- Gabriele Salvatores
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TRAMA
Ezio è alle prese con una sceneggiatura per un film, ma le vicende dei suoi personaggi faticano a formare una storia coerente: la malattia di Vincenzo, la malinconia di Caterina, l’insoddisfazione di Margherita e la decisione di Filippo e Marta di sposarsi a 16 anni s’intrecciano solo con l’arrivo di Ezio all’interno della sua stessa storia.
RECENSIONI
Nel finale di Happy Family, l'occhio di Salvatores si sofferma sugli oggetti che hanno ispirato la creatività di Ezio - lo sceneggiatore del film-nel-film - e che vediamo sparsi per lo stiloso loft del nostro: una pallina per il detersivo (invenzione paterna che assicura all'autore-fattosi-personaggio una rendita sicura, al riparo dal bisogno di lavorare), una cartolina da Panama (paradisiaco posto di mare dove finiscono i personaggi interpretati da Bentivoglio e Abatantuono), il volantino di un concerto per solo piano (come quello eseguito da Caterina sotto lo sguardo innamorato di Ezio), l'indirizzo di un centro massaggi cinese (quello in cui si svolge una incongrua digressione all'inizio del film). Eccetera. Con un collage di cianfrusaglie che richiama parecchio la scena dell'agnizione de I soliti sospetti, allo spettatore si restituisce la dimensione finzionale di quello a cui ha appena assistito: la storia era, appunto, fiction; e il suo autore l'ha costruita partendo da suggestioni di vita vera, disseminate qua e là nel suo appartamento.
Se però quella scena fosse stata girata a casa di Salvatores, alla fine delle riprese di questo suo ultimo lungometraggio, la sua unica inquadratura sarebbe stata riempita dai dvd dei film di Wes Anderson. Happy Family è letteralmente infestato da Anderson. Infermieri vestiti di verde che passano dietro ai personaggi, in fila indiana e di profilo, contro lo sfondo di un ospedale bianchissimo con le serrande dello stesso verde dei camici degli infermieri. Camere da letto addobbate con carta da parati con motivo identico a quello di lenzuola e coperte sul letto. Familiari eccentricamente stilosi al funerale del padre. Servitori indiani in una casa borghese di via del Conservatorio (!). Figlia depressa che fuma nella vasca da bagno. Accessori geek-chic a profusione. L'andare per mare. I colori primari dominanti. Eccetera (a una seconda visione, forse, si potrebbe riempire un quaderno). Il referente stilistico è così smaccatamente pervasivo e dilagante che l'effetto è imprevedibilmente simpatico. Gabriele Salvatores, a 60 anni suonati, usa l'irresponsabilità e l'entusiasmo sincero di un ragazzotto appena uscito dalla scuola di regia e si fa possedere sfacciatamente dall'evidente infatuazione stilistica del momento. Per di più, l'infatuazione è per il cinema ipercomposto, saturo e geometrico di un quarantunenne assai di moda; e l'adesione al modello è puro esercizio di ricalco. La bizzarria con cui si esegue il numero (l'applicazione di un calco pedissequo a una materia vibrantemente e autenticamente - seppur stilosamente - milanese) e lo sprezzo del ridicolo che anima non soltanto l'assunto estetico di base ma anche certi inserti disgressivi davvero audaci (soprattutto il "notturno milanese" su cui torneremo) sono motivi di vitalità. E di coraggio. Che mostrano una passione autentica, una voglia di fare, una voglia di osare che in questo paese suonano alieni.
Tuttavia, il film è integralmente sbagliato. E il coraggio, la voglia e l'audacia sono piattamente impiantati su uno script senza guizzi, dipinto con una tavolozza rubata a qualcun altro. Oltre all'incomprensibile derivatività (che però tende più allo stracult che al fallimento autoriale), c'è un plot traballante, dialoghi anemici e una serie di trovate consunte (i personaggi intorno all'autore, i personaggi che rivendicano contro l'autore), battute disarmanti (si può proporre ancora nel 2010 una gag sulla erre/elle dei cinesi?), metacinema dei poveri (ho sentito qualcuno disturbare il nome di Charlie Kaufman riferendosi a Fabio De Luigi: non commento) che gridano vendetta. Ci sono anche momenti piacevoli (come la storiella del criceto morto) e, più in generale, una solida professionalità (fotografia, art direction, direzione degli attori e alcune performance) che staccano Happy Family dalla plumbea mediocrità nostrana. C'è, soprattutto, il tentativo generoso e vivido di rendere Milano protagonista del film, dando spazio a riprese in esterno che assecondano la composizione rigida e ricca del quadro, con autentiche delizie fotografiche che uniscono cromatismo e dinamismo dell'inquadratura a una specie di omaggio metropolitano che a volte però scade in bislacco sottotesto promozionale. Quest'ultimo vezzo assume contorni smisurati nella digressione del notturno milanese: mentre l'obiettivo inquadra le mani di Caterina che suonano Chopin al pianoforte, Milano si sovrappone al bianco e al nero dei tasti (prima color seppia poi subito in bianco-e-nero freddamente romantico) con un impeto espressivo talmente sconsiderato e incongruo da evocare l'aspettativa di un cartello finale col simbolo dell'Assessorato al Turismo. Ambizioso, copione e irresponsabilmente sincero: questo è l'assurdo film di Salvatores. (La sincerità, forse, gliela concedo per i due o tre sorrisi che strappa e per la voglia controcorrente e positiva di tentare un racconto vitale di una città confinata in cliché rappresentativi deprimenti; il resto è del tutto inconsistente).
Non ho ricordo di una riproposizione così esplicita di un'altrui poetica, una copia così esposta impudentemente a bella posta, così sfacciatamente ribadita. In Happy Family tutto rimanda scientemente a Wes Anderson, dal gusto della messa in scena all'apparato strettamente visuale, dalla frontalità teatrale della macchina da presa all'oggettistica, dalle firme stilistiche facilmente riscontrabili ai dettagli, dall'utilizzo della colonna sonora sino ai tratti più superficiali dei personaggi, ai loro movimenti, ai loro tic. Alle loro vicessitudini. Non ho ricordo di un omaggio che lambisca così insistentemente il plagio, di un tentativo di emulazione così cocciuto e mai dissimulato, anzi, asserito placidamente, in un accumulo ridicolo (quando si arriva, incredibilmente, a Le avventure acquatiche di Steve Zissou il segno è oltrepassato da tempo). Quel che rimane del pur rilevante apparato citazionista (Manhattan, I soliti sospetti, Vertigo, Bad Santa e via elencando, ma anche Kaufman/Jonze, la miniatura di Essere John Malcovich, lo sviluppo di Adaption) evapora, a confronto: Salvatores imita una delle poetiche più personali e riconoscibili del panorama contemporaneo, forgia un malriuscito Wes Anderson apocrifo, una meta-piéce risibile con annessa, ovviamente, la romantica involuzione sessantottarda che permea con alterne fortune le opere del cineasta milanese, costante che qui comodamente sopperisce all'impossibilità di restituire la complessa e stratificata dimensione delle figurine andersoniane, risolvendosi i personaggi di Salvatores in semplici macchiette, elementi di una fauna esente da evoluzione, munita di gag e battute grossolane da commedia italiana deteriore, di lieve e subdolo cinismo politically uncorrect, di slanci letterari di qualunquistica retorica da sociologismo adolescenziale e tare da poesiola spiccia nemmeno midcult. Nel raccontare la storia di uno scrittore mediocre Salvatores plasma (sintomaticamente, verrebbe da dire a mo di cavillo teorico giustificativo) un film mediocre, impantanandosi nel già detto (i fitti rimandi alla filmografia dell'autore sono segnale di consapevolezza della putrefazione o banale gioco intertestuale?) mentre s'adagia sulla (pur esteticamente riuscita) rimasticatura: che la coazione a ripetere dei suoi temi e l'inspiegabile intento insito nel calco andersioniano siano correlativi di una stasi artistica incapace di destarsi (se non intraprendendo vie già percorse)? Che la folgorante digressione dedicata a Milano e al suo sottosuolo (nei molteplici sensi del termine) indichi allo spettatore la possibilità di altre storie castrate da ottuse logiche di mercato, dall'imposizione delle categorie industriali dell'uguale, del trito e dell' inerme? Che Happy Family sia, oltre che un cadavere di bell'aspetto, una morte rincorsa, un manifesto inverso d'intenti? Domande che, comunque, il testo pone flebilmente, essendo l'opera impotente, disinteressata a sposare la forza del fastidio voluto, dell'irritante ricercato, la radicalità di un suicidio fatto pellicola, dell'inadeguato come rivendicazione di sofferenza artistica / provocazione intellettuale (si pensi alla rappresentazione dell'impasse creativa di Kitano in Takeshi's e Glory to the Filmamaker!). Regista capace, autore ipervalutato, abile sperimentatore, Salvatores – sulle macerie del flop di Come dio comanda – s'accomoda sul cinema paraculo, sull'ammicco alla coolness, sull'innocuo svolazzo pseudo-intellettuale di stampo (solo in superificie) pirandelliano. La commedia, oggi più di ieri, è solo un efficace ammorbidente.