TRAMA
Roberto, Federico e David sono tre appassionati di H.P. Lovecraft. Trovato per caso in Italia un manoscritto firmato dallo scrittore americano, si mettono sulle sue tracce arrivando a una scoperta sconvolgente.
RECENSIONI
Il grande bluff
Perché raccontare la realtà quando inventarsela è molto più stimolante e divertente? Il "mock-documentary", cioè il falso documentario, sta prendendo sempre più piede. In realtà, a partire dal celeberrimo finto attacco extra-terrestre alla Terra annunciato via radio da Orson Welles nel 1938, la voglia di burlarsi del pubblico ha sempre acceso la fantasia dei manipolatori di immagini e informazioni. Del resto perché non credere a ciò che si vede, se ciò che si vede (o si sente) sembra più vero del vero? Il caso più eclatante, a livello di successo planetario, è sicuramente "The Blair Witch project", ma gli esperimenti curiosi sono tanti. Da "Forgotten Silver" di Peter Jackson, sul presunto scopritore del cinema in Nuova Zelanda, tale Colin McKenzie, (in realtà mai esistito); fino al recente "September Tapes" di Christian Johnston, che si mette sulle tracce di Bin Laden rendendo indistinguibile verità e finzione e velando di un'ambiguità tutt'altro che etica gli intenti di fare un'originale contro-informazione. I giovani Federico Greco e Roberto Leggio si accodano al "genere" con entusiasmo e inventano una spassosa correlazione tra lo scrittore americano dell'orrore Lovecraft e le terre nebbiose e all'apparenza placide del Polesine. Un ipotetico manoscritto proverebbe infatti che Lovecraft, che parrebbe non avere mai lasciato la terra natia, è stato invece in Italia nel 1926 e si è ispirato proprio ai miti del Polesine per scrivere i suoi racconti più famosi. L'idea è geniale, perché il delta del Po conserva tuttora un fascino arcaico in cui sette, antiche leggende e creature anfibie non stonano affatto, ma il bluff messo in piedi dai due registi dimostra presto di avere il fiato corto. È troppo simile a "The Blair Witch Project" il percorso della troupe alla ricerca dello scoop, con una macchina da presa che non vuole saperne di stare un solo secondo ferma (come se movimenti frenetici e verità andassero per forza di pari passo). Se le facce locali hanno un loro perché e trasmettono una certa curiosità, anche solo nella cadenza dialettale della parlata, i momenti di fiction costruiti intorno al gruppetto di ragazzi protagonisti suonano sempre falsi, rendendo evidente la fatica di far accadere qualcosa per dare pepe alla vicenda. Ma i rapporti interpersonali a base di litigate, prese di posizione, simpatie, permali e sfoghi, danno sempre l'idea di una normalità costruita a tavolino, in cui la spontaneità sembra sottintendere esigenze più narrative che di relazione. Così come non convince il progredire in nero dell'atmosfera, con eventi le cui conseguenze appaiono più che altro gonfiate per dare sostanza all'epilogo. Ma la conclusione non risulta sconvolgente come nelle intenzioni e conferma la sensazione di bella occasione perlopiù mancata.
