
TRAMA
Mousse viene ricoverata in ospedale dopo un’overdose. Al risveglio scopre che Louis, il suo uomo, è morto e che lei è incinta. La ricca famiglia di Louis la spinge ad abortire, ma lei si rifugia in una casa al mare dove viene raggiunta da Paul, il fratello omosessuale di Louis.
RECENSIONI
Il cinema di Ozon: stile e naturalezza
Sfuggente perché non catalogabile, non riducibile alla predefinita etichetta critica, anzi in costante tensione tra realismo e stilizzazione - poli tra cui intercorre una distanza modulata di film in film, se non di sequenza in sequenza - il cinema di Ozon predilige che il trito meccanismo di senso si pieghi all’uomo, ai protagonisti dei suoi film, allo sguardo dello spettatore, alla necessità del racconto: il regista, frequentando in modo diretto e indiretto il melodramma come il mystery, il thriller come la commedia, il dramma veristico come il grottesco prosciuga i riferimenti e ne incolla i residui elementi a una griglia che riempie di carne viva; dall'attrito tra il riferimento forte e l'istanza personale deriva una tensione sottile che, dispiegandosi dall’azione scenica, finisce col propagarsi alle stesse immagini, avvolgendole. L'autore antepone insomma alla coerenza accademica la propria sensibilità, declinando di volta in volta i teorici opposti con intensità differenti, sfumandone i confini con una naturalezza cristallina, scevra da dichiarate involuzioni meta-riflessive e disinteressata allo sterile attacco frontale, alla destrutturazione a tavolino del gioco–cinema; non che si appelli ad una disonesta ingenuità, non che non abbia digerito la consapevolezza del post-moderno, Ozon esercita apparentemente lo stile del genere a cui i suoi film fanno di volta in volta riferimento, schierandosi però contro questa pratica da mero trastullo ludico, forgiando dalle macchiette personaggi, facendo dell'esercizio di stile un teatro di scandaglio psicologico, la materia da cui si innalzano bassorilievi, traiettorie e tensioni indicibili ma pulsanti, concretamente vive, emancipate dalla funerea superficie del divertissment. Il cinema di Ozon in definitiva non è mai chiuso in se stesso: sebbene segnali costantemente la sua natura finzionale, permette ai personaggi di non soffocare nella didascalia, nel tipo, pur accennandolo, lasciando loro il respiro del non-detto, curando con minuzia le sfaccettature, esprimendone le caratteristiche senza affermazioni, diluendole invece nell’accumulo di dettagli, nelle reazioni al contesto, semplicemente, classicamente, nella narrazione, rifiutandosi di sciogliere le contraddizioni, preferendo la vitalità della complessità [si pensi alla rotondità psicologica di Angel, protagonista del film omonimo in cui la scissione tra personaggio e persona, tra finzione (autopercezione) e realtà era tematizzato, fulcro di una vicenda che si rispecchiava con perfetta aderenza nello stile]. Il francese insomma, al di là del complesso tessuto strutturale e referenziale che abbiglia le sue opere, non ha paura di entrare nel centro sensibile delle cose, non ha remore nel metter mano ai sentimenti, a quell’organo che pulsa e duole che è il cuore, non teme di portare questa analisi al suo tremante fondo.
Così Le refuge si presenta fondato su istanze strettamente (e crudamente) realistiche - vicino ai personaggi, ma con il pudore di non manipolare il pubblico nell’esplorazione della loro anima, negandosi a facili indicazioni, sospendendo il giudizio, serbando spazio all’inferenza, al sentire dello spettatore, sottraendo alla costruzione, affidandosi all’ellissi.
Ozon (anche Ricky ce l’ha detto in un modo esplicito che non ammette repliche) non arretra di fronte al dato concreto di situazioni dure, cristallizzate in una visione priva di edulcorazioni, coniugando sempre l’impalpabile, ma vibrante discorso intimo con quello di una realtà messa in immagine in modo brutale, senza mezzi termini (Louis e Mousse che si iniettano la droga, le braccia martoriate dei due giovani, lo sfacelo umano che è diventata questa coppia che, dietro il lividore del corpo, l’espressione dolente, la frenesia da astinenza, intuiamo, un tempo, essere stata bellissima). Così all’incanto amoroso dei due giovani, sancito dalla stupefazione accecante del sogno dell’uomo in cui Mousse lo bacia e sembra dirgli addio, quasi preannunciandone al pubblico l’imminente morte, fa riscontro il dato categorico del cadavere raccolto dagli infermieri, il discorso perentorio della madre di lui, che con solerzia burocratica invita la ragazza a disfarsi del nascituro, avendo a cuore la preservazione dello status familiare, mettendo in atto il meccanismo di autotutela di quell’alta borghesia dalla quale, lo capiamo, il suo ragazzo aveva preso le distanze. Con queste crudeli premesse anche l’esperienza della maternità, generalmente mitizzata o mostrata sotto una rassicurante patina poetica, viene condotta sul terreno di una tormentosa problematicità, spogliata da ogni idealismo, come esperienza esistenziale che innesca riflessioni, dubbi e conseguenti necessità di scelte.
Un universo verosimile a se stante
Sul piano narrativo, ma non solo, Ozon plasma un universo verosimile che, al contempo, grazie all’affastellarsi di sottili forzature, crea ed implica la figura di un deus ex machina che con la realtà forgiata dialoga, accidentando il percorso dei protagonisti, inviando forze che scuotano i personaggi, come se questi fossero entità autonome la cui intima costruzione psicologica il demiurgo non può scalfire, se non ricorrendo allo stimolo esterno. In tal senso l’incipit de Le refuge è emblematico: la mdp segue i passi di un innocente angelo della morte, aprendosi il film (programmaticamente) con la sua discesa, con il pedinamento di questa incarnazione dell’autore implicito che ci accompagnerà sino alla scena su cui agiranno i protagonisti, per dileguarsi e riaffacciarsi poi sotto altre vesti; vesti che sono la fauna d’umanità con cui Mousse si relaziona (dall’acidità classista della madre di Louis e Paul all’inquietante zelo della donna sulla spiaggia, sino all’avventuriero, nel senso più tristemente umano del termine) e che indirettamente svela la sua personalità, caratteri / ostacoli / specchi la cui natura altra di pure funzioni si percepisce nel loro non essere che atipiche e incomplete evoluzioni di stereotipi in cerca di realismo e mai personaggi a tutto tondo, semplici tappe di un road movie spirituale. Il ratto di Sitcom non dista troppo dal pusher di Le refuge, dalla Bruni Tedeschi con voglie di maternità di Le temps qui reste: sono tutte forzature funzionali che il testo accoglie per necessità interna, noncurante di qualsiasi considerazione / plausibilità / accettabilità teorica, disegnando sulla superficie della verosimiglianza messa in scena - tramite attriti, increspature e difformità – il tocco di un Autore che agisce su un mondo (che si vuole) a se stante, che rappresenta il cinema a contatto con la realtà e che esprime uno sguardo, dichiarando la sua sensibilità.
E’ soprattutto su questo terreno sfuggente e scivoloso che si gioca l’autorialità di Ozon, nei risultati della dialettica tra un reale (?) disegnato come autosufficiente (e spesso corrispondente alla forma famiglia) e gli stimoli esterni a cui i personaggi (verrebbe da dire: persone) sono sottoposti. Le discrepanze nell’impianto realista - i rimandi interni, le rime, le simmetrie esposte, la straziante ingenuità dei simbolismi – sono il segno di una presenza che rielabora il mondo ma è ben lungi dallo snaturarlo in profondità, i sommovimenti di una volontà pudica, che tenta di comprendere nella sua complessità il personaggio che ha di fronte, smussando o alterando il contesto, ma, mai l’uomo, l’oggetto del suo studio. La dimensione paradossale del cinema di Ozon può considerarsi figlia di influenze illustri, dello sguardo entomologico del Resnais più candido, della teatralità psicologica di Bergman e di quella politica di Fassbinder, del quale Ozon riprende l’attitudine militante, dissimulata dietro la levità morale di un Rohmer (di cui il nostro è stato allievo): si prenda il finale di Le refuge: dopo lo sguardo di Isabelle Carré in fuga l’andamento precedente del film indurrebbe lo spettatore ad aspettarsi la parola Fine; Ozon, con i fotogrammi che seguono, contravviene invece all’istinto di sottrazione che permea l’opera, incanalando in un possibile più ristretto la molteplicità del senso: l’accento non è sulla fuga di Mousse, ma sulla filiazione involontaria di Paul, unico padre possibile.
Le cose sono semplici
Realizzato a ridosso del precedente Ricky per le tempistiche legate alla gravidanza di Isabelle Carré, Le refuge riprende una serie di topoi tipicamente ozoniani: dalla centralità dell’evento luttuoso (Sotto la sabbia e Le temps qui reste), all’ambientazione (la villa con due persone tra loro sconosciute che condividono la situazione di isolamento, come in Regarde la mer o in Swimming pool), il senso di continuità che dalla morte di un uomo diparte dalla prossima nascita di suo figlio (ancora Le temps qui reste), tema che viene annunciato sin dall’inizio (Paul, nel discorso che pronuncia al funerale del fratello, affermando Ciò che hai seminato verrà raccolto da altri lascia una traccia dell’epilogo in cui si prenderà cura del figlio di Louis) e in forma di premonizione tutta ozoniana (Serge, riferendosi a Paul, che ha appena incrociato per la prima volta, dice a Mousse, alludendo al pancione – Credevo fosse il padre, e Mousse – Sì, poteva esserlo, ma non lo è). Le cose sono semplici e Ozon le impone nella loro semplicità, senza sovraccaricarle: di qui la nudità del dato visivo, l'essenzialità della concezione, la purezza dell’atmosfera che naturalmente ne deriva.
In tal senso la diversità dei fratelli, che si scoprirà molto più profonda e complessa di quanto non fosse in apparenza, viene suggerita da una colonna sonora usata in chiave tacitamente espressionista; così all’inizio vediamo Louis suonare la chitarra prima di assumere la dose fatale che lo ucciderà: tutta la parte con Louis è accompagnata da un commento musicale di sola chitarra elettrica. Il fratello Paul invece, nel rifugio di Mousse, intonerà una canzone al piano e la sezione del film ambientata nella casa al mare viene punteggiata da un tema al pianoforte. Scelte che non vengono mai sottolineate, che si immergono in un tutto in cui tanti elementi in modo impercettibile contribuiscono a creare il mood del film che, infatti, tra il prologo mortifero parigino e il lungo segmento successivo, imperniato sull’attesa della nuova nascita, muta radicalmente, senza che lo spettatore riesca ad agganciare ad un fattore particolare la causa di questo cambiamento.
A questo contribuisce l’essenzialità della messa in scena, la tendenza a non imporre mai metafore ingombranti, ma a ricorrere al quieto simbolismo insito nella quotidianità (Ozon ama inserire distaccate e diluite osservazioni dell'ordinario dei suoi personaggi): così non viene mai spiegato o anticipato il disagio di Mousse nei confronti della maternità che si tradurrà nella sua rinuncia finale al figlio, non si fa riferimento esplicito al senso di inadeguatezza che la pervade, se non attraverso la sobria immagine della donna allo specchio, una donna divisa, rosa da un dubbio che non conosce didascalica esternazione, ma solo folgoranti intuizioni visive (Mousse nella vasca, le macchie scure dei capezzoli; la pancia che emerge dal biancore latteo della acqua insaponata, una mano che accarezza il ventre) o sottili allusioni mai imposte, quasi incorporate nelle circostanze [la seduzione e il contatto erotico tra Mousse e Paul, anticipato dal profumo che il giovane usa a un certo punto (- Era di Louis – Lo so) e dalla crema che spalma sul corpo gravido di Mousse; un rapporto anale come atto d’amore, simbolicamente riproduttivo, che si chiude con il dolce accarezzare del pancione da parte di Paul - anticipazione di quel concetto di "cura" verso cui confluirà il racconto - che sublima anche sul piano sessuale il peculiare divenire padre di quella creatura]; allo stesso modo non ci viene spiegato come sia accaduto che la ragazza e Paul si siano trovati a condividere il breve soggiorno al mare, solo presupponendo un precedente contatto tra di loro, cui si fa peraltro cenno senza mai dettagliarlo (come in Swimming pool la conoscenza dell’altra persona avviene attraverso un’illecita intrusione nella sua privacy: anche qui un personaggio, Mousse, fruga tra le cose dell’altro, topos di nuovo, bergmaniano - Persona, Come in uno specchio -).
Non occorre imbeccare lo spettatore quando la messa in scena sa parlare; si pensi alla fugace apparizione di Serge come commesso che porta la spesa a Mousse: quella che a tutta prima sembra una semplice comparsa la ritroveremo, a stretto giro, parte integrante dell’azione scenica; la sorpresa di Mousse nello scoprire chi era l’uomo nel letto di Paul è uguale a quella dello spettatore. Ancora: il fratello (che muore per sfuggire, non solo nell'economia narrativa, alla paternità) diviene personaggio sottinteso, ma ancora presente, figura implicitamente centrale di cui Mousse e Paul sono emanazioni sì narrative, ma (non solo nei fatti) vive (il faccia a faccia sul letto tra i due fratelli ha, in qualche modo, l’aspetto di un’apparizione fantasmatica bergmaniana): il figlio di Louis è nel pancione di Mousse, il rapporto irrisolto con il fratello detta la condotta di Paul che è dal primo diverso in diversi modi: è adottivo, è gay. Un incrocio di situazioni che si sublimano nell’affidamento della nuova creatura: Paul, figlio adottivo, adotta a sua volta; Paul, gay, non procrea, ma viene messo nella condizione di fondare una famiglia. E' uno scarto che non intacca la coerenza dell’opera, ma la riveste di una programmaticità politica mai pedante, che non ha la ferocia dell’allegoria fassbinderiana, ma che, senza farsi imposizione rude, è elegantemente chiara: un uomo, omosessuale, un bambino, ormai lontano dai genitori, una famiglia a venire, legata dall’affetto, non dalla biologia. Ozon sta dicendo cose fortissime senza proclamarle, sta facendo un film militante senza denunciarlo come tale. Non asserisce, ma suggerisce, non teorizza astrattamente, ma mostra elementi concreti (Paul, alla fine, rasato come il fratello, quasi indistinguibile da lui) sparsi di un tutto che spetta a chi guarda ricomporre.

Ozon resta fedele ai propri temi fra assenza della figura paterna/maschile, natura omosessuale, incombenza della Morte, situazioni realistiche estreme venate di onirismi, i figli come semi di continuità e/o pacificazione, ma gli riesce meglio il cinema che, prendendo le mosse da un crudo realismo, s’invola nell’allegoria onirica, piuttosto che quello che, come qui, preferisce “fermarsi” al nudo-e-crudo di storie-scandalo. L’opera, però, per quanto non sia rifugio di contenuti originali e modi entusiasmanti, trova la propria ragion d’essere ammaliante nel sostare a metà fra un Rohmer (che adorava far incontrare i personaggi in splendide location balneari) deprivato di (dello stesso) spessore e il mélo anni cinquanta senza (con meno) vigore e impatto spettacolare. L’asprezza della tossicodipendenza lascia il posto all’incontro di due anime: lei cerca in lui l’amore perduto, lui il legame con un fantasma. In mezzo c’è il tema dell’omosessualità, il muro dell’amore impossibile cantato con raffinatezza da temi musicali (scritti dal protagonista) che, dall’arpeggio di corde alla Angelo Badalamenti, passano ai fraseggi per piano suonati dal fratello minore (cambia “la sfera d’influenza emotiva” della protagonista): il finale “a sorpresa”, tipico di Ozon, può apparire come gradasso spot alle coppie gay ma (per fortuna) è un gesto che apre a tante altre considerazioni, non ultima la poesia, il romanticismo di una donna che porta a termine una gravidanza per lasciare il seme dell’amato sulla Terra. L’intensità dell’opera, invece, emana da un insieme di elementi: il paesaggio (compreso l’ozoniano microcosmo-villa a pochi personaggi), gli sguardi duri persi e malinconici di Isabelle Carré, la calma illuminante di Louis-Ronan Choisy, tutto il loro gioco d’approccio conoscitivo, fatto di sprazzi vitali che, pian piano, abbandonano la Morte.
