TRAMA
Bella conduce una trasmissione televisiva sulla chirurgia plastica in cui gli ospiti si sottopongono a interventi di chirurgia estetica eseguiti dal chirurgo, suo marito, gestore di un’esclusiva clinica privata. I responsabili del programma vogliono sostituirla, ma un incidente d’auto e il possibile sfiguramento della donna cambiano le carte in tavola.
RECENSIONI
'Così uccidete il cinema italiano!' ha urlato polemicamente qualcuno alla fine della proiezione stampa del film di Corsicato al Festival di Roma. E aveva ragione. Corsicato, non da oggi, uccide un certo cinema italiano: quello sclerotizzato nei suoi schemi, imbalsamato nello pseudo-realismo, nel suo asfittico desiderio di argomentare, nei suoi temi importanti. E a proposito di temi, non che Corsicato non li tratti, anzi, ma, senza ricamarci su, li concentra sempre in una formula sintetica ed evidente - ad esempio il nome delle sue protagoniste: ieri Libera, poi Vera, oggi Bella - e non si affanna certo a spiegarli: ne Il volto di un'altra l'ossessione per la chirurgia estetica, la cronaca che diventa spettacolo, il parossismo mediatico, l'arrivismo e la ferocia legati al potere e alla fama sono figure chiarissime e piegate alle logiche di una rappresentazione. Mai il contrario.
Il film quindi è, come sempre, pregno di contemporaneità, in tale carattere vantando la sua leggibilità; nel modo di interpretarla, attraverso segni tipici, rivendicando una vocazione popolare, persino. Insomma il cinema del regista - i generi come numi tutelari - senza mediazioni pretestuose, dichiarando la sua finzione, dice moltissime, preclare verità e obbliga lo spettatore al riconoscimento, senza vincolo alcuno per la scrittura. Giammai.
A Corsicato interessa di più, come sempre, dispiegare tutto un corredo di immaginari (da questo punto di vista è vicino a Tarantino) che, da vorace osservatore quale è sempre stato, riversa in un cinema che a quello su storie e tematiche preferisce il lavoro su atmosfere, personaggi, forme e stilemi. E allora camminano come zombie i pazienti della clinica trentina, ridotte a mummie spersonalizzate, personaggi di una finzione costruita sotto i nostri occhi - e quindi costantemente in maschera (le bende) -, figure orchestrate in un tourbillon spudoratamente felliniano (nell'enfasi di movenze ed espressioni, planando su volti e esaltandone i dettagli in un'orgia di primi piani si guarda ad 8 e mezzo e Giulietta degli spiriti).
Ma è il solito carosello di citazioni: la camera operatoria in bianco e nero, perché il sangue non si veda (come i combattimenti di Kill Bill); un water che volteggia in aria (come la ruota de L'uomo che non c'era - i Coen citati, The Big Lebowski, anche nella sequenza del sogno delle forbici -); la grancassa dei media come ne L'asso della manica; i rimandi ai telefoni bianchi (si guardi i titoli); e poi: il western, Franju e Sirk, il cinema giapponese degli anni 70.
Riferimento iconico principale è Makeover Madness, l'ormai epocale servizio di Steven Meisel per Vogue, a dimostrazione di un lavoro sullo spirito del tempo che non ha praticamente altri riscontri nel nostro cinema che nella maggior parte dei casi ha come referente primario la televisione e basta.
Tutto e il contrario di tutto oggi fanno spettacolo, sembra dirci l'autore: anche il diluvio (di merda) universale, che sembra realmente apocalittico, viene sottolineato da un applauso; intanto, mentre il cinema lavora nel tessuto del film, la villa-clinica è metaforica, riproducendo una struttura sociale precisa, una gerarchia piramidale con i medici, le suore, le infermiere, i pazienti e i paria della squadra fogniaria (cantano il blues come gli schiavi neri) che sognano la rivoluzione e sono organizzati in una struttura paramilitare. Una banda di poveracci ma bellocci (i Toy Boys: un po' Raf Vallone, un po' Salvatori-Arena) rimanda a un altro cinema italiano, quello che non esiste più e di cui, ancora una volta, è Corsicato a dare testimonianza.
Solito, bizzarro mix di alto e basso, Il volto di un'altra è un lavoro più leggero e meno pregno dei predecessori, con qualche debito di ritmo nella seconda parte, ma pur sempre trionfo di un realismo antinaturalistico esuberante, di una intertestualità mai morbosamente intellettuale, anzi giocosa ed evidentemente goduta. Ne abbisogniamo.
