TRAMA
Anni Sessanta: ogni giovedì pomeriggio quattro amiche si raccontano amori e tradimenti, teorizzando la maternità, la vita e i problemi del matrimonio. Trent’anni dopo: le figlie si ritrovano nello stesso salotto.
RECENSIONI
Film inconsueto per il nostro cinema che riprende una commedia teatrale (di Cristina Comencini, qui anche in veste di sceneggiatrice, assieme al regista - Monteleone è stato fortemente voluto dall’autrice per conferire uno sguardo maschile ad una storia tutta al femminile -) senza volerne stravolgere la staticità, al contrario, puntando proprio sulla play, sulla specularità (abbastanza prevedibile) dell’impianto, sul tema che essa propone. Inevitabile dunque soffermarsi sul testo, l’ossatura della pellicola, che pone la Donna Borghese come protagonista, il nodo centrale essendo la tacita disputa tra i due sessi, due mondi che continuano a guardarsi da una distanza di sicurezza anche dopo trent’anni, con modalità diverse, complice un’ (incompleta) emancipazione, ancora in modo ostinatamente non paritario; due mondi che si definiscono per contrasto e che fanno emergere una frustrazione femminile ben viva anche se diversamente connotata a seconda dell’epoca considerata (nella prima parte le donne hanno – tutte, anche il personaggio della Ferrari, che è terrorizzata dalla gravidanza mica per caso e il cui menage verrà decodificato dal successivo suicidio - uomini lontani, indifferenti, traditori, e se ne lamentano; nella seconda le protagoniste, ciascuna indiscutibilmente figlia della propria madre, salvo strategiche assenze e/o latitanze, hanno uomini attenti, sensibili e premurosi fino al soffocamento, e se ne dolgono ugualmente –): cambiano i tempi, i costumi evolvono, ma la maternità è ancora il dato discriminante che segna le esistenze (volente o nolente, nessuna esponente della nuova generazione ha figli); il tutto emerge da un eloquio continuo, un umorismo cinico solo a tratti realmente pungente, scaramucce verbali e svisate da pochade nel capitolo iniziale, una declinazione più decisamente drammatica (anche rispetto al testo originale) nel secondo. Monteleone si concede un’artefatta ricostruzione d’ambiente nel segmento anni Sessanta, facile e ridotta a una spalmata di oggetti di scena in tema, così come suggeriti dal testo, sui dati estetici più semplici – le acconciature, il trucco, il design degli interni – sperando che ciò e il contributo delle musiche e di una fotografia decolorata secondo l’estetica del tempo, bastino ad amalgamare l’ambientazione al testo, anche se lo strappo rimane sempre evidente, riducendosi questa prima parte a un film di parole e prop. La seconda parte, fotografia livida e contemporanea, mette in evidenza, nella sua maggiore nudità, con le proprie anche le debolezze della prima, e la tendenza di Monteleone a indulgere in inopportuni e continui movimenti della camera, funzionali solo alla sua evidente paura di ricorrere a una (sacrosanta, ma forse troppo coraggiosa) macchina fissa. Ne risulta un registro visivo chiassoso che, assieme alla didascalia continua, e del tutto superflua, offerta dalla sceneggiatura (il motivo del confronto generazionale forza smaccatamente la scrittura, anche se risulta placidamente dai fatti: non si vede la necessità di ribadirlo di continuo nel sipario ambientato negli anni Novanta) sbilanciano irrimediabilmente il film. Monteleone si riscatta nella direzione degli attori, riuscendo a tirare fuori carattere e sfumature da tutte le interpreti, adeguate quando non perfette (Massironi e Pandolfi, volti consumati dalla televisione che meritano di più).