Francesco Munzi nasce a Roma nel 1969. Si laurea in Scienze Politiche e nel 1998 si diploma in regia al Centro Sperimentale di Cinematografia. Dopo alcuni documentari e cortometraggi, il suo corto Giacomo e Lui Ma (1999) vince il primo premio a Visioni Italiane Bologna e viene segnalato e premiato in diversi Festival. Saimir (2004) è il suo primo lungometraggio che ottiene grande riscontro critico a Venezia e il Premio De Laurentiis per la migliore opera prima. Il suo secondo lungometraggio, Il resto della notte (2008), viene presentato alla Quinzaine des réalisateurs del festival di Cannes.
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Ricordiamo l’intervista di Luca Baroncini pubblicata in occasione dell’uscita di Saimir.
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Conversazione telefonica
19/07/2008
Dopo l’ultima edizione di Cannes e il successo riportato dagli autori italiani, da Garrone e Sorrentino in concorso, da te nella Quinzaine, si parla per l’ennesima volta di rinascita del cinema italiano. Da cosa nasce secondo te questo ritornello?
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La considero un’etichetta di tipo giornalistico e un po’ superficiale. Come sei mesi prima, nell’edizione del Festival di Venezia, il cinema italiano veniva dato per morto adesso improvvisamente è rinato; anzi non solo sarebbe rinato, starebbe cavalcando addirittura uno dei suoi periodi migliori. Andrei al di là di queste definizioni un po’ facili: credo che esistano in questo momento sei o sette registi che stanno portando avanti un cinema diverso, vedo le radici di una nuova generazione, e a seconda se questi autori vengano aggregati, com’è successo a Cannes, o atomizzati, si conclude che il cinema italiano sta rinascendo o sta morendo. Io credo nel lavoro solitario di molti registi che pian piano stanno creando qualcosa. Tutto il resto risponde a definizioni che lasciano il tempo che trovano.
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Tornando a Cannes mi pare che i tre film citati dimostrino come si possa parlare di realtà in modi diversi: il tuo film, quello di Garrone e quello di Sorrentino affondano le loro radici nel reale ma lo rappresentano con un’impostazione stilistica differente, molto ben definita, ciascuno a suo modo…
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Mi sembra, appunto, che la novità di questi film, non sia tanto quella di cui si è parlato, cioè del ritorno alla realtà del nostro Paese, che c’è senz’altro ed è importante, ma del “come” si è parlato di questa realtà, della cura per l’aspetto linguistico: in ognuno di questi film gli autori, ciascuno con la sua personalità, con una sua attitudine, raccontando, ha fatto del cinema, ha usato pienamente il linguaggio cinematografico, che è quello che si era un po’ perso negli anni passati, anche quando le opere trattavano tematiche quali la mafia, la politica, l’immigrazione etc. Lo specifico dei film italiani in questa edizione di Cannes mi sembra proprio questo.
Parlando invece della realtà produttiva italiana in campo cinematografico, qual è il percorso che ti ha portato alla possibilità concreta di girare un film, nel caso specifico “Saimir”?
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Non c’è stato un vero e proprio percorso, c’è stato una specie di zigzagare: da un lato è stato un po’ casuale, dall’altro è stato il frutto dei cortometraggi che avevo fatto prima e della scuola che avevo frequentato. Fare Saimir è stato molto difficile perché purtroppo la produzione italiana non guarda alle generazioni zero, a coloro che non hanno girato ancora nulla, non c’è un reale collegamento tra i corti e i lungometraggi, si arriva al film – soprattutto se non sono commedie e non presentano attori conosciuti – per mera resistenza fisica… Nel mio caso è successo che il produttore Bortone, che poi ha prodotto Saimir, aveva visto un mio cortometraggio, si era dimostrato interessato e mi aveva proposto di girare un lungometraggio. Però tieni conto che dalla fine del Centro sperimentale, 1999, fino a Saimir che è del 2004 sono passati, per l’appunto, cinque anni.
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Quest’ultimo film lo hai girato a Torino. Quella torinese è oramai una situazione imprenditoriale di un certo livello dal punto di vista cinematografico: a tuo parere quali possono essere le ragioni di questa affermazione così decisa?
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Una ragione è ovvia: la Film Commission aiuta moltissimi film. Mi pare una politica intelligente perché questo porta lavoro nella città e all’affermazione di una industria cinematografica con delle figure tecniche e artistiche sempre più qualificate. In questo senso mi sono trovato molto bene: in più, nelle persone con le quali ho lavorato, mi pare che non ci sia quella spocchia cinematografara romana, quell’affrontare il cinema come un lavoro un po’ spento, c’è ancora passione e questo non fa mai male, sperando che non si cada anche lì nell’abitudine, che non diventi una routine. Speriamo che l’entusiasmo non scemi. Torino è oramai il secondo polo cinematografico italiano, e non è un caso, è la conseguenza di una politica ben precisa da parte delle istituzioni locali.
Domanda a bruciapelo: quanto la televisione sta influenzando il modo di fare cinema in Italia?
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Sicuramente l’influenza c’è anche se nemmeno troppo cosciente… Mi pare comunque che adesso si stiano rimescolando le carte, perché le nuove generazioni – poi mi dovresti rifare la stessa domanda tra due anni – mi sembra che si stiano difendendo meglio; è vero in ogni caso che tanti film italiani sembrano concepiti apposta per la prima serata televisiva, sembrano nati sotto il segno di un compromesso e questo non è mai bene per il cinema. L’altra verità drammatica è che molti di questi stessi film però sono quelli che hanno riavvicinato il pubblico, già rimbambito, per così dire, da anni di televisione, al cinema italiano: quindi è un po’ un circolo vizioso…
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Come giudichi la qualità della scrittura del cinema italiano?
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Andrebbero fatti troppi distinguo. In Italia non mi sembra che la scrittura sia scollegata dalla regia, non mi sembra che ci sia una scuola di sceneggiatura così forte da rendersi scindibile dal regista. Riguardo alle cause non saprei individuartele. Quasi tutti i registi o si scrivono i film da soli o collaborano, ma l’impronta più marcata sulla sceneggiatura rimane quella del regista.
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Una cosa che mi ha colpito molto di “Saimir”: l’incipit è integralmente consegnato alla lingua albanese dei protagonisti. Mi è parsa una scelta assai coraggiosa per il film di un debuttante. Hai avuto problemi ad imporla?
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All’inizio si era discusso molto, persino sulla possibilità di attribuire ai personaggi la nazionalità italiana, ma la mia è stata una scelta che ho difeso fino all’ultimo, sono andato contro la possibilità di doppiare, di cambiare i personaggi… Era una storia che doveva avere come protagonisti degli stranieri e io dovevo adottare completamente il loro punto di vista: non c’erano altri modi per realizzarlo.
“Il resto della notte” sembra consapevolmente complicare quello che era l’approccio semplice e lo svolgimento lineare di “Saimir”; è come se il ritratto adolescenziale del film precedente venisse calato in un impianto più articolato e strutturato…
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Considero Saimir una parte de Il resto della notte in qualche modo, anche se qui le certezze che avevo e la limpidezza di quel film non ci sono più, e questo per scelta: volevo raccontare il caos di questo momento, lo scombussolamento e la perdita della strada. La figura del ragazzo rumeno, Victor, mi ricordava quella di Saimir, ci sono delle assonanze e non a caso faccio chiudere il film a lui. Comunque questo è sostanzialmente un film sullo sbandamento e sulle differenze e infatti c’è l’idea di passare da un blocco sociale all’altro. E’ un film da una parte molto vicino e dall’altra molto diverso dal primo.
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A proposito di assonanze: il modo in cui Victor patisce la presenza della ragazza del fratello mi ha ricordato molto l’insofferenza di Saimir nei confronti della compagna del padre.
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Sicuramente il richiamo c’è: i due ragazzi vivono in nuclei familiari oramai completamente sradicati e hanno un’affettività infantile e morbosa. Saimir ha solo il padre e non riesce a integrarsi nel mondo circostante; anche per Victor vale lo stesso discorso: il fatto che l’unico affetto, il fratello, possa essere adombrato da un’altra persona lo fa impazzire, perché aumenta il suo senso di sradicamento. Sia Saimir che Victor sono nello stesso mood esistenziale, per età, per solitudine; anzi per Victor il discorso è ancora più marcato.
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Il film, che si muove come detto su piani narrativi differenti, finisce poi col farli confluire in un'unica direzione, definendo, nella tragedia finale, tutte le situazioni in atto.
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Il resto della notte all’inizio sembra essere costituito da tre film separati, ricomincia a narrare daccapo, introducendo un altro gruppo familiare: volevo dare un’idea di separazione, di distanza anche forzando la forma narrativa in maniera un po’ eccessiva; diventava però necessario che una casualità facesse sì che tutto si mescolasse: i mondi separati per condizioni e per differenze sociali in realtà sono talmente vicini che basta un niente per farli deflagrare insieme e farli andare in corto circuito. Linguisticamente sono situazioni narrative separate ma poi diventava necessario che a un certo punto un collegamento vi fosse: anzi era un po’ il senso dell’opera questo ritrovarsi sulla stessa strada.
Questa cosa che dici mi anticipa: volevo infatti chiederti del finale, di questo riunire sotto lo stesso tetto tante realtà sociali diverse: ognuno dei personaggi coinvolti nella sparatoria è connotato in maniera netta dal punto di vista dell’appartenenza di classe, tanto che si potrebbe quasi dare a questo passaggio una valenza simbolica.
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Sicuramente sì. Cercavo da una parte di mantenermi nel’ambito del realismo, dall’altra volevo che le figure restituissero una certa valenza simbolica, che fossero rappresentative di un’idea di gruppo sociale. Ci sono quindi entrambe le cose. Doveva essere anche un film un po’ astratto per funzionare. Mi sono posto anche il problema di come caratterizzare la famiglia borghese italiana: quando tracci un personaggio devi fare delle scelte, attribuirgli un segno politico, di pensiero, se avessi specificato troppo, se avessi ecceduto nel dettaglio questo avrebbe inficiato senz’altro il disegno generale, lo avrebbe indebolito. Comunque sì, il film si muove in questa tensione tra simbolico e realistico.
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Accanto alla scrittura più composita si legge anche un trattamento visivo abbastanza diversificato: la differenza stilistica è legata alla pluralità di situazioni rappresentate o nasce dalla volontà di affrancarsi da un unico modus stilistico?
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Ad essere sincero dietro il mio girare non c’è un pensiero così cosciente: seguo molto l’istinto, sento quali sono le esigenze del racconto e muovo la macchina da presa di conseguenza; dopo posso fare una riflessione, ma al momento non c’è un controllo critico così forte.
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Mi pare anche che il film tenda a voler spiazzare lo spettatore: da esso non si traggono morali, come se tu volessi restituire in pieno l’ambiguità e la complessità delle situazioni descritte. Non suggerisci conclusioni.
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Sì, volendo molto di più ancora rispetto a Saimir perché dovevo raccontare il disorientamento dei personaggi, quindi cercavo di concentrare la mia attenzione nella loro descrizione, dovevo essere onesto nei loro confronti, rispettando l’inevitabile mescolanza di bene e di male, senza giudicare troppo, e senza sbilanciarmi a favore di un gruppo sociale piuttosto che di un altro perché il tema era quello dello sbandamento che coglie un po’ tutte le realtà descritte. Detto questo ciò ha inevitabilmente spiazzato chi cercava una rassicurazione più ideologica, da una parte o dall’altra, laddove il tema era proprio l’incapacità degli strumenti ideologici a leggere le situazioni, questi sono diventati vecchi per interpretare la complessità del reale. E’ questo che volevo raccontare nel film.
Parliamo delle scelte attoriali, dalla Ceccarelli a Stefano Cassetti che non vedevo dai tempi di “Roberto Succo” di Kahn.
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Ho scelto gli attori senza particolari pre-giudizi. Stefano Cassetti è un attore che mi piaceva molto e che è stato sottoutilizzato, pur avendo fatto comunque molte cose tra Roberto Succo e questo film, anche se sono questi due ruoli che l’hanno messo più in risalto. Divertente il caso di Laura Vasiliu: l’ho scelta a marzo dell’anno scorso e poi dopo un mese il film di Mungiu da lei interpretato ha vinto la palma d’oro a Cannes: ero contento per lei ma quasi scontento per me perché mi sarebbe piaciuto dire di averla scoperta io, cosa che pensavo di aver fatto, anche se poi in realtà era già in questo film così potente. Tutti gli attori rumeni li ho scelti a Bucarest, ho fatto un lungo casting lì: avevo cominciato a farlo in Italia, ma non si sarebbero mai raggiunti quei livelli. E anche gli altri: sono stati scelti senza nessun criterio particolare, molto liberamente, senza nessun obbligo produttivo.
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Anche il francese Aurélien Recoing?
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Sì, ci sono stati in realtà dei rifiuti da parte di due attori italiani di cui non dico il nome su quel ruolo, per cui sono rimasto un po’ sguarnito; abbiamo scelto lui, un attore che mi piaceva, e ho affrontato il doppiaggio anche se questa del doppiaggio è una scelta che non rifarei , perché la considero la debolezza del film anche se il doppiatore, Popolizio, è molto bravo: c’è un ritmo, una velocità nella postproduzione che non permette di curare questi aspetto a dovere, e poi comunque nei film in presa diretta la differenza si sente molto.
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Quando c’è l’inserto doppiato intendi?
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Sì.
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Un primo film a Venezia, un secondo a Cannes. Due opere adeguatamente segnalate, dunque. Adesso che ti approssimi al terzo film sarà difficile non pensare a tutte le aspettative che lo accompagneranno…
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L’opera seconda mi ha dimostrato che in verità non cambia nulla, quindi diciamo che ci penso e non ci penso… Ci si sente sempre alle prese con un’opera prima. L’approccio fondamentale, alla fine, è sempre un po’ quello.