Drammatico

IL VIZIO DELLA SPERANZA

TRAMA

Maria attraversa ogni giorno un fiume triste e inquinato. È il suo lavoro. Con lei, in barca, il suo Pit Bull e donne incinte che, appena raggiunta la sponda deputata, verranno separate dai loro figli, comprati da altre donne. Maria esegue; sul volto non c’è traccia di emozione, di passione. Ma quando scopre di aspettare un bimbo anche lei, capisce che tutto è cambiato per sempre.

RECENSIONI

"Castel Volturno, nell'organismo della nazione, è un organo secondario, è la milza d'Italia. […] La puoi pure buttare via se proprio devi ma pensaci bene perché ti serve. Castel Volturno è un rifugio di peccatori, donne e uomini in fuga da fame, guerre o semplicemente da fallimenti professionali e personali. Esseri umani in cerca di un luogo dove ricominciare a vivere. Vengono qui perché ci sono molte case abbandonate, un controllo blando della legge, un clima buono, il mare". Edoardo De Angelis così incornicia una terra che conosce, terra di mezzo tra Campania e Lazio, litorale e via Domitiana,  bagnata da mare e squallore, sospesa tra l’assurdo e il metafisico, tra la vita e la morte; e sconfitte e redenzioni, realtà irreali e magie vere,  religioni private e pubbliche superstizioni, senza profeti né miracoli. Terra di contrapposizioni, in realtà, falsamente ossimoriche, dove l’umanità sembra essere l'innesto, parte di uno stranissimo, surreale sistema linfatico, desolato e paradossalmente fantastico al contempo.  Con i suoi "25 mila abitanti regolari, 25 mila irregolari. Due eserciti contrapposti che convivono sull'orlo del conflitto scambiandosi soldi, cose, droga, sesso, figli, qualche tenero abbraccio e antiche malattie", continua De Angelis.  Che in questo limbo colloca  Il vizio della speranza  (c'è anche un libro omonimo, con più storie ed episodi e vite, edito da Mondadori, uscito in contemporanea col film) tornando sui luoghi e gli umori delle sue Indivisibili  e a nuove inseparabilità.

Il Natale è alle porte anche a Castel Volturno, le luci illuminano le case ma non il cuore di Maria (Pina Turco, moglie del regista), che porta il cappuccio sulla testa e non ama il suo corpo nudo; al guinzaglio sempre un Pit Bull femmina che non abbaia mai e nome non ha; a casa una madre (Cristina Donadio) che ha bisogno di lei, in un'altra casa una donna (Marina Confalone) a cui inietta eroina in vena e per la quale fa da Caronte nelle acque del mercato di corpi e di vite. Ma Maria, noi lo sappiamo, è stata anche un'Ofelia bambina, salvata dalle acque, biblicamente, una di quelle figurine da trovare sui quadri degli ex voto nelle chiese, di miracolati dipinti alla meno peggio. E, lo sapremo presto, è figura evangelica, a suo modo, sconnessamente, e come potrebbe essere diversamente in questa distopia tesa il più possibile, in questa terra storta, maledetta e avvelenata da essere umani cuore di cane (quanta parentela con l'universo disumanizzato del "canaro"garroniano!). È evangelica perché i nomi non sono a caso, e Maria, quando si accorge di portare in grembo un bambino che lì non dovrebbe essere, opera di chissà chi, sfidante le leggi della fisiologia, dell’opportunità, della vita stessa, prende a difenderlo fino a fuggire via per farlo nascere. La microesplorazione antropologica che ci fa compiere nel giro prossimo alla sua baraccopoli non delude le premesse: un giostraio perseguitato ingiustamente, un manipolo di prostitute di colore, una bimba claudicante e salvifica. Ed è proprio in questa zona qui che il film sgancia lo spettatore per immetterlo in un altro flusso pilotato completamente dal narratore che si fa manovratore di destini, con sottile arroganza, posa silenziosamente sfidante. Si scende a patti con lui se si vuol proseguire, si accettano le sue regole. Insieme si deve concedere a Maria, sempre più purificata, di compiere il destino, la nascita, l'epifania. E tutto diventa una specie di game a livelli di prova, disincarnandosi proprio quando dovrebbe bruciare tutto d’emozione, ovvero nel presepe finale, nel miracolo che, dopo tutto, si compie nelle macerie, nell'abbandono, nella stracciata bruttezza, per abitare in mezzo a noi. E così, anche le sempre atmosferiche musiche del ritornante Enzo Avitabile, in questo modo, sembrano più galleggiare su quelle acque putride e inospitali che sul desiderio.
Insomma, ci piace da tempo l’immaginario di De Angelis, la sua immaginazione poetica, il suo vizio del cinema, ma, tra l’antigrandebellezza fattasi categoria dello spirito (alla scrittura di Indivisibili col regista c’era Nicola Guaglianone, mentre la speranza è condivisa con Umberto Contarello) e la favola rovesciata, il noir (con Scerbanenco in esergo) e la parabola, fatichiamo a individuare, stavolta, l’anima (non solo nera) del film e delle sue creature.

Premio del pubblico alla Festa del Cinema di Roma 2018.