
TRAMA
Un gruppo di aspiranti attori, sceneggiatori e registi cerca di sfondare a qualsiasi costo – o quasi – nella Hollywood del secondo dopoguerra. Un film cambierà per sempre le sorti del cinema (e non solo).
RECENSIONI
Doveva arrivarci, prima o poi. Perché di tutto ciò che ha realizzato Ryan Murphy come showrunner, regista, sceneggiatore e produttore, golden boy del sistema televisivo statunitense, Hollywood rappresenta il precipitato poetico e soprattutto il manifesto politico. Il punto di non ritorno - e di rilancio - di un universo dalle coordinate mélo e soap, che si sforma nella satira horror, governato con sapido spirito pop e sguardo barocco, sensibilità queer a fior di pelle e humour caustico, popolato da outsiders in lotta contro i sistemi di potere (potere che è principalmente bianco, spesso maschio, eteronormativo). Con Hollywood, secondo frutto del miliardario contratto firmato con Netflix dopo The Politician, Ryan Murphy risale alle origini del suo mondo narrativo, alla Golden Age di Hollywood, ai melodrammi e musical ammirati da ragazzino, a tutto quel serbatoio scintillante di storie in cui il non detto e il fuori campo, i tabù taciuti e le passioni proibite increspavano lo splendore della superficie, i sorrisi e le lacrime dei divi, il candore degli happy ending o il pathos esibito delle tragedie risolutrici. E di questo ritorno alle origini ne fa ripartenza, mappatura di una Tinseltown alternativa, rimodulazione – addirittura – di un mondo intero.
Non ci gira attorno né va per il sottile, Murphy. In Hollywood tutto è spudoratamente dichiarato fin dall’inizio: nei titoli di testa, attori e autori del film attorno alla cui lavorazione ruotano le principali vicende della miniserie si arrampicano sul retro delle gigantesche lettere della scritta Hollywood che domina l’omonimo quartiere losangelino, dandosi l’un l’altro la mano, sorreggendosi ad ogni inciampo, fino a raggiungere la cima, dalla quale assistono a un’alba non più tragica, al sorgere del sol di un nuovo avvenire. Un dietro le quinte che stavolta non va a scovare l’incubo dietro il presunto sogno, come accade in molte backstage stories in quei luoghi ambientate (da What Price Hollywood? di George Cukor a Inland Empire di David Lynch), ma che di quel sogno fa carburante per un programma utopistico e rivoluzionario, in un movimento opposto alla caduta rovinosa della sfortunata Peg Entwistle, giovane attrice che a soli 24 anni, il 16 settembre del 1932, scelse di suicidarsi, buttandosi giù proprio dalla lettera H svettante sulle colline della Mecca del cinema, triste vicenda oggetto della prima versione del film nello show. E allora cambio di consonante, non più Peg ma Meg, non più semplicemente una giovane attrice agli esordi ma una giovane attrice agli esordi afroamericana, e no, nessuno schianto finale ma una conclusione colma di speranza che apre a nuovi inesplorati scenari.
Le aspirazioni dell’ex soldato belloccio in cerca di gloria sul grande schermo sono solo uno specchietto per le allodole. Lo sguardo presto si concentra sui sofferti obiettivi e sulla faticosa lotta per raggiungerli di un regista mezzo filippino, uno sceneggiatore afroamericano omosessuale e il suo compagno impaurito dal coming out, un’attrice afroamericana in cerca di ruoli di primo piano e non più particine come cameriera dalla voce buffa, una produttrice ultrasessantenne ex stella del muto e il suo studio executive, anche lui non proprio giovanissimo e gay closeted per non danneggiare la propria carriera. Un microcosmo di diversity trionfante in cui Murphy rende operativa quella consapevolezza delle storture subite che in Feud: Bette e Joan, sulla rivalità tra le dive Bette Davis e Joan Crawford, rimaneva confinata in un malinconico spazio onirico terminale. Qui, invece, tutti vogliono andare a Dreamland, universo parallelo dove le minoranze marginalizzate da una radicata tradizione di razzismo, omofobia e sessismo salgono sulla sospirata ribalta, finalmente protagoniste di una favola ucronica che prospetta una Hollywood mai vista, ultraliberal, inclusiva, multiculturale.
«Movies don’t just show us the world how the world is, they show us how the world can be. And if we change the way that movies are made, you take a chance and you make a different kind of story, I think you can change the world». Lo dice, entusiasta, il giovane regista Raymond Ainsley/Darren Criss a un dirigente degli immaginari Ace Studios, nel secondo episodio della miniserie. Murphy e il suo sodale e co-creatore Ian Brennan impregnano tutta la narrazione di questo credo oltranzista al punto da (non) concludere l’ultima puntata – significativamente intitolata “A Hollywood Ending” – siglando l’immagine finale, in un gesto sospeso tra idealismo e presunzione, con una paradossale e battagliera scritta: “the beginning”.
La ricostruzione, che declina in pop squillante il Technicolor sfarzoso di un tempo, mischia il what if ai gustosi aneddoti di una Hollywood Babilonia addomesticata, dal sorriso sornione e complice, schietta nell’illustrare ingiustizie e lati oscuri ma depurata degli aspetti più sordidi, in una riscrittura che volutamente indulge nella pars costruens anziché in quella destruens (i soprusi del passato riecheggiano quelli odierni, meno clamorosi forse ma ancora effettivi): ecco così intrecciarsi alla vicende inventate i movimentati pool parties di George Cukor, le discutibili audizioni dell’agente e star maker Henry Willson e gli esordi impacciati del suo protégé Rock Hudson, le diverse prestazioni offerte dalla stazione di servizio (e piacere) gestita da Scotty Bowers (Ernie West nella finzione), le crisi di Vivien Leigh, l’anticonformismo esuberante di Tallulah Bankhead, il typecasting ostracizzante cui vennero inchiodate per pregiudizi razziali Anna May Wong e, in una diversa misura, Hattie “Mammy” McDaniel (e in quest’ultimo caso Murphy, che sa perfettamente dove soffia il vento, sembra anticipare le recenti polemiche sul ritiro temporaneo di Via col vento dal catalogo di HBO Max e la sua successiva riapparizione corredata da un disclaimer contestualizzante).
Culmine di questo percorso, narrativo e ideologico, è la serata degli Oscar del 1948 in cui a trionfare non sarà Barriera invisibile di Elia Kazan, così come accaduto nella nostra linea temporale (en passant: un film sull’antisemitismo serpeggiante nella compita borghesia americana), ma il tribolato e fittizio Meg. La cerimonia, cassa di risonanza mediatica dal non trascurabile potere immaginifico, diventa fastoso palcoscenico di una visibilità raggiunta, di una rappresentatività finalmente garantita (il montaggio alternato tra l’annuncio dei premi e le diverse minoranze che ne ascoltano la cronaca alla radio), in un susseguirsi edificante di azioni esemplari (la comparsa sul red carpet e sotto i riflettori di una coppia interrazziale e di una omosessuale) e di discorsi di ringraziamento intrisi di retorica motivazionale, con una costruzione così sfacciatamente stucchevole da non essere appositamente studiata (ma che stucchevole, ahinoi, rimane). Murphy, didascalico fino alla saturazione, alfiere della identity politics (la Half Initiative da lui lanciata nel 2017 mira a creare uguali opportunità di lavoro dietro la macchina da presa per donne e minoranze etniche e sessuali), rimane però morbido e allegramente disincantato nella trattazione del sesso, che è sì un elemento fondamentale nell’emancipazione personale ma verso il quale mostra una certa divertita condiscendenza in caso di suo utilizzo come merce di scambio (e non si fa problemi nell’utilizzare Mira Sorvino, personalità in prima linea nell’affaire Weinstein, nel ruolo dell’attrice amante del potente produttore).
Hollywood, in definitiva, appare come un lavoro più valido e interessante sulla carta che non nella realtà del prodotto finale, vittima dello stesso discorso che porta avanti con innegabile ardore. Ciò che colpisce, negativamente, dell’ultimo prodotto di un autore comunque imprescindibile per capire le dinamiche del racconto audiovisivo contemporaneo è la quasi totale mancanza di sottigliezza anche nell’obbedire a un programma dichiaratamente rigido, l’aver sacrificato ogni sfumatura narrativa sull’altare dell'agenda politica, la legnosità del rovesciamento dei canoni drammaturgici hollywoodiani riprendendone però le forme vistose. Contrariamente a quanto accade in quest'ultima fatica, lo spirito didattico di Pose – il lavoro al quale Hollywood può essere più facilmente e felicemente accostato, ancor più dell'ovvio Feud – non eclissa mai il suo cuore mélo, il vigore del pamphlet non riesce a snaturare l’entertainment. E analoga foga politica, in forma più brillante, la si può trovare nella meno riuscita delle stagioni di American Horror Story. In Hollywood la riscrittura della Storia à la Tarantino costeggia pericolosamente la fan fiction. Dietro l’angolo c’è il rischio della dittatura del sogno, della monodimensionalità della propaganda, dello svuotamento di senso – no, non della censura – della memoria, per quanto dolorosa e controversa essa possa essere.
