detto: fare cose diverse, che intercettano anche pubblici diversi. Per esempio quest’anno ho deciso di dire di no a tantissime cose perché volevo tornare a teatro, dedicargli un anno, perché nella mia utopia mi piacerebbe portare le persone che hanno visto Oggi sposi o il film di Muccino a teatro. Ho avuto la fortuna, facendo lavori così differenti, di essere conosciuta per film diversi. E’ giusto arrivare a più gente possibile perché il nostro è un mestiere comunicativo…
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_x000D_A questo proposito, scorrendo la tua filmografia, sembra che tu abbia operato le tue scelte sempre con molta oculatezza. Mi chiedo se sia stato frutto di fortuna, visto che come dicevi è il cinema a stabilire l’offerta, o se questo tuo percorso variegato e non scontato sia stato anche il frutto di una precisa volontà.
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_x000D_Entrambe le cose. Ovviamente ho fatto i film che mi sono stati proposti, ma tu operi una scelta tra quello che ti viene proposto. Io seguo molto l’istinto, per me è molto importante l’incontro con il regista perché anche se adori un autore magari con lui non scatta quel qualcosa… Ci deve essere una sensazione, un odio, un innamoramento… Mi sono sempre affidata a queste sensazioni. Poi, quando si tratta di opere prime, soprattutto, fai sempre un salto nel buio.
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_x000D_Perché non hai riscontri precedenti ai quali affidarti e devi rischiare…
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_x000D_Certo, perché col regista non esordiente ti prepari, magari ti vedi tutti i suoi film precedenti per entrare nel suo mondo, perché ogni autore ha la sua ossessione, i suoi riferimenti. Studi quello che ha fatto. Quando non ci sono precedenti non puoi far affidamento su nulla di concreto. Diventa un’opera prima anche per te, è un ricominciare, ti stimola. Per esempio il film di Giorgia Cecere è arrivato in un momento particolare della carriera; molti mi scoraggiavano dal fare un film così, a bassissimo budget, perché si ritiene che si debba andare sempre più in alto; invece io pensavo che fare questo tipo di lavori fosse un modo per non stancarmi mai del mio mestiere, di essere continuamente stupita. Così Oggi sposi l’ho fatto perché era per me l’occasione di fare un personaggio comico in un film che aveva come intento principale il fare ridere e per me era una sfida. A me piace stupire il pubblico, mi piace che il pubblico, prima di staccare il biglietto, non sappia cosa l’aspetta… Mi piace che mi si dica “Ah, ma tu eri la stessa attrice de La nostra vita”…
_x000D_Poi, com’è stato il caso di Luchetti, la scelta può nascere dalla voglia di lavorare con quel dato regista. Allo stesso modo si sceglie perché si ha l’occasione di lavorare con un attore o un’attrice che apprezzi. Nel caso di Luchetti, per esempio, mi ha affascinato il fatto che Daniele avesse pensato a me, che ho fatto sempre personaggi di un certo tipo – la laureata, l’intellettuale – per il ruolo di una ragazza della periferia romana incinta del terzo figlio a ventotto anni. A volte ti affascina la sfida. E dici no all’ennesima Marta di Tutta la vita davanti che ti propongono, anche se magari era un grandissimo film, ti davano tantissimi soldi… Fai anche delle rinunce. Quindi, tornando a quello che dicevo prima, ci sono entrambe le cose: c’è la fortuna e c’è la scelta. So perfettamente, per ogni film, perché l’ho scelto.
C’è un no del quale ti sei pentita?
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_x000D_No, per adesso no.
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_x000D_E un film interpretato da qualche altra attrice per il quale ti sei detta “Quella parte sarebbe stata adatta a me”?
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_x000D_Fortunatamente, come quelli che sono appassionati ed esperti di musica, o come i critici che non si emozionano più perché non riescono a non guardare il lato tecnico, le varie pecche, le sbavature, io conservo questo atteggiamento, perché non avendo scelto il cinema ma essendo stato il cinema a scegliere me, ero prima una grande cinefila e appassionata; quindi quando vado a vedere un film identifico il personaggio con quell’attrice. E allora difficilmente mi viene di pensare una cosa del genere. A volte mi è capitato di finire tra le ultime due che potevano ottenere una data parte e poi, visto il film, mi sono detta “ovviamente era giusta lei”. No, non sono così masochista… E poi mi ritengo molto fortunata, avendo avuto la possibilità di fare dei ruoli molto belli. Per esempio, iniziare con un personaggio come Marta di Tutta la vita davanti è una grande fortuna: era una protagonista, e non solo nel senso nel numero di pose…
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_x000D_Il film era lei.
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_x000D_Esatto, era il suo sguardo.
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_x000D_E tu che tipo di spettatrice sei?
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_x000D_Onnivora. Vado a periodi, come per la musica, l’altra mia grande passione. In genere mi piacciono i film che riescono a emozionare anche parlando di massimi sistemi, che coniugano riflessione e fruibilità. Mi piacciono i film di Tarkovskij, Kieslowski, Polanski mi piace il cinema russo, polacco, ma nello stesso tempo anche cose molto commerciali, sono insomma molto aperta. Non mi piacciono i film dai quali so già cosa aspettarmi: preferisco un film impefetto, ma che ha anche poche scene che so che mi porterò dietro a lungo, al film perfettino, ma chiuso che poi dimentico dopo due ore. Mi piacciono i film imperfetti che però sono coraggiosi, che hanno dei picchi. Vedere cinema poi mi serve anche per il mio lavoro: a volte mi capita di fare associazioni mentali; magari sto facendo un film e mi viene in mente una certa sensazione e penso a una scena particolare… Mi piace questo potere evocativo del cinema che riassume tutto in un’immagine. Poi ci sono dei registi, come Woody Allen o Truffaut, i cui film li avrò visti mille volte e nella memoria li confondo uno con l’altro… Scene che non ricordo più in che film sono… A me piacciono i registi che hanno delle ossessioni, che fanno sempre lo stesso film, che hanno uno stile preciso, tanto da riconoscerli solo guardando un’inquadratura.
Parlando della tua carriera, cosa ricordi della tua esperienza in Nuovomondo di Crialese?
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_x000D_E’ stata la prima, pensavo che morisse lì tanto che poi sono tornata a fare teatro, la consideravo più un’esperienza di vita. All’inizio ero solo nella parte in Argentina poi sono stata promossa e sono apparsa anche nella parte in Sicilia… E’ stato un inizio molto particolare, tanto che con Virzì è stato un ricominciare: con lui ho imparato tutto quello che c’è da sapere tecnicamente sul cinema, mi ha insegnato tutto. Con Crialese è stato un inizio soft perché lui ha un metodo molto teatrale: un mese prima ci ha riunito tutti, anche coloro che avevano due scene; facevamo laboratori come a teatro. Lì ho imparato l’”affidarsi” perché Emanuele è uno che con noi non comunicava tanto, non dava tante indicazioni, ti lasciava libero di andare. Questo, col senno di poi, penso che fosse un suo modo per far intonare attori professionisti e non professionisti: a questi ultimi dava moltissime indicazioni, venivano molto accompagnati e tu ti ritrovavi a chiedere a loro “Cosa ha detto? Cosa dobbiamo fare?”; questa cosa ti toglie un po’ della mania dell’attore del voler controllare tutto. Con Crialese non era proprio possibile fare un discorso di questo tipo. E’ stato un bell’inizio perché lavorando a quel film, che ha delle immagini che rimangono nella storia del cinema, delle scene che sono una gioia per gli occhi, mi sono resa conto da subito che ero parte di un affresco, che noi eravamo parte di un quadro, in cui non c’era il singolo…
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_x000D_Parte di una visione.
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_x000D_Esatto: dovevi entrare nella visione di Emanuele e abbandonarti, sicuro di essere in buone mani. Lui è un bravissimo regista, sono stata molto fortunata ad avere questo primo impatto. Quando ho lavorato con Virzì è stato davvero come fare un altro mestiere perché sono completamente diversi nell’approccio.
A proposito di Virzì Tutta la vita davanti è uno dei suoi film più crudeli, un ritratto senza sconti della realtà attuale del nostro Paese.
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_x000D_Non consolatorio, anche.
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_x000D_Esatto, e in questo lo trovo molto vicino alla tradizione della commedia all’italiana; è in questa crudeltà il senso della continuità con quella tradizione.
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_x000D_Sì. E poi Virzì ha una grande fiducia negli attori, ti lascia molto spazio nel tratteggiare i personaggi, e riesce a curare nello stesso modo tutti i ruoli, anche l’ultima comparsa… E infatti se noti in tutti i film di Virzì gli attori ne escono benissimo. Lui disegna molto, fa le caricature di ognuno, quando ti vede ti fa subito lo schizzo e in poche pennellate riesce a disegnarti il personaggio, vizi e virtù. Il mio forse era il personaggio più smussato, quello in cui tutti si dovevano identificare, quindi non doveva essere molto caratterizzato, però tutti quelli che gli girano intorno sono caratteri memorabili: quello di Elio Germano ti apre un mondo sui venditori, quelli della Ferilli e della Ramazzotti, il sindacalista di Mastrandrea sono tutti fortemente attuali. Lui ha la capacità di raccontare le cose mentre accadono, il loro flusso continuo, e questa è una cosa difficilissima. Virzì in questo dimostra un grande coraggio, l’eccezionale capacità di raccontare il contemporaneo: nel suo cinema ci sono i cellulari, c’è il Grande Fratello, si vedono il computer e Skype, lui mette letteralmente le mani nel contemporaneo e riesce a raccontartelo.
_x000D_Poi sono grata a Tutta la vita davanti anche perché è stato un film che mi ha permesso di entrare nell’immaginario, il personaggio di Marta è diventata un simbolo, penso alle manifestazioni degli universitari. Virzì mi ha permesso di incarnare un personaggio che è quasi un fumetto, l’eroina dei nostri tempi.
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_x000D_In questo senso è un film che ha squarciato un velo, che ha raccontato una realtà che nessuno aveva mai presentato al pubblico.
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_x000D_Sì, è stato il primo film popolare che parlasse di invisibili, di ragazzi che non erano mai stati rappresentati. Non si parlava mai del precariato.
Parliamo di Dieci inverni, film che io trovo davvero fuori standard per il nostro cinema, per la sua struttura, le sue ellissi, per come coinvolge lo spettatore nell’opera di ricostruzione della storia della coppia protagonista.
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_x000D_Dieci inverni è stata una scommessa, non eravamo nemmeno sicuri che uscisse, noi attori non eravamo così famosi da portare gente al cinema, era un’opera prima, anche molto ambiziosa, abbiamo girato a Venezia, che è complicatissimo, immaginerai perché. Poi c’era la coproduzione russa… Ma io ho una mia etica di lavoro che mi dice di scegliere i film non valutandoli sulla carta, ma pensando a me, perché credo che con questo egoismo faccio un servizio migliore. Dieci inverni l’ho scelto perché per me era un’occasione unica di lavorare su un personaggio in evoluzione dai diciotto ai ventotto anni, cosa rarissima: di solito nei film vedi un personaggio a vent’anni e poi magari lo ritrovi quarantenne; l’idea di un personaggio che cambia minimamente e di fare un lavoro di fino per rendere questo processo mi attirava molto; per me come attrice è stata la prova più difficile e ho lavorato davvero tanto, anche perché ovviamente non si girava secondo l’ordine cronologico. E’ stato molto importante lavorare con Michele [Riondino ndr] che già conoscevo, perché c’era una grande sintonia, ci siamo molto aiutati. Poi in un’opera prima il regista si forma mentre la gira, non arriva con le idee chiare e uno stile definito: questo ci ha molto responsabilizzati e ci ha portato a lavorare molto insieme. Trovo che sia una storia semplicissima, nella quale tante persone si identificano, però calata in una struttura molto originale.
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_x000D_Ed è un segnale incoraggiante.
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_x000D_C’è tutta una nuova generazione di registi – parlo anche di Aronadio per Due vite per caso – con cui veramente puoi parlare di cinema: sono molto giovani, ma hanno visto tanti film e hanno una grande attenzione, uno sguardo molto chiaro, sanno quello che vogliono fare. A volte incontro ragazzi che vogliono intraprendere la carriera attoriale, mi chiedono un consiglio e mi viene da chiedere “Hai visto questo film? Sei andato a teatro?”, cioè andare al cinema, a teatro, guardare, scoprire è importantissimo… Non puoi pensare di voler fare il regista o l’attore senza avere una passione per quelle arti. Io riconosco negli autori delle opere prime che ho fatto dei grandi amanti di cinema e credo che questa passione emerga.
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_x000D_E infatti, come ti dicevo, di Dieci inverni mi ha colpito molto la maturità di sguardo e l’azzardo nel condurre il film fuori dai canoni, aspetti che quasi non fanno pensare al film di un debuttante.
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_x000D_Ecco, quello viene sicuramente da una cultura cinematografica. Certo, Mieli è stato affiancato anche da un grande direttore della fotografia come Marco Onorato che ci ha aiutato tantissimo, un uomo di grande esperienza che ha fatto una luce bellissima, una Venezia vera, non da cartolina, proprio quella che vivono gli studenti… Quel film è davvero un miracolo. C’è gente che lo rivede tante volte, è arrivato davvero a tutti. Ero senza speranze all’inizio, pensavo lo togliessero dopo una settimana e invece col passaparola, senza pubblicità, siamo riusciti ad arrivare a un pubblico numeroso. E’ un film che può dare speranza, ci dice che anche con una storia molto piccola si può fare un buon film.
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_x000D_Volevo parlare del tuo impegno per Se non ora quando che sottintende una scelta di campo. La questione dello svilimento della figura femminile si può riscontrare anche nel nostro cinema?
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_x000D_Sto molto attenta a questa cosa, lo vedi dalle mie scelte. Sono molto attenta nell’evitare lo stereotipo, che nel ruolo che ricopro non ci siano ovvietà… Quello che mi dà fastidio è in realtà il modello unico, penso che ci siano tanti modi di essere una donna e quindi mi fa piacere che le donne, che rappresentano la maggior parte del pubblico cinematografico, si sentano adeguatamente rappresentate. La mia generazione è molto sconfortata, non ha più voglia di lottare per niente proprio perché dovrebbe scendere in piazza ogni due secondi… Mi sembrava che la questione femminile smuovesse altri temi, fosse un modo per parlare di tante altre cose: di lavoro, di maternità, di immagine, affrontando il discorso mediatico. Il senso della mia adesione è questo, adesione che mi è stata chiesta come attrice, non come opinionista. Tutto questo è nato da uno spettacolo teatrale: riutilizzare il teatro, come luogo d’incontro in un mondo in cui sembra che se non vai in TV una cosa non esiste, e confrontarsi con i problemi delle donne. E degli uomini, perché naturalmente il discorso era aperto anche a loro. Era un modo per essere al servizio di una cosa che pensavo fosse giusta, ma con il mio lavoro.
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_x000D_E riguardo al cinema?
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_x000D_Penso che al cinema le cose stiano cambiando: c’è una generazione di interpreti femminili molto forte, attrici che non sono soprammobili, ma hanno una forza e un carattere. Quindi si comincia a scrivere per loro. Il primo incarico, ad esempio, non è solo un film con una protagonista femminile, ma è portatore di uno sguardo femminile. E infatti è un film odiato da molti uomini oppure amato da uomini che hanno una visione un po’ femminile delle cose e sicuramente molto amato delle donne. Come se usasse un linguaggio diverso. Quello è importante: che non ci sia solo uno sguardo maschile. Poi se guardiamo al passato ci sono stati registi che hanno rappresentato benissimo la donna, penso ad Antonioni o a film come Io la conoscevo bene, La ragazza con la valigia; c’era un’attenzione per i personaggi femminili straordinaria. Il nostro cinema è stato grande anche per questo. Una cosa che non deve perdersi.
A proposito della figura di Nena nel film di Giorgia Cecere Il primo incarico, ho avuto l’impressione che il bagaglio culturale della protagonista in qualche modo le offuschi la vista, che non le consenta di vedere con chiarezza nei suoi sentimenti e che il contatto con questa realtà diversa, più antica ed essenziale, quella del paesino del primo incarico di insegnante, in qualche modo le consenta di scoprire i propri reali intenti…
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_x000D_E’ un’interpretazione possibile. Il mio approccio comunque non era tanto rivolto a quell’aspetto, ma era più universale. E’ ovvio che si parla di un passaggio: quello di una persona che ha immaginato la vita in un certo modo, in una fase esistenziale in cui, uscita dall’adolescenza, si scontra con la realtà. Sicuramente questo è un momento che Nena vive in un modo più struggente perché ha la sensibilità e degli strumenti. Però la sua cultura non è solo una zavorra, perché è anche quello che la porta fuori: è una forza. Il film parla dell’affermazione di una donna e ci ricorda quanto è importante la propria realizzazione, attraverso il lavoro; infatti quando alla fine Nena sceglie, non sceglie un uomo: sceglie una vita, la vita che ha costruito in quel luogo dove faticosamente ha lottato per essere se stessa.
_x000D_In ogni caso è un film che si presta a tante interpretazioni, che rispecchiano lo spettatore, perché è molto libero, tanto da non imporre una lettura forzata, cosa che al cinema mi dà molto fastidio: “Qui devi ridere… Qui devi piangere… Il messaggio è questo”. In questo caso ognuno può assecondare la sua sensazione…
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_x000D_Sono completamente d’accordo. Il primo incarico è un film che ha suscitato in me diverse impressioni che mi hanno condotto a letture che riconosco come molto personali e questo proprio perché si presenta come un’opera volutamente aperta…
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_x000D_E’ la sua fortuna quella di lasciare gli spettatori molto liberi e infatti ci tengo particolarmente a seguire il film, a sentire le reazioni del pubblico; spesso sono andata all’uscita della sala, anche a sorpresa; mi piace sempre ascoltare i pareri proprio perché questo film si pone come un’esperienza personale… Se ti narro la storia sembra una cosa semplice: il racconto di una ragazza che lascia il suo paese; in realtà è molto di più, è un lavoro che tocca davvero delle corde intime perché, come anche in Dieci inverni, tratta dell’esperienza della giovinezza, un momento della vita in cui tutto ti sembra chiaro, si esprimono giudizi netti, si hanno convinzioni più taglienti, laddove crescendo impari a fare dei compromessi; ma in un senso positivo, di maturazione…
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_x000D_Per finire: posso chiederti che rapporto hai con la critica? Leggi le recensioni, vai su internet, compri delle testate? Insomma: vuoi sapere cosa si dice di te?
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_x000D_Assolutamente sì! Ho un rapporto che sto gestendo da poco perché è sempre difficile trovare un distacco, a volte certe cose ti feriscono. Internet cerco sempre di prenderla con le pinze perché chiunque può scriverci. Nello stesso tempo è una grande possibilità perché spesso senti che il cartaceo è un po’ più limitato, che può dire e non dire mentre sulla rete vedi anche giovani critici molto preparati e non di parte a prescindere. Fino ad ora, comunque, sono stata abbastanza fortunata; e poi sono autocritica e nello stesso tempo leggera, so che tutto potevo farlo meglio, non sono una che rivedendosi dice “che brava, sono troppo forte”, penso sempre che potrò migliorare.
_x000D_Comunque sì, mi piace la critica, mi piace leggerla e lo facevo anche prima di cominciare questo mestiere. So che non puoi piacere a tutti, che magari ci sono persone che non ti apprezzano e me ne faccio una ragione, nella consapevolezza che critica peggiore di quella che faccio io non ci può essere… Anche di film per i quali la critica si è espressa benissimo, per i quali sono state dette cose stupende. Anche per Il primo incarico per esempio: dentro di me so di cose che non mi piacciono. Ripeto, sono molto autocritica, posso operare la mia stroncatura: è difficile che qualcuno dica qualcosa di peggio. Certo, mi ferisce il commento gratuito, ma una critica ben scritta, anche negativa io la apprezzo: comunque hai fatto discutere, hai fatto pensare.
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