Da un mediocre romanzo di Patrick McGrath, anche sceneggiatore di Spider, Cronenberg deriva un film debolissimo che neanche i suoi fans più accaniti, credo, riusciranno a difendere a cuor leggero e onestà intellettuale intatta. La cosa più preoccupante, quella che davvero inquieta stavolta di Cronenberg, è che non dà l’impressione di aver girato un film interlocutorio né di aver fatto un passo falso comunque foriero di un qualche “prospettivo” spunto/spiraglio di sviluppo futuro; David Cronenberg, con Spider, si è semplicemente ripiegato su se stesso e ha girato un film cronenberghiano ma epurato dei cronenberghianesimi più tipici, quelli che da sempre lo caratterizzano e ne hanno decretato la sostanziale sopravvalutazione. D’altra parte, già eXistenZ era stato un bel campanello d’allarme: summa riepilogativa del suo cinema, il film-gioco metteva in scena, fondendoli, i due Leitmotiv del p(r)o(f)eta della Nuova Carne: le mutazioni biologico-corporee indotte dalla tecnologia e la stratificazione/confusione dei livelli di realtà, immediata conseguenza del “nuovo” apparato percettivo dell’homo tecnologicus. La grossa delusione di eXistenZ era costituita dal fatto di presentarsi come ovvio (e “ottuso”) remake di Videodrome giunto abbondantemente fuori tempo massimo e risibilmente aggiornato all’epoca multimediale videoludica; la cosa interessante, di eXistenZ, era l’(auto)ironia con cui, per la prima volta, Cronenberg sembrava maneggiare i temi portanti del suo cinema. Come se volesse chiudere un (IL) capitolo e, “scherzandoci su”, prenderne le distanze (si veda la sequenza dell’assemblaggio della pistola organica, evidente citazione parodica della “serissima” mano da fuoco sfoggiata da Max Renn in Videodrome). Probabilmente stanco di scoperchiare infinite scatole cinesi (la ormai prevedibilissima e stravista costruzione in abisso di eXistenZ) e di elucubrare da 30 anni su argomenti nati vecchi (Ballard ha scritto Crash nel 1973…), Cronenberg ha tentato con Spider una normalizzazione non snaturante del suo cinema che fosse in grado di far piazza pulita di una pesante eredità “parafilosofica” ormai sclerotizzata ed obsoleta (già oggetto di ironica abiura, ripeto, in eXistenZ).
Niente Nuova Carne al fuoco, dunque, ma spazio -come già in Dead Ringers e soprattutto in M.Butterfly– a un rispettabilissimo, umanissimo dramma psicologico interiore, esplorazione filmica dei complicati meccanismi di funzionamento della mente (di un pazzo) –ergo- stop al Cronenberg più pacchiano e mutante, via libera al Cronenberg della labilità dei confini tra realtà vera e realtà percepita. Esemplare dell’intenzionalità/ostentazione di tale atteggiamento purificatore e “classicista” è il trattamento riservato al romanzo di McGrath, curiosamente mutilato delle pagine che sembravano davvero scritte apposta per il regista Canadese, pagine piene di viscide larve e di corpi muta(n)ti (“… il retto mi attraversa il cranio e l’ano si trova in cima alla testa, dove tra le ossa che si uniscono alla sommità si è formata un’apertura, che io tocco continuamente con orrore e sorpresa, una sorta di matura fontanella escretoria …”) e al contempo fedelmente trasposto nella struttura bipartita in cui passato/presente e verità/ricostruzione schizofrenica si compenetrano, si confondono (veri cronenberg-ish) per poi chiarirsi e concludersi in maniera perfettamente coerente e intelligibile. E banale. Sì, perché l’architettura di Spider (libro e film) è assolutamente banale e prevedibile (“classica”), essendo chiaro fin da subito che la realtà non è quella che il personaggio Spider ricostruisce e racconta. Di questo Cronenberg riappacificato e fruibile sono rimasti, in Spider, molti marchi di fabbrica: l’elegante fotografia di Suschitzky (qui meno fredda che in passato), i lenti e sinuosi movimenti di macchina, le belle musiche di Howard Shore (più minimaliste del solito) e la recitazione straniata, con un Fiennes che però non fa molto di più che bofonchiare e caracollare tutto il tempo; davvero poco per risollevare le sorti di un film privo di motivi di reale interesse, lento ai limiti del catatonico, vuoto di contenuti e sostanzialmente, semplicemente noioso.
Da un mediocre romanzo di Patrick McGrath, anche sceneggiatore di Spider, Cronenberg deriva un film splendido che non solo affascinerà i suoi più accaniti fans, ma che non mancherà di procurargliene di nuovi anche tra gli scettici. Spider, infatti, è sì un film pienamente cronenberghiano ma è anche, insieme a Dead Ringers e M.Butterfly, il suo film più “tradizionale” e fruibile. Spider è (già) un Classico: dopo il film-gioco eXistenZ, magistrale capolavoro riepilogativo di tutta l’estetica-poetica del geniale regista canadese, Cronenberg ha deciso di sottrarre dal suo Cinema del corpo, delle mutazioni “tecnologizzate” e del depistaggio percettivo dei sensi “infetti” dell’homo tecnologicus, gli elementi più scomodi e disturbanti (ma mai gratuiti) per indagare, senza effett(acc)i e mostruose contaminazioni biomeccaniche, i segreti meandri della psiche. Questa sottrazione è ovviamente motivata: una volta portata a compimento in eXistenZ l’epopea della Nuova Carne proiettata in un futuro-presente che ormai ci appartiene, Cronenberg considera lo spettatore come compiuta Nuova Carne al lavoro, pronto a dubitare “naturalmente” dello statuto di Verità dell’Immagine (tele-visiva in Videodrome, video-ludica in eXistenZ, cinematografica in Spider); dunque, dato che il futuro è ora, non c’è più bisogno di insistere “didatticamente” sul perché dell’esserCi hic et nunc della Nuova Era né sulle cause dell’abbattimento dei confini tra realtà/immaginazione, verità/sogno, oggettività/soggettività, tutto è già dato, già accaduto all’interno e all’esterno delle profetiche visioni del cinema di Cronenberg. Siamo (ormai) pronti. E Spider è forse il primo Dramma Psicologico del nuovo millennio, dell’epoca cinematografica post-DavidCronenberg.
In effetti la naturalezza, la apparente “banalità” della complicata struttura di Spider, in cui passato, presente, immaginazione e realtà si intersecano e si (con)fondono, non fanno che mettere ancora più in risalto la sostanziale perfezione raggiunta dal cinema del regista, che si presenta come una macchina autosufficiente e autoreferenziale, pronta sì ad affascinare gli “iniziati” ma ormai talmente (neo)classica da risultare riconoscibile, fruibile e intellegibile, nella sua grandezza, anche a chi superficialmente ha sempre snobbato David Cronenberg bollandolo come un sopravvalutato regista di horror filosofeggianti, sostanzialmente incapace di crescere, di rinnovarsi e di staccarsi definitivamente da un’infantile ricerca del turbamento dalla grana grossa e del disgusto fine a se stesso. Così stavolta basta un vetro rotto e uno spago intrecciato a rappresentare la metaforica trasformazione uomo-ragno, è sufficiente l’alternarsi di due attrici per fotografare la vertigine schizofrenica di una mente in the mouth of madness, ci si affida allo sguardo e alle movenze di uno splendido Fiennes per evocare deliranti visioni paranoiche… Ma basta leggersi uno dei tanti esempi di prosa “cronenberghiana” del romanzo di McGrath per capire quanto David Cronenberg abbia (inaspettatamente) purificato la fonte letteraria a favore di una sua “cinematografizzazione” pulita, limpida, adulta, assolutamente (di nuovo) Classica: “… il retto mi attraversa il cranio e l’ano si trova in cima alla testa, dove tra le ossa che si uniscono alla sommità si è formata un’apertura, che io tocco continuamente con orrore e sorpresa, una sorta di matura fontanella escretoria …”; questa e molte altre sono le immagini che sembravano “invitare a nozze” Cronenberg con le sue caratteristiche derive mutanti e visionarie, questa e molte altre sono invece le dimostrazioni (se mai ce ne fosse ancora bisogno) che Cronenberg è ormai un Autore tout court e che non ha più (ma non ha mai avuto, in realtà) bisogno di “effetti” di sorta per catturarci con le sue splendide ossessioni. Le sue vere armi sono (sempre state) altre, “puramente” cinematografiche; tra queste tornano in Spider, perfettamente cristallizzate, molte tra le più tipiche e inconfondibili: le vertiginose strategie narrative, l’elegante fotografia del fido Suchitzky, i lenti e sinuosi movimenti di macchina, le belle musiche di Howard Shore e la recitazione straniata funzionalissima al suo cinema gelido, lucido e (ora più che mai) tetragono. Qualcuno ha ancora dei dubbi?
Gianluca Pelleschi
Il senso di questo speciale è tutto racchiuso nell'intervento di Gianluca Pelleschi che ne costituisce l'effettiva genesi. Potrà apparire fatuamente provocatorio il recensire due volte lo stesso film distruggendolo nel primo caso e incensandolo nel secondo, ma dietro l'evidente ludicità (lucidità) di questa critica mostruosamente speculare si nasconde l'inquietudine di chi è chiamato a pronunciarsi sui film, per quanto disimpegnato e amatoriale sia il suo compito. E se è vero che ci sono registi (Cronenberg ne costituisce forse l'esempio più eclatante ma altri potremmo nominare, da Spielberg a Greenaway, da Moretti ai Coen, ad Allen) di cui si può parlare bene o male per gli stessi identici motivi, è altresì indiscutibile che proprio esempi come questi rendono evidente come, al di là delle folli pretese di oggettività, alla fine sia proprio il famigerato gusto personale a fare la differenza tra una critica e l'altra.
Il discorso a mio avviso si riduce a una (falsa) questione: quanto di questo gusto deve avere il sopravvento, quanto deve essere messo a bada dal ravvisarsi di meriti o demeriti effettivi della pellicola? E questi meriti o demeriti sono effettivi sul serio? E sono poi meriti o demeriti dopotutto? Il discorso si avvita pericolosamente su se stesso, non si arriva a nessun punto se non a quello che con lo scrivere di film, come di qualsiasi altra cosa, lo scrivente parla di se stesso. Discutere di critica non può prescindere da questo inevitabile elemento: è solo così che mi spiego, ad esempio, perché di alcuni film che mi piacciono moltissimo non mi vada di scrivere nulla e di altri che mi lasciano indifferente o che non mi convincono per niente diventi per me imperativo buttare giù qualche rigo. La mia esperienza mi dice che un tempo leggevo le recensioni per capire quali film andare a vedere perché non potevo pretendere di visionare qualsiasi cosa: un filtro mi era necessario. Posta questa esigenza, conosciuti più critici, capito il loro linguaggio, registrato il loro approccio, mi ritenevo in grado di comprendere se quel film mi sarebbe piaciuto o meno. Non sto dicendo che mi trovavo necessariamente d'accordo con quanto scrivevano – il loro parlarne bene o male era in qualche modo irrilevante – ma ero perfettamente in grado di afferrare, dal loro argomentare, in positivo o negativo che fosse, proprio perché confrontato di continuo sul campo pratico della visione dei titoli da loro recensiti, se un film mi avrebbe interessato o no. Una funzione del critico (e mi riferisco al quotidianista e comunque a colui che si legge generalmente prima di vedere il film in questione) può essere questa: farsi comprendere, far comprendere la propria visione delle cose, costituire una sorta di cartina di tornasole, uno spunto che indirizza lo spettatore indeciso sul da farsi (vedersi). In questo senso la (bi)recensione di Pelleschi (se hai già letto Pelleschi, se hai presente la sua visione delle cose, se l'hai applicata sul campo pratico della visione del film), la sua trattazione, per quanto teoricamente duplice, è per me univocamente diretta a darmi quell'indicazione che cerco.
Riguardo alla recensione letta “a posteriori” (lasciamo lo spinoso campo dei quotidianisti) mi schiero decisamente su un versante che nega un’effettiva possibilità di analisi obiettiva del film: qualsiasi trattazione tradisce un punto di vista e da questo, per fortuna (ci tengo a sottolinearlo), non si scappa. Sono con William Pater che nel 1873 scriveva che la cosa importante “non è che il critico possegga una corretta definizione astratta della bellezza da rivolgere all’intelletto, ma un certo tipo di temperamento“. Se leggo una recensione di Garella (e dico Garella non a caso, stante la posizione da lui espressa) è perché voglio conoscere l’opinione di Garella (e qui si inserisce l’inarrivabile Paolo Cherchi Usai che scrisse a proposito di un critico “da quotidiano” che apprezzava: “Quando leggo i suoi articoli mi sembra di mettermi a sedere con lui davanti a una bottiglia di buon vino rosso. Poiché lo tratto come un commensale, capisco anche le sue parzialità e ammiro le sue idiosincrasie“). Tutto ciò senza mancare di citare, ovviamente, Oscar Wilde che nel suo saggio IL CRITICO COME ARTISTA afferma: Il critico sarà un interprete (…); è soltanto intensificando la propria personalità che il critico può interpretare la personalità e l’opera altrui, e più energicamente la sua personalità entra nell’interpretazione, più reale questa interpretazione diventa, più soddisfacente, più convincente, e più vera. E ancora: per il critico l’opera d’arte è semplicemente uno spunto per una nuova opera sua; quanto questo possa essere vero ce lo dice proprio il bino intervento pelleschiano. A seguire altre occasioni di riflessione con gli interventi di Baroncini e di Selleri (che sembra aver bellamente ignorato le certezze incoscienti della sua giovanissima età per approdare subito ai dubbi e le perplessità del critico maturo). A chiudere idealmente il cerchio il bell’intervento di Billi, imperdibile occasione per inquadrare la questione anche storicamente (laddove c’è anche chi ritiene che certa critica cinematografica in realtà sia ancora in fasce, mutuando linguaggio e armamentario dalla critica letteraria, il che spiega certo disorientamento nei confronti di alcuni film o cineasti, come ebbi modo già di sottolineare parlando di 8 DONNE E 12: immagine e regia rimangono concetti ancora sconosciuti a molti) e la sarabanda di voci, frammenti, opinioni, spigolature amorevolmente curata da Rangoni.
Per quello che concerne me faccio poche ma doverose precisazioni : non scrivo di film per far capire qualcosa a qualcuno (concetto aberrante, a pensarci bene – soprattutto se applicato a me che, di norma, del capire non faccio mai il mio scopo, ritenendo del resto che chi recensisce non debba mai dimenticare di essere innanzitutto uno spettatore – la visione critica a priori mi pare un’altra agghiacciante aberrazione -), proclamo ad alta voce il mio mal di denti, il mio dirittodovere a non nasconderlo dietro una mano che mi copre la bocca, a recensirlo senza ritegno non potendo fare altrimenti. L’ho sempre fatto, continuerò a farlo, almeno fin quando non diventi mal di testa. Non ho un programma, non ho un sistema e, perdonatemi, non faccio del cinema e del suo parlarne la mia ragione di vita: a un grande film preferirò sempre, e di gran lunga, un grande libro.
[tra parentesi non ritengo GLI SPIETATI una rivista di critica in senso stretto (c’è sempre una supponente aura professorale intorno alla parola “critico”, cosa che mi infastidisce abbastanza) ma l’occasione per un gruppo di appassionati – entusiasti, infuocati, disillusi etc. – di dare il proprio parere, facendo senso nel proprio piccolo, su ciò che vede al cinema, alimentando un dibattito che (il crescente numero di lettori ce lo conferma) possa coinvolgere il pubblico più attento, quel pubblico che, varcando la soglia di una sala abbia non solo voglia di passare una serata rilassante ma anche di discutere e riflettere su ciò che ha visto. A tutti costoro va il ringraziamento della redazione per le continue testimonianze di affetto e considerazione]
Luca Pacilio
Il soggetto, nella sua evidenza, è sottinteso. Mi si chiede, gentilmente, semplicemente, cosa sia "scrivere una critica, scrivere di cinema" ma dopo un lampo di piacere nel dolce far nulla estivo, ci si rende conto che non si sa da dove cominciare a scalare questa parete di bel marmo levigato. Una gatta da pelare a mani nude: da dove si comincia? appunto, dalle domande. Senza sfondare nel questionario da catechismo pomeridiano si inanellano le seguenti: chi è il critico? chi è il pubblico? che cos'è un/il film? critica vs. analisi? quali sono i riferimenti culturali, intimi metafisici cui ci si rifà d'occasione in occasione? Poi la faccenda prolifera tumorale, l'albero delle opzioni si fa nespolo poi quercia poi baobab e noi qui con gli occhi increduli a guardare questo miracolo di pensiero automatico. Ma che palle. Ciascuna questione (forse il vero critico avrebbe da dire: ciascheduna. Ma tant'è) merita più d'un punto interrogativo, il semplice "esser poste" non fa delle domande una risposta, purtroppo e poi quale sarebbe la profondità cui saremmo in grado di giungere, quale la spropositata quantità di parole, io -diciamola tutta- non leggerei mai una cosa del genere.
Il soggetto tende a cambiare, dalla prima persona singolare (l'aborrito "io"), al collettivo, all'impersonale, se viene qualche dubbio: è lì in fondo a destra.
Un ribaltamento di fronte sovviene poi, forse anche frutto di malsana pigrizia, "ma perché mai lo si chiede a me? Lo dicano i lettori quello che vogliono quello che cercano" Non è questo però il punto.
L'impersonale è l'armatura che si cerca, lo scudo di una altrui autorevolezza. Citare testi correttamente e correttamente infilare la testa sottoterra.
Insomma cosa si fa? Si scrive cercando d'esser piacevoli, acuti, ammirabili, stilosi, individuabili, non facili prede della – per altro necessaria – presa-per-il-culo, credibili.
Altro? Si cerca di rispettare il lettore - escludiamo letture di gruppo a priori – fornendo un succo gustoso e piacevole ma non necessariamente conciliante né prevedibile, sperando non sia (troppo) frutto di personalissimi mal di denti, spocchia, fidanzate in volo con migliori amici.
Ancora? Sì, la faccenda personale: il tentativo di migliorare, affinando i metodi e le forme espressive, ampliando le conoscenze culturali (e quelle umane, perché no), subendo insomma cicliche cadute e rinvigorimenti di passione ed attenzione.
Volendo alzare lo sguardo dall’ombelico per un attimo ci si accorge che il momento attuale è preda d’una stasi teorica insopportabile, i paradigmi consolidati puzzano di muffa ed Accademia, nozioni come quella di ‘autore’, ‘postmoderno’, ‘industria cinematografica’ vanno reinquadrate e finalmente storicizzate; stiamo vivendo il riflusso, la risposta alle questioni ch’esse mettono in luce ma sguarniti di nuovi fari: in questo piccolo spazio allora si tentano prospettive e viaggi interpretativi, eclettici e forse inconcludenti ma che vogliamo si mantengano vivi. L’analisi è inutile a tal fine, è un a posteriori che funge da giustificazione, sterile se non nelle dispute, od implicito meccanismo mentale al pari delle strade delle comprensione: interpretare è il passo lungo, la sfida abduttiva che è creazione, così divertente che, si spera, diverta.
Uno spreco di parole quando David Bordwell in “Making Meaning – Inference and Rhetoric in the Interpetation of Cinema” sbriga tutto così acutamente: “La critica non è una scienza né un arte ma ricorda entrambe, come esse dipende da abilità intellettuali (cognitive skill); richiede immaginazione e gusto e consiste in un insieme di attività istituzionalizzate di problem-solving. La critica è, penso, meglio da ritenersi come un’arte pratica, qualcosa come la falegnameria (forniture-making) perché il suo prodotto primario è un testo (piece of language= lett. pezzo di linguaggio) ma pure arte retorica.”
Luigi Garella
Non penso esista una ricetta a cui attenersi per scrivere recensioni. Ognuno filtra il film in base alle proprie conoscenze e alla propria sensibilità. In genere cerco di scrivere quello che vorrei leggere. Fra tutte le recensioni che leggo mi colpiscono soprattutto quelle che raccontano un punto di vista personale e autentico rispetto all’esperienza visiva ed emozionale vissuta. Prima di tutto l’onestà intellettuale quindi, poi il gusto, ma non solo! In ogni caso non cerco l’oggettività, perché ritengo il cinema, come qualsiasi altra forma artistica, il trionfo della soggettività. Ciò che piace a me potrebbe non piacere affatto a qualcun altro e viceversa. Ma cosa significa piacere? Incapricciarsi di un titolo? Pensare egocentricamente che il proprio punto di vista sia superiore a quello del lettore? Allora, direte voi, cosa aggiunge il mio parere all’analisi di un film? E la storia del cinema non insegna nulla?
Calma, calma, non arriviamo subito alle conclusioni. Esiste una tecnica cinematografica che ha regole codificate e il confronto con altri film aiuta sicuramente a sviscerare un linguaggio complesso e articolato, in continua evoluzione ma sempre in debito con le scoperte delle origini. Mi capita però spesso di imbattermi in recensioni che sono un susseguirsi di dettagliate citazioni. Leggendo questi eruditi trattati non trovo sempre una chiave di lettura del film, ma riscontro il più delle volte una sorta di ostentazione culturale del recensore. Preferisco ricercare, sia quando scrivo sia quando leggo, un’empatia, una sensibilità, attraverso cui interpretare l’emozione suscitata da un film. L’esperienza personale ovviamente aiuta parecchio (non a caso si dice che i critici di cinema non siano altro che registi frustrati). Ho frequentato un corso di sceneggiatura ed ho co-diretto e scritto un cortometraggio, quindi mi interessa molto l’aspetto narrativo che ritengo basilare per la riuscita di un film. Sono appassionato di cinema fin da bambino e penso che vedere più film possibile aiuti a crearsi un punto di vista, sempre soggettivo, ma sicuramente più obiettivo. Il confronto, inoltre, aiuta a collocare e a capire un autore. In ogni caso penso sia molto importante porsi davanti ad un’opera cinematografica con umiltà, come se fosse un regalo da scartare che può racchiudere il dono che volevamo, quello che proprio cercavamo di evitare, oppure quella cosa ibrida che ci titilla da un lato e delude dall’altro. Il regista ha realizzato un film, nel momento in cui viene proiettato per un pubblico il film inizia a vivere, e continuerà a farlo fino a quando ci saranno occhi disposti a vederlo. Ecco, considero quello del recensore un occhio un po’ più scafato di altri. L’importante è motivare le proprie considerazioni, evitando gratuità o personalismi inutili alla comprensione del film.
A questo punto chiunque a suo agio con la parola scritta può decidere di recensire film e ogni scheda critica ha un valore nel momento in cui arriva a stabilire un contatto con il lettore, ad aggiungere qualche cosa al di là delle parole affiancate con correttezza ortografica. Anche in questo caso elemento distintivo diventa la soggettività: per qualcuno il risultato può essere banale, per altri illuminante. Non esiste un’unica verità, ma un punto di vista scalfibile dal confronto. L’importante è non trincerarsi nel proprio ego inespresso, ma ricercare il più possibile l’obiettività.
Luca Baroncini
Ma è bello o brutto?
Di che cosa parliamo? Della critica? Vada per la metafisica.
Parliamo della critica. La critica di che cosa? La critica di un film, ça va sans dire. Nulla di più facile: si entra in un cinema, si paga il biglietto (non ci provate…), ci si siede in sala, le luci si spengono e dopo un paio d’ore si scrive una cartella (non di più, altrimenti il vicedirettore si arrabbia, paventa la graforrea) contenente un giudizio di valore su quello che si è visto, meglio, sull’essenza vergine virginea e virginale del film in questione.
Peccato che le immagini proiettate sullo schermo non siano il tema della recensione. Niente malintesi, prego: non sto dicendo che i critici scrivano senza vedere i film che sostengono di valutare; semplicemente, ritengo impossibile giudicare un film in sé. E non solo per i critici.
In ambito cinematografico si possono individuare almeno due categorie di “rumore” visivo – cognitivo. La prima è composta dai rumori “da spoiler”. Per quanti sforzi si facciano, giungere alla degustazione di un’opera cinematografica senza aver gustato in anticipo almeno un pezzetto della suddetta è un’impresa disperata. Non parlo tanto di nozioni tramiche o sciocchezze del genere, per guardarsi dalle quali basta astenersi dalle recensioni (il 90% del totale) che sbrodolano il contenuto minimo (l’argomento, appunto) nello spazio massimo, quanto, più banalmente, delle immagini e dei suoni diffusi da trailer cinematografici (accettabili), televisivi (…), radiofonici (?), stradali (vagamente inquietanti). Quando tali frammenti di film raggiungono le orecchie e gli occhi dello spettatore, ha inizio la percezione dell’opera. La prima fase interpretativa è la più aperta: le immagini possono superare l’intenzione artystica che le ha create, imprimendosi in quella capricciosa lastra che è l’immaginazione dell’osservatore, iniziando a generare altre immagini, componendo un film ideale (alla lettera, nato dal libero gioco delle idee) che è un importante punto di riferimento non solo prima della visione (“vado a vederlo o no?”) ma anche dopo, per la valutazione dell’opera in sé. Quante volte viene da pensare “visti i trailer, mi aspettavo qualcosa di meglio”?
Ma anche ammesso di riuscire a giungere perfettamente puri al contatto con il film, il fatto stesso di avere visto altre opere cinematografiche induce a elaborare confronti, a trovare corrispondenze, a (pre)supporre riferimenti più o meno complessi. È il rumore “cinefilo”, quello più invadente, tanto da essere, non di rado, una parte necessaria del processo interpretativo (vedi i film che squadernano cataloghi di stilemi di genere). Si tratta, comunque, d’interferenze che intaccano la verginità del testo…
Il punto è che ogni spettatore è la somma delle proprie visioni legittime legittimabili e non. Il film – isola è il miraggio che permette di lasciare il porto desolato della pagina vuota, ma se lo si usa come bussola si naufraga. Come le streghe di Macbeth, bisogna planare attraverso un’aria impura densa di spettri passati presenti e futuri, in cui “il bello è brutto, e il brutto è bello”.
Più che del film in sé, una recensione dice qualcosa a proposito di chi l’ha scritta. È la consapevolezza della soggettività del critico a rendere paradossalmente “oggettiva” la recensione: i medesimi elementi testuali possono essere giudicati in maniere opposte, a seconda dello schema interpretativo in cui sono inseriti. Osservate le due recensioni che aprono questa pagina e capirete che cosa intendo.
Una cosa può essere bella e brutta insieme. E non solo al cinema.
Stefano Selleri
Da quando il cinema divenne un fatto di cultura i discorsi teorici sul nuovo mezzo si moltiplicarono fino a costituire un corpus di riflessioni, opinioni, teorie paragonabile a qualsiasi altro di una qualsiasi altra forma d’arte (letteratura, arte, teatro, musica). Se da principio si tentò, più o meno vanamente, di applicare metodologie di analisi proprie di altre arti (in primis letteratura narrativa e arte figurativa) alla nuova forma cinematografica, dagli anni ’40 in poi si assistette ad una specializzazione degli interventi teorici, segno di una compiuta presa di coscienza delle potenzialità e delle peculiarità della nuova arte.
Pur nelle differenze che le contraddistinguono, tutte le teorie del cinema hanno comportamenti simili, dal momento che tutte fanno leva, come ci insegna Francesco Casetti, su tre componenti: un nucleo di idee di fondo che inquadrano la ricerca; un insieme di concetti che stabiliscono l’ordine e la modalità dell’esposizione; un altro di osservazioni concrete che forniscono dei riscontri. Eppure, ogni analista o critico ha modo di scegliere a quale delle