TRAMA
Un docente di lingue classiche è spinto dal padre a trasferirsi da Roma a Bologna, per imparare finalmente qualcosa sulla vita e – soprattutto – sulle donne…
RECENSIONI
Prendete un timido, anzi Il Timido, quello che di film in film, (quasi) senza eccezioni, Avati mette in scena; esasperatene la gentilezza, l’autocontrollo, la ginecofobia, fino a renderlo un giovine compito e affabile, intessuto di una elaborata cortesia che non è mera vernice ma intima volontà di compiacere il prossimo, o meglio, chiunque tranne (ovviamente) se stesso; domiciliate il carattere deamicisiano così ottenuto nel corpo – che sembra confezionato su misura – di un Marcorè avvilito in un ghigno à la Forrest Gump; avrete infallibilmente Il Cuore Altrove, ultimo (per ora…) parto di un regista che (non) fa sempre lo stesso film. Anno dopo anno, infatti, l’opera ciclica (riciclata?) è sempre più brutta.
Non sono l’inconsistenza dei personaggi, la prevedibilità delle situazioni, la piattezza del dialogo la causa prima del tonfo: simili elementi, superfluo dirlo, non favoriscono certo la buona riuscita di un film, ma non ne determinano automaticamente la caduta. Quello che disturba davvero è la svogliatissima noncuranza con cui Avati (non) cerca di riproporre le stinte litografie del proprio repertorio, associata alla risibile volontà di “elevare” il tono del bozzetto di turno riferendosi in modo più o meno diretto a opere e autori che si trovano ad anni luce di distanza, in tutti i sensi. Dopo un prologo che strizza l’occhio a Manhattan (immagini in bianco e nero di una Bologna nebulosa nei suoi garbati fasti primo Novecento), il regista confeziona una serie di sequenze poco o nulla interessanti, in cui, fra macchiette da scalcinato avanspettacolo (lo zio scapolo e sarto, quindi effeminato e sculettante, o il padre, uno smorto Giannini, che si fa le impiegate con il benevolo consenso della consorte), gag da prima elementare (la cieca accessoriata di difetto di pronuncia, la manicure dalla sintassi fantozziana) e figurine virate in caricatura involontaria [gli allievi di Nello, che paiono usciti dai sogni della Moratti (e dagli incubi di noi tutti)], si ammicca a Chaplin (Luci della Città, ovvio), al Fellini de I Vitelloni (gli umori profani nella bottega sacra) e (dopo Dichiarazioni d’Amore) al noir, con un’improbabile dark lady (occhiali scuri e sigaretta accesa sono di rigore) incapace di vero cinismo o autentica sensualità. Il sentimento è imbevuto di anodina melassa (memoranda la scena della seduzione: “posso scaldarmi i piedi sulla tua pancia?”), la poesia si riduce a vacuo florilegio di sentenziosi brandelli (una frase in latino fa sempre effetto, è risaputo), il solo momento di vera passione (il finale allo specchio, di una bellezza intima e fragile del tutto assente dal resto del film) si perde in una voce rivelatrice completamente superflua. Montaggio raffazzonato (una battuta di Sandra Milo è brutalmente troncata… va bene, ho sbagliato esempio), doppiaggio (applicato alla vaga e insipida Incontrada) sconfortante, musica idem, scene e costumi che farebbero la gioia di un trovarobe da fiction (co-produce la Rai).
Un film riassunto alla perfezione dal suo titolo: fa venire voglia di essere altrove, con il cuore e tutto il resto.

... continua a raccontare Pupi Avati ambientando, nella Bologna degli anni Venti, la storia dell'iniziazione amorosa di un introverso professore di italiano con una giovane ragazza cieca, capricciosa e smaliziata. Nonostante una certa grazia di insieme e una malinconia, che (per fortuna!) non diventa mai nostalgia, pero', la minestra e' riscaldata e ci si ritrova in uno sceneggiato televisivo per la prima serata dove tutto e' prevedibile e piatto, dalla confezione allo spessore del racconto.
La sceneggiatura attraversa senza fantasia i luoghi comuni del melodramma contratto e banalizza il protagonista, invece ricco di possibili sfumature. Sembra quasi di sfogliare i capitoli riassuntivi di un libro illustrato, con immagini che non trasmettono mai l'interiorita' dei personaggi, limitandosi ad una superficie che copre e svilisce qualsiasi coinvolgimento. Anche la "bolognesita'", marchio di fabbrica del regista, e' pura facciata: non bastano le solite battute con accento cadenzato per trasmettere lo spirito di una regione e di un'epoca. In altri film, ad esempio "Storia di ragazzi e ragazze", Pupi Avati era riuscito a fare entrare lo spettatore in un'atmosfera d'altri tempi, curando i dettagli e la caratterizzazione dei personaggi, soprattuto quelli minori. Ne "Il cuore altrove", invece, non si esce da un quadretto di banali macchiette che non diventa mai davvero comunicativo, aggravato da un doppiaggio mal calibrato che toglie anche quel poco di naturalezza previsto dalle battute. Per cio' che riguarda gli interpreti, Neri Marcore' e' in parte e presta la sua fisicita' dinoccolata al protagonista con timida convinzione, mentre Vanessa Incontrada, oltre alla sua bellezza, regala ben poche sfumature al non facile personaggio di Angela. Il doppiaggio con dizione perfetta, poi, probabilmente aiuta la sua resa recitativa ma ne azzera la spontaneita' e provoca un effetto di straniante distacco. Quanto agli altri, Nino D'angelo incarna il "tipo napoletano", ovviamente verace, Giancarlo Giannini e' il "tipo romano", ovviamente sopra le righe (ma e' sempre un piacere vederlo recitare) e Sandra Milo e' il tipo "donnone padano", ma non evita il disastro nonostante le poche battute. E anche il film scivola nel tipo "Pupi Avati", ma piu' che ampliare un punto di vista personale pare trovare nel riciclo il suo punto di forza.
