

_x000D_Giovanni Venosta nasce ad Udine nel 1961, si è diplomato in pianoforte nel 1983. In campo cinematografico collabora strettamente con Silvio Soldini:L'aria serena dell'Ovest (1989); Un'anima divisa in due (1993); Miracoli – D'estate (1993); Le acrobate (1997); Pane e tulipani (1999), premio Ciak d'oro come miglior colonna sonora; Brucio nel vento (2002), Agata e la tempesta (2004) e Giorni e nuvole (2007) per i quali ha avuto la nomination al David di Donatello, Cosa voglio di più (2010). Inoltre è autore delle musiche dei film Tutti gli anni una volta l'anno (1994) di Gianfrancesco Lazotti, Waalo fendo (1997) di Mohammed Soudani, Princesa (2000) di Henrique Goldman, Pesi leggeri (2001) di Enrico Pau, Promised Land (2004) di Michael Beltrami, Estômago (2008) di Marcos Jorge per il quale ha ottenuto la nomination al Grande Prêmio Vivo do Cinema Brasileiro, Sono viva (2008) di Dino e Filippo Gentili, Il caso dell'infedele Klara (2009) di Roberto Faenza e di vari cortometraggi e documentari principalmente con la regia di S. Soldini, M. Soudani e Giorgio Garini. Nel 1998 scrive (insieme a Roberto Musci e Chris Cutler) il nuovo commento musicale per il film Vampyr (1932) del regista Carl Theodor Dreyer. Compone alcune musiche per il teatro, quali Le ombre di Otello (1993) di Clara Sanchis e Fabio Modesti, Bilad-al Sudan (1996) di Tony Cots e Se è una bambina (2008) di Giorgio Scaramuzzino; per la danza, realizza con R. Musci Principle of moment (1994) di Dieter Heitkamp-Tanzfabrik e Gli scordati (2001) per Giorgio Rossi-Sosta Palmizi. In campo discografico ha realizzato nel 1985 Olimpic signals, insieme a R. Musci Water messages on desert sand (1987), Urban & tribal portraits (1989), Messages & portraits (1992) e A noise a sound (1992), con R. Musci e Massimo Mariani Losing the orthodox path (1997) con Alfredo Lagos e M. Mariani Metamorphoses – electronic adventures in Flamenco (1999). Nel 2002 (e nel 2010) compone la sigla del Festival di Locarno. Dal 2005 al 2007 si esibisce col progetto “diSturb und Drang” insieme a Roberto Zanisi e Giovanni Falzone. E' inoltre membro permanente del gruppo “afro-beat” Mamud Band.
Conversazione telefonica.
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_x000D_GS: Tu non sei solo compositore per il cinema: ci presenti la tua attività di musicista?
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_x000D_GV: Non parto come compositore per il cinema, anzi, non parto nemmeno come compositore. Mi sono diplomato nell’83 in pianoforte al Conservatorio e non ho mai preso lezioni di composizione: sono totalmente autodidatta. A diciott’anni non sono stato accettato alle classi di composizione. Nel frattempo cresceva l’amore per il cinema e durante il liceo bigiavo per andare in qualche sala che organizzava matinée. Comunque: mi sono sviluppato un percorso di ascolti e di piccoli progetti, sfociati poi nell’84 in un disco autoprodotto con il contributo di Radio Popolare; un disco di stampo minimalista, che parte da Nyman, passando da Zappa, Abdullah Ibrahim e la Penguin Café Orchestra. Da lì a poco nasce un sodalizio con Roberto Musci, esperto di musica etnica in tempi non sospetti: registrava musica indigena sul campo durante i suoi viaggi, trattava il materiale con la apparecchiature elettroniche disponibili al tempo, poi mi sottoponeva quei nastri tagliati e cuciti ed io li mescolavo e li rigurgitavo in altra maniera. Realizzammo un tape (Water Messages on Desert Sand) che consegnai, durante una conferenza, a Chris Cutler, nome che ai cinefili non dirà nulla, ma che era e rimane un personaggio di culto dell’avanguardia non classica, batterista inconfondibile, fondatore degli Henry Cow e degli Art Bears e di un’etichetta, la Recommended Records, con cui produceva cose strane dal mondo (ride, NdR). Cutler fu entusiasta del tape. In effetti, a quei tempi, l’unica cosa che poteva assomigliare al nostro lavoro – campionamenti di musica etnica con musica rock – era My life in the bush of ghosts di Byrne/Eno, anche se il nostro approccio era molto meno “rock”. Musci ed io abbiamo realizzato diversi dischi per la Recommended Records e uno (insieme a Massimo Mariani) per Victo, etichetta québécoise. Mariani ben presto diventerà colui il quale tuttora presiede alla registrazione delle mie colonne sonore. Del 2000 è Metamorphoses / Electronic Adventures in Flamenco un disco con Mariani, elaborazione elettro-acustica di improvvisazioni dello straordinario Alfredo Lagos alla chitarra flamenco, un album che fece parlare di sé nell’ambiente, come un alto momento di avanguardia, tanto che ci valse la copertina di Alias. Poi ho (ahimè) abbandonato quel terreno di ricerca: sia perché ho iniziato a fare qualche film in più, sia perché quella musica era impossibile da eseguire dal vivo e aveva una veicolazione davvero di nicchia. Erano progetti fuori dal mercato e senza il sostegno delle accademie. L’ultimo frammento di carriera musicale svincolato dal cinema è un trio composto da Giovanni Falzone, Roberto Zanisi e me: ci chiamavamo diSturb und Drang, abbiamo fatto concerti di cui si dicevano meraviglie. Ma erano sporadiche performance per pochi, quaranta/cinquanta persone a fronte di uno studio che, per sostenere il virtuosismo delle nostre composizioni, era intensissimo. Infine, due anni fa, all’età di quarantasei anni, mi sono associato ad una band di afrobeat, la Mamud Band: la musica africana e l’Africa sono tra le cose che amo di più. Siamo un gruppo di eccellenti musicisti che si divertono e fanno ballare la gente. Comunque la mia storia è questa, quella di un pianista che si è trovato a fare il compositore suo malgrado. Suo malgrado perché l’incontro con Soldini è stato assolutamente casuale: un mio fraterno compagno delle elementari – Giorgio Garini, oggi ottimo documentarista – era il suo aiuto regista. Comunque le esperienze avant-garde con Musci e Mariani mi sono utili tutt’ora perché seguo tecniche di registrazione simili per le colonne sonore._x000D_GS: Con Soldini lavori da “L’aria serena dell’ovest”. Con “Cosa voglio di più” il vostro sodalizio compie vent’anni. Le tue composizioni sono facilmente riconoscibili e hanno contribuito a rendere riconoscibile la firma di un autore eclettico come Soldini: le tue musiche fanno parte integrante del suo stile. Come è evoluta la vostra collaborazione nel corso di questi anni? Com’è il vostro modus operandi? Svolgi anche un ruolo sul set?
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_x000D_GV: Prima però ho io due domande da porti.
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_x000D_GS: Prego
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_x000D_GV: Trovi che le mie composizioni siano riconoscibili?
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_x000D_GS: Sì. E non solo io. Ma non ho assolutamente la conoscenza musicale adeguata per dirti il perché.
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_x000D_GV: Sarebbe interessante capire quanto questa percezione di compattezza sia dovuta al mio modo di fare musica e quanto influisca invece il fatto che sia musica per i film di Soldini. Purtroppo gli altri miei lavori non sono così tanto conosciuti da potere permettere un confronto. Comunque l’altra domanda che volevo porti è questa: secondo te Soldini è un regista eclettico? Se sì, perché (ride, NdR)?
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_x000D_GS: Sì. Perché nonostante il suo sia un percorso compatto, anche tematicamente, il suo cinema ha avuto un’evoluzione, ha attraversato diversi generi e la sua filmografia presenta toni e modulazioni differenti di film in film…
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_x000D_GV: E’ vero. A me piace dividere la carriera di Soldini in tre categorie. Innanzitutto la Trilogia delle A (L’aria serena dell’Ovest, Un’anima divisa in due, Le acrobate), a cui nel tempo si sono aggiunti Giorni e nuvole e ora Cosa voglio di più. La seconda categoria è composta da Pane e tulipani e Agata e la tempesta. Poi, a sé, c’è Brucio nel vento, che è uno dei film di Soldini che prediligo._x000D_GS: E’ anche il mio preferito.
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_x000D_GV: Ci fu una noiosa querelle sull’adattamento del finale. Io ho amato molto il romanzo, ho amato molto il film. Agota Kristof, dopo averlo visto, disse a Silvio che non si era accorta di avere scritto un libro così bello. Comunque, ritornando alla tua domanda precedente, succede che spesso i registi non abbiano una gran cultura musicale, quindi quando devono parlare di musica si trovano imbarazzati: a volte non sanno cosa dire, se sono molto decisi dicono cose che ti disorientano, con aggettivi extra-musicali che il compositore spesso non comprende, aggettivi come freddo o caldo, triste o allegro, cose che dipendono moltissimo, troppo, dalla soggettività di ognuno. Quindi è necessario trovare un alfabeto comune di comunicazione. A Silvio facevo cassette o compilation su CD, in maniera tale che lui potesse dirmi: “C’è quell’atmosfera, in quel brano, che mi piacerebbe recuperare in quella cosa…”. Definivamo così una tavolozza concreta di elementi su cui lavorare, costruendo così un territorio di relazione. Naturalmente, potrai ben capire, è anche un’arma a doppio taglio: quando una persona si sente sicura comincia a intervenire sulla tua materia compositiva. Soldini è molto puntiglioso. Nel corso di questi anni la sua conoscenza della musica è aumentata notevolmente, quindi capita che intervenga anche sulle singole note. Sul set, invece, non mi è mai capitato di lavorare, se non per la musica diegetica. Soldini è sicuramente uno dei registi che meglio riprende la musica dal vivo, restituendola così come è, ponendosi sempre il problema della rappresentazione: se uno suona lo fa sul serio. E’ esemplare il fatto che sia stato molto colpito da Rachel getting married, in cui una band suona mentre la situazione si sviluppa. Al contempo, però, non è un regista che ama la musica in senso assoluto, è uno che lavora per sottrazione. Se collabori con lui devi ridimensionare il tuo ego musicale. Devi comprendere la sua poetica. Per dire: nel CD con la colonna sonora di Cosa voglio di più c’è materiale almeno per un altro film.
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_x000D_GS: Ci si può consolare con un mercato, seppure di nicchia, come quello delle colonne sonore?
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_x000D_GV: In generale se mi fossi dovuto basare sul mercato del disco non mi potrei comprare nemmeno le sigarette (ride, NdR)._x000D_GS: Arriviamo a “Cosa voglio di più”. La musica è tutt’altro che invadente, giocata su pochi elementi, con un tema ricorrente. Come il film evoca paesaggi interiori senza spiegarli, ha un carattere affettivo sfuggente, che entra in dialettica con l’immagine senza diventare una didascalia emotiva netta. Ci parli del tuo lavoro rispetto a questo film? Come hai gestito la suddivisione in tre atti (Anna, Domenico, Anna e Domenico)?
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_x000D_GV: La tua descrizione è giustissima e non vale solo per questo film, vale per tutta la poetica di Soldini. La musica deve avere questa valenza. Non ci sono santi. Per questo c’è poca musica: a lui non piace evidenziare, se già l’immagine parla da sè. In questo mi trova abbastanza d’accordo e quindi non ho difficoltà a entrare nella sua ottica. Anche in Pane e tulipani, commedia floreale e solare, non c’è tanta musica. La cosa bizzarra è che ogni volta, per questi film, ottengo la nomination ai David: paradossalmente il fatto che ci sia così poca musica forse permette di farla ricordare di più. Non ho lavorato sulla suddivisione in tre atti. Il film è in continua rielaborazione e io non ho la visione complessiva dell’opera, mentre lavoro. Con Silvio ci concentriamo soprattutto sul colore che dovrebbe avere la colonna sonora, sul senso e la funzione che deve avere. Ascoltiamo musica insieme, ci vediamo dei film in cui la musica è utilizzata in maniera particolare. Un autore che ricorre spesso, anche se non necessariamente per quest’ultimo film, è Mike Leigh: usa poca musica, in maniera mai retorica, spesso e volentieri estremamente dissonante e spigolosa. Silvio è molto affascinato da questo modo di trattare la colonna sonora. Dopo tutto questo processo di ascolti e confronti si giunge a quello che potrebbe essere il timbro della colonna sonora. A maggio/giugno dell’anno scorso ascoltiamo dei pezzi, capiamo che Cosa voglio di più sarà un film urbano, sentimentale e crudo, realista. Poteva essere un film, passami il termine anche se sembra banale, un po’ rock, nel senso più lato del termine. Capiamo che ci potrebbe essere una chitarra elettrica. Allora io raccolgo brani in cui suonano chitarre elettriche in una serie di dischi e film. Facciamo le prime ricerche di consulenza musicale, di confronto e avvicinamento: così ho fatto ascoltare a Silvio alcuni brani da Mulholland drive; gli avevo chiarito che una chitarra come quella molto levigata di un Bill Frisell non andava bene. Quel tipo di stile jazzato non mi interessava, né tantomeno uno stile country: Milano country non è proprio il caso (ride, NdR). Poi gli ho fatto sentire Marc Ribot, chitarrista di John Zorn e Tom Waits e, infine, gli ho proposto il trio di un mio amico, Alberto Turra, chitarrista molto versatile, che ha gruppi che dal trash metal arrivano al jazz. Iniziamo a lavorare con questo trio, chitarra/basso/batteria: qualche armonia e linea melodica, infine gestione delle improvvisazioni. Sono solito registrare i singoli strumenti uno per uno, anche con gruppi numerosi. Batteria, basso e chitarra sono stati incisi in tre giorni diversi, con piste separate, in modo tale che io e il regista possiamo poi gestirle a nostro piacimento. E’ un metodo che in maniera così radicale utilizzano decisamente in pochi. Con Faenza (Il caso dell’infedele Klara) è stato lo stesso e così in Giorni e nuvole. E’ tutto un gioco di ricostruzione di una musica che a volte i musicisti non si rendono neanche conto di aver suonato in sede di registrazione. Si tratta di manipolazione (e montaggio), come nella musica elettro-acustica. Lo faccio sin dai tempi de Le acrobate. Comunque vorrei chiudere con una massima che condivido: il mestiere del perfetto compositore è essere al servizio del regista._x000D_GS: Nella colonna musicale di Cosa voglio di più c’è una citazione che a visione ultimata appare molto significativa: “Eclisse Twist”, celeberrimo brano scritto da Fusco e Antonioni per “L’eclisse” e cantato da Mina. “Cosa voglio di più” è in effetti una sorta di versione aggiornata e declassata socialmente del film di Antonioni. E’ stata una tua idea?
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_x000D_GV: A questa cosa non avevo mai pensato. A Soldini potrebbe anche far piacere. In effetti sia Silvio che Antonioni sono fotografi d’istantanea della realtà che li circonda. Anche il finale potrebbe avvicinare i due film. Lui però non ha mai accennato nulla a riguardo. A questo proposito, provocatoriamente, ti cito un aneddoto: una volta Tarkovskij, in una conferenza, riferì di questa domanda che gli facevano sempre: “Qual’è il significato dell’acqua nei suoi film?” Su quest’acqua sono state scritte pagine su pagine. Lui rispose: “Uso l’acqua perché è fotogenica”. Era una provocazione, evidentemente. Così uno sente “Eclisse Twist” e dice: “Però… sembrerebbe riporti a quel film di Antonioni”. Ora ti spiego come le scelte economiche e produttive fanno muovere verso una scelta anziché un’altra. Quando si devono scegliere brani editi, le possibilità si riducono incredibilmente. Questi brani costano un sacco di soldi. E se la colonna sonora di un film ha un budget di qualche decina di migliaia di euro, comprendendo musicisti, compositore, tecnici, missaggio etc, è chiaro che se un brano da solo costa come tutta la colonna sonora, c’è qualcosa che non va. In Italia nei parametri di produzione la voce musica non è quasi mai prevista. Quindi cosa succede? Si va da un editore. Nello specifico un editore che ha prodotto parecchi film di Soldini, CAM, che ha nel catalogo parecchie colonne sonore di film: Fusco, Rota, Morricone, molti film di Totò, insomma una vasta serie di brani, ovviamente da noi utilizzabili gratuitamente. Abbiamo cercato un pezzo che potesse andare bene per la sequenza del mangiadischi. A me è venuto in mente “Eclisse Twist”, di cui mi ricordavo perché quei cataloghi li ho setacciati in lungo e in largo. Tra l’altro sarebbe stata una scelta divertente, visto che la stessa canzone viene suonata da me e Massimo Mariani, dal vivo, in Pane e Tulipani, poco prima che Don Backy si metta a cantare. Lì era una versione strumentale. Qui l’abbiamo utilizzata per esteso, cantata, come nell’originale. Questa è la storia dell’utilizzo di questo brano, che comunque non era disponibile nella versione cantata da Mina, che non concede più diritti e che, se e quando lo fa, lo fa a prezzi troppo elevati per i nostri budget. Allora ho fatto cantare la canzone a Liliana Bancolini, che ha tenuto un po’ di moine ed inflessioni à la Mina, e quindi ho reinciso il tutto sopra la base. Dico questo perché è interessante come questioni casuali e giocosamente metatestuali possano produrre significati e rimandi non voluti ma in qualche modo coerenti._x000D_GS: Ripeti spesso che una colonna musicale deve anche sapere tacere…
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_x000D_GV: Da cinefilo ho una sorta di avversione rispetto a un certo tipo di cinema americano. La colonna sonora di tante mega-produzioni, anche decisamente interessanti, mi disturba. Questo horror vacui della dimensione sonora tipico dei film di Hollywood mi disturba fisicamente: esco dal cinema frastornato, con la nausea. Avatar, per dire, è un film pazzesco, con immagini incredibili. Però mi dico: per quanto riguarda la musica Cameron non ha avuto lo stesso coraggio che ha avuto per il resto, né da un punto di vista della scelta retorica, né da un punto di vista di economia della colonna sonora. Avatar è un esempio, ma questa cosa si può declinare per qualsiasi filmone americano, sin dai tempi più remoti. Le perplessità che ho nei confronti del cinema statunitense sono giustificate soprattutto dalle invasive colonne sonore.
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_x000D_GS: Oltre a quelle di ordine economico, delle quali hai parlato poco fa, quali sono le difficoltà per un compositore di musica per il cinema oggi, in Italia?
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_x000D_GV: Non voglio fare l’apologia degli anni ’60 / ’70, quella sorta di Eldorado del cinema mondiale, con sceneggiature, musica e soggetti pazzeschi, che se oggi fossero presentati a dei produttori sarebbero gettati dalla finestra. Ma è obiettivo che non ci sia più la possibilità di fare quel tipo cinema. Non c’è più la possibilità di sperimentare. Il ritorno economico è centrale, e in effetti il cinema è sempre stato una (seppur nobile) industria. Però lo era anche in quegli anni, in cui sperimentare era possibile._x000D_GS: In effetti esperienze avanguardistiche come il rapporto tra Petri e Morricone (penso ad esempio a “Un tranquillo posto di campagna”) sono decisamente rare nel cinema di oggi. Mi vengono in mente certi passaggi tutt’altro che accomodanti acusticamente di “Brucio nel vento”…
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_x000D_GV: Morricone rimane, se non il più grande, uno dei più grandi musicisti di musica per immagini, non ci sono dubbi. Provo sempre grande piacere a sentire i film che lui ha musicato. Uso il passato perché gli ultimi lavori mi lasciano un po’ perplesso, ma su una produzione così vasta è fisiologico ci siano dei momenti meno riusciti. Lui ha avuto un talento raro e una grande fortuna, cioè che questo suo talento sia sbocciato durante quell’Eldorado di cui parlavamo prima. Fosse sbocciato nel 2010, non so se si sarebbe imposto a tale livello. In Un tranquillo posto di campagna Morricone riporta le sue esperienze di musica radicale improvvisativa all’interno di un film di fiction. Ma ti rendi conto? Oggi sarebbe impensabile, quanto i marziani a Concorezzo. Sembra sia stato un sogno. Quello di cui soffre la musica per il cinema in Italia sono gli stessi difetti presenti in altri settori. Oggi un Morricone non potrebbe esprimere le sue potenzialità. Il mondo è cambiato. Non ho nostalgia degli anni ’70: avevo dieci anni, cosa ne so? E’ esattamente come dire: sarebbe stato meraviglioso vivere all’inizio del Novecento a Parigi. E’ così e basta. Secondo me questo è un periodo di flessione, le offerte vanno verso una forza centripeta a causa del mercato globale, non ci si differenzia, ci si rincorre, ci si omologa. Certamente ogni tanto posso permettermi di costruire qualcosa di più personale, se il regista me lo consente. Ma al regista deve permetterlo la produzione. Sono rarissimi i registi che oggigiorno si possono permettere una colonna sonora altra. Uno di questi è forse David Lynch. Al contrario sembra che spesso, se osi nel visivo, devi compensare nella colonna sonora.GS: “Il divo” è un film che ultimamente ha fatto ricorso a un modo tutt’altro che banale di intendere il rapporto tra musica e immagine. Che ne pensi?
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_x000D_GV: Penso che Teho Teardo sia uno dei compositori italiani più interessanti. Ha avuto la fortuna di trovare un regista a cui piace la musica. Sorrentino può piacere o no, ma siamo sicuri che si tratta di uno a cui piace la musica. Sbaglia? Non sbaglia? Chi se ne importa: gli piace. Quindi si trova un compositore intelligente e sensibile, con il gusto della sperimentazione come Teardo. Il divo è un film stravagante, che mi è piaciuto, anche se non sono un propriamente un sorrentiniano. Non c’è distonia tra musica e immagine: il registro è comune, si parla il medesimo linguaggio. E’ questo che funziona, per quanto mi riguarda. Con questo non voglio dire che a Soldini non piaccia la musica. Ma Soldini è un bressoniano. Più volte mi ha detto che gli piacerebbe fare un film completamente senza musica. Oppure che gli piacerebbe fare un musical, inteso come ripresa di musica rappresentata, quindi con una vocazione realista. Certamente a volte è stimolante avere a che fare con un regista che ha voglia di sperimentare, che ti dà non dico carta bianca, ma la possibilità di premere il pedale dell’acceleratore fino in fondo: mi è successo con un regista, ultimamente, e i risultati si sono visti. Si tratta di Marcos Jorge, per il quale ho realizzato la colonna sonora di Estômago.GS: Estômago, coproduzione tra Brasile e Italia, è un’opera che, nonostante l’incredibile numero di premi raccolti, non è mai stata distribuita in Italia…
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_x000D_GV: Estômago ha vinto premi in tutto il mondo, è un film che alla settimana di Valladolid in Spagna ha avuto il premio all’unanimità, cosa che era successa a Bergman e non ricordo più a chi altro, è un’opera che quando ha vinto tutti quei premi in Brasile (dove sono stato nominato anche io) il mondo hollywoodiano si è svegliato e ha detto: “Ma chi è questo esordiente brasiliano che è riuscito a battere i Salles e i Mereilles?”. Sono andati a cercarselo. Estômago è il film che mi ha creato contatti con Hollywood e se avrò mai la possibilità di lavorare in quel mondo sarà grazie a questo film: stiamo cercando di capire se al regista, i cui prossimi progetti saranno americani, verrà data la possibilità di scegliere i propri collaboratori. Ho conosciuto Marcos Jorge a Milano, ancora una volta casualmente. E devo dire che è uno a cui piace la musica, a cui piace rischiare, e che mi ha dato grande libertà: con lui ho fatto sicuramente uno dei miei più bei lavori e, non so se per piaggeria o altro, la mia colonna sonora ha incassato tantissimi complimenti. E’ curiosissimo che Estômago non trovi spazio nella distribuzione italiana, soprattutto visto che si tratta di una coproduzione. Non è il solo film non italiano a cui ho collaborato, c’è Princesa, ci sono film svizzeri dove mi era stato dato più spazio, ma essendo film poco o per nulla distribuiti e essendo le rispettive colonne sonore non pubblicate, è come se la mia musica fosse rimasta nel cassetto.
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_x000D_GS: Quali sono i film e le scene di cui il rapporto musica/immagine è divenuto per te un modello di ispirazione?
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_x000D_GV: Non ci sono fonti di ispirazione diretta. Però amo molto simbiosi tipo Lynch/Badalamenti, Fellini/Rota, Fassbinder/Raben, Greenaway/Nyman, Wenders/Knieper, Tarkovskij/Artemyev, Hitchcock con Herrmann, Teshigahara con Takemitsu (il cinema giapponese degli anni ’60 produceva colonne sonore meravigliose). Nel mio piccolo mi piacerebbe pensare che forse tra vent’anni anni, quando sarò decrepito e quasi morto, io e Soldini saremo associati ad un rapporto del genere. Per quanto riguarda l’ispirazione sono certo che se avessi la possibilità di lavorare con P.T Anderson mi scatenerei. Con Il petroliere Jonny Greenwood ha fatto un bellissimo lavoro. I miei compositori preferiti del momento, a parte Morricone, Rota e tutti quelli che ti ho elencato, sono Jon Brion (i film di Anderson, Se mi lasci ti cancello), Michael Beltrami (Le tre sepolture), Michael Giacchino. Ecco: Giacchino è un americano moderno, uno a cui se gli chiedi musica à la John Williams la sa fare, se gli chiedi di fare una cosa stravagante sa fare anche quella: in Lost c’è una colonna sonora che ti attacca alle pareti. Merita sicuramente la fama e i contratti multimiliardari che ha. Mi piace anche Danny Elfman, soprattutto nelle sue collaborazioni con Tim Burton. Bravo anche Gustavo Santaolalla che, per Iñàrritu, con quelle chitarre e chitarrine sovrapposte, ha qualche similitudine con alcuni miei lavori . Essendo un cinefilo accanito più che ispirazione diretta da compositori ci sono registi che ammiro molto per come trattano la musica: Kubrick, Satyajit Ray, Anh-Hung Tran (le colonne sonore realizzate da Ton-That Tiêt, compositore vietnamita che ha studiato in Francia, sono sempre piuttosto ardite e sublimi). Poi Herzog, che è il mio regista preferito, Truffaut, Tarantino, Resnais, Altman, Tavarnier, Gondry, Danny Boyle, Von Trier, Scorsese, Godard… Godard perché più che la musica ama il suono complessivo del film. In questo Soldini ha preso molto da lui, tanto che il suo tecnico di presa diretta e missaggio del suono, François Musy, è il tecnico del suono di Godard. Mi piacciono anche molto i registi che non usano molto la musica: Cassavetes, Dardenne, Bresson, Bergman. Una colonna sonora che avrei voluto scrivere io è quella meraviglia scritta da Benoît Charest per Appuntamento a Belleville._x000D_GS: Sei un cinefilo colto e insaziabile. Quali sono le ultime cose che al cinema ti hanno colpito? Come reputi lo stato del nostro cinema?
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_x000D_GV: Per anni sono andato quattro sere su sette all’Obraz Cinestudio di Enrico Livraghi (tristemente scomparso di recente): se ci fosse stata avrei ottenuto la gold card per la fedeltà, spesso e volentieri ero l’unico in sala. Ancora adesso vedo tanti film… Anche se sono diventato un poco insofferente al doppiaggio. Sfrutto le panoramiche, i festival, i dvd: quando posso, evito il doppiaggio. Titoli che mi hanno colpito negli ultimi tre anni sono: Il profeta, Inglorious Basterds, Redacted – che secondo me è un autentico capolavoro politico e formale – Gomorra, Teza, La classe e, come dicevo, Il petroliere. Il nostro cinema lo sento un po’ ingabbiato e museale, quando non ombelicale. La cosa più difficile è mantenere uno sguardo italiano e allo stesso tempo avere un respiro internazionale. Non sono molti i registi italiani che riescono a raggiungere tale equilibrio: Soldini secondo me ce la fa e non lo dico solo perché lavoro con lui. Naturalmente ce la fa Garrone, ce la fa Sorrentino, ce la fanno Diritti e pochi altri. C’è da dire che l’aspetto museale – e aspetto museale per esempio vuol dire Baaria, nonostante la bravura indiscutibile di Tornatore – è quello che il mercato internazionale richiede. E’ quello il Made in Italy riconosciuto. Quando più registi raggiungeranno uno sguardo “etnico” e un respiro internazionale ci saranno maggiori vie di uscita da questa crisi. I francesi ci riescono molto meglio di noi: forse il loro più maturo cosmopolitismo e il supporto incondizionato delle istituzioni li aiuta di più…
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_x000D_GS: In conclusione: quali sono secondo te i film che con più efficacia mettono in scena musica e musicisti?
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_x000D_GV: Non sono tantissime le opere che danno della musica una rappresentazione corretta, che riescono a entrare nell’essenza stessa della musica, senza mitologie d’accatto: Trentadue piccoli film su Glenn Gould di Girard, Un cuore in inverno di Sautet, Cronaca di Anna Magdalena Bach di Straub/Huillet, La stanza della musica di Satyajit Ray, Tutte le mattine del mondo di Corneau, La pianista di Haneke (non Il pianista che dà invece una rappresentazione parecchio falsata e naïf). Altman, con Nashville e Radio America, ha rappresentato il mondo della musica (non classica) in maniera perfetta. Tra i musical direi: West Side Story, Les demoiselles de Rochefort, Tommy e, a loro modo, altri due film di un regista da me molto amato e che ama la musica, vale a dire Alain Resnais con La vita è un romanzo e Parole, parole, parole. Recentemente, invece, mi ha piacevolmente colpito Across The Universe._x000D_