Azione, Drammatico, Noir, Sala

DRIVE

NazioneU.S.A.
Anno Produzione2010
Durata100'
Sceneggiatura
Trattodall'omonimo romanzo di James Sallis
Scenografia

TRAMA

Stunt a Hollywood e meccanico nell’officina del malandato Shannon, Driver si presta a fare l’autista per qualche rapina notturna. Ma alle sue condizioni: porta i compari sul posto e aspetta cinque minuti esatti. Se entro i cinque minuti sono di nuovo in macchina li conduce in salvo, altrimenti taglia la corda e li pianta in asso. Questa rigorosa routine è scombussolata dall’incontro con la vicina di appartamento Irene, madre del piccolo Benicio e sposata con Standard, momentaneamente detenuto ma in procinto di uscire e mettere nei guai proprio Driver.

RECENSIONI

Leggendo Drive (vedi relativo paragrafo) e sapendo che Refn ne aveva tratto un film, mi chiedevo se il cineasta danese sarebbe stato in grado di restituire le atmosfere bituminose del noir di James Sallis, mi chiedevo come si sarebbe destreggiato, complice lo sceneggiatore Hossein Amini, con la struttura cronologicamente zigzagante del libro e come avrebbe giostrato il continuo gioco di sponda tra stunt scenes ed esecuzione dei colpi che rimbomba fragorosamente nel romanzo. Mi facevo un mucchio di domande, insomma. Tutte sbagliate. Dovevo immaginarmi che Nicolas Winding Refn avrebbe fatto suo il materiale di partenza infischiandosene di queste questioni di lana caprina e puntando al sodo. Premessa del cazzo, lo ammetto, ma ci sta tutta. Esauriti i funambolismi da quattro soldi, via con l'analisi.

Ossessione per i motori, jacket fetish e masquerade finale: difficile equivocare sulla natura intimamente angeriana di Drive, ottavo lungometraggio cinematografico e secondo film oltreoceano di Nicolas Winding Refn dopo il rovinoso e ingiustamente bistrattato Fear X (2003), pellicola che gli estimatori del cineasta danese farebbero bene a rivalutare quanto meno per la carica ansiogena degli ambienti. È ben nota e ampiamente documentata l'ammirazione di Refn per Kenneth Anger (già massicciamente ricalcato in Bronson), ma stavolta il calco si fa al tempo stesso più icastico e nascosto. Icastico poiché lo scorpione effigiato sul retro del giubbotto di Driver (Ryan Gosling) è la fedele riproduzione dell'icona di Scorpio Rising e nascosto perché il canovaccio noir lo copre quasi integralmente, facendolo indovinare soltanto in filigrana. Eppure si tratta di un sostrato che alimenta abbondantemente l'estetica di Drive, imprimendole una dilatazione che distorce l'iperrealismo metropolitano in deformazione grottesca. Una deformazione plastica che gonfia tempi, luci e valori cromatici della rappresentazione fino a farli esplodere in una bolla surreale che è davvero il marchio di fabbrica del Refn-esk Touch, turgida e ultrapersonale rielaborazione della visionarietà angeriana.

Ebbene, dello script di Amini propostogli da Ryan Gosling, attore che ha avuto la facoltà di scegliere il regista del film, a Winding Refn non è interessata tanto la storia, quanto la doppia personalità del protagonista: stuntman e meccanico di giorno, autista di rapine la notte. Non il suo statuto di body double, insomma, ma la sua double personality: professionale in entrambi i casi. Una doppiezza ulteriormente enfatizzata dall'incontro con Irene (Carey Mulligan), donzella indifesa con figlio a carico che il principe-pilota si premura di proteggere valorosamente. La scarcerazione di Standard (Oscar Isaac), l'altrettanto vulnerabile marito della donna, non farà che alzare la posta in palio: non più la sola assistenza a Irene e a Benicio (il piccolo Kaden Leos), ma la protezione di un nucleo familiare in pericolo. Come afferma lo stesso Refn: «Volevo fare del mio film una fiaba a Los Angeles. Quello di Driver è un personaggio mitologico (...): l'uomo che indossa una giacchetta di raso con uno scorpione sulla schiena e protegge gli innocenti dal male, sacrificandosi in nome della purezza». Proprio così, solo che l'eroe in questo caso è un tizio a metà strada tra il Ryan O'Neal di Driver l'imprendibile di Walter Hill e i taciturni protagonisti di Strada a doppia corsia di Monte Hellman. Col retrogusto angeriano di cui sopra (non solo il già citato Scorpio Rising ma anche il corto "meccanofeticista" Kustom Kar Kommandos).

Per ottenere l'astrazione figurativa necessaria, Refn ha potuto fare assegnamento sulla fotografia di Newton Thomas Sigel (cinematographer di fiducia di Bryan Singer), che ha mantenuto l'impronta stilistica tipica del cineasta danese (obiettivi grandangolari, profondità di campo e sfondi in evidenza) astenendosi inoltre dall'impiego della camera a mano nelle sequenze automobilistiche (ridotte all’osso rispetto al romanzo di Sallis). La collaborazione tra Refn e Sigel ha prodotto così un doppio risultato: rendere le car chase sequences robustamente metalliche (anche grazie al bisquit rig, una piattaforma dalle ottiche molto stabili sulla quale è stata collocata la macchina che Ryan Gosling dà l'impressione di guidare) e saturare di tensione i singoli ambienti (una Los Angeles sorvolata verticalmente e solcata orizzontalmente che non sfigura a confronto di quella digitalizzata dalla coppia Michael Mann/Dion Beebe in Collateral). Ed è proprio in queste perlustrazioni dall'alto e dal basso che Drive stabilisce un dialogo emozionale con le musiche, non solo e non tanto con i battiti della partitura synth di Cliff Martinez, ma soprattutto con i due brani principe del film: la tenebrosa Nightcall di Kavinsky che accompagna i titoli di testa rosa shocking e l'ariosa A real Hero dei College che torna a più riprese, due pezzi di elettronica gravidi di sonorità anni '80.
Montato magistralmente da Matthew Newman (già editor di Bronson e Valhalla Rising), Drive linearizza e compatta il noir di Sallis prediligendo la progressione alla digressione, ricomponendo la narrazione scompaginata del libro secondo un ordine possibile e apportando alcuni tagli o modifiche di adattamento (il passato di Driver sparisce, il personaggio di Shannon, piuttosto marginale nel libro, si vede promosso a scudiero del protagonista, Irene, altra presenza fugace nel romanzo, si tramuta in principessa da salvare). È inevitabile che a risentirne sia la stratificazione psicologica dei personaggi, ma, stante la prospettiva fiabesca voluta da Winding Refn, la semplificazione del dettato narrativo offre al cineasta danese l'opportunità di impadronirsi visivamente della materia. Convertito l'intreccio in fabula, Refn procrastina l'azione vera e propria fino al ritorno in libertà di Standard giocando sull'amplificazione delle durate (perfettamente resa dall'interpretazione implosa di Gosling).
Poi, una volta accesa la miccia, fa scattare il conto alla rovescia e piazza un paio di sciabolate di una secchezza quasi giapponese per tranciante rapidità: uno scontro a fuoco ravvicinato in una stanza di motel e un fracassante corpo a corpo nello spazio angusto di un ascensore (pare che per l’effetto spaccatesta Refn abbia interpellato nientemeno che Gaspar Noé, definito in un'intervista "the king of head smashing"). Eppure anche in questi frangenti il Refn-esk Touch si fa sentire eccome: anziché inzuppare le mani nel gore ripugnante, NWR stilizza graficamente la violenza (con angolazioni marcate dei punti macchina, stacchi improvvisi, ralenti astraenti) rendendola qualcosa che somiglia solo a se stessa. Una scheggia impazzita di accecante irrazionalità che spiazzerà totalmente gli spettatori assuefatti agli ormai rassicuranti cliché dello splatter. Ma la sequenza più intensamente refniana e disturbante è quella in cui il body double di Driver si affaccia lungamente alla vetrata del locale di Nino (Ron Perlman, il Salvatore de Il nome della rosa, giusto per ricordare uno dei suoi innumerevoli ruoli): maschera di lattice replicante Bronson dietro la quale dardeggia lo sguardo di un autentico giustiziere. Eccolo: "a real human being and a real hero" in un solo personaggio. Rispetto alle prove precedenti (e forse proprio in virtù della convenzionalità narrativa), stavolta l'estetica di NWR incontra una tensione negativa che le permette di farsi più concreta, pulita e leggibile senza le baracconate di Pusher, i barocchismi di Bronson e le sbrodolate antropologiche di Valhalla Rising. Premio della regia al 64º Festival di Cannes.

Il romanzo

Stunt a Hollywood, Driver arrotonda partecipando a qualche colpo. Ma a patto di rispettare una condizione: guidare e basta. Quasi sempre gli è andata bene (meno ai suoi occasionali compari), ma stavolta a nord di Phoenix è andato tutto storto: si sono messi a spararsi addosso, quelli della banda, e lui si è trovato a fuggire in macchina, braccato da una Chevy, con la sola Blanche e una borsa piena di dollari. Quasi duecentocinquantamila.
Personaggio principale senza nome proprio, macchine rigorosamente descritte per marca, modello e colore. Scrittura seccamente fenomenologica, affondi introspettivi senza freni cronologici. Narrazione in stretta focalizzazione interna, voce narrante in distaccata terza persona. Marcata linearità delle sequenze con largo uso di botta e risposta, ordine del racconto fortemente antilineare coi singoli capitoli che saltano avanti e indietro nel tempo. È un romanzo saturo di contraddizioni Drive, un hardboiled dalle atmosfere sospese e rarefatte, l’azione congelata da uno sguardo estraneo e straniante. Uno sguardo simile a quello della madre di Driver, «Sempre un po' distante dalla vita reale (...) non tanto sopra le cose di questo mondo, quanto da una o dall'altra parte».
Nomade per destino, randagio per necessità e guidatore per vocazione, Driver non ha una vera e propria filosofia di vita, giusto un paio di principi che per un cane sciolto come lui fanno tutt’uno con l’istinto di sopravvivenza: “Io guido, faccio solo quello. Nient’altro”. E poi: “Siamo professionisti. I patti vanno rispettati. È così che funziona, ammesso poi che funzioni”. Ammesso poi che funzioni: ecco l’inciso chiave, poiché sono proprio gli incidenti di percorso a cambiare le carte in tavola. Non c’è esperienza o professionalità che tenga: un banale lavoro di routine può trasformarsi in uno schianto mortale (è la fine di Shannon, il miglior stunt driver in circolazione e fugace figura paterna per Driver) o una rapina a nord di Phoenix può rivelarsi qualcosa di ben più complicato e costringerti a rivedere i tuoi principi. Soprattutto il primo.
Intorno al protagonista sfreccia una sfilata di personaggi marginali: presenze impalpabili e inquietanti come fantasmi, tutte destinate a cadere per morte violenta come la temporanea compagna di vita Irina, colpita da un proiettile vagante, o il suo ex marito Standard, accoppato in una cenciosa rapina alle nove di mattina. Oppure a spegnersi mestamente in ospedale come la madre di Driver, mansueta e taciturna ma capace, in un raptus omicida, di squarciare la gola al marito o come il vecchio Doc (“naso gonfio come un fungo e due occhi simili a uova affogate”), leggendario fornitore di droghe semilegali alla gente di Hollywood e medico clandestino di immigrati e sbandati. A chiudere il corteo Nino e Bernie, malavitosi di Brooklyn trasferitisi a Los Angeles perché New York non era più la loro città e la California “suonava mica male”.
Drive non si legge, si visualizza. Come se fosse una sceneggiatura scritta da Walter Hill (impossibile non pensare all’omonimo protagonista di Driver l’imprendibile) prosciugata dalla ruggente laconicità di Monte Hellman (l’ossessiva attenzione ai dettagli tecnici degli antieroi di Strada a doppia corsia). Quasi inevitabile, quindi, che il libro di Sallis trovasse uno sbocco cinematografico. E non è così strano che ad adattarlo sia Nicolas Winding Refn, regista della Pusher Trilogy, di Fear X e Bronson: la materia narrativa sembra adattarsi perfettamente alla poetica del cineasta danese, “Art is an act of violence”. Così come il primato esistenziale dell’intuizione: quel “qualcosa che permette di fare collegamenti”. Un hardboiled on the road che sotto la scocca di lamiere e acciaio custodisce una grazia terribile e lancinante.

Refn ritenta la via hollywoodiana dopo il flop di Fear X, che lo spinse all’esaurimento nervoso: il suo approccio autorale al cinema di genere meritava una seconda possibilità. In Europa film come Pusher (realismo sporco che, qui, passa la mano al romanticismo estetizzante) paiono schegge impazzite ed autoctone di derivazione U.S.A. A Hollywood, questo Driver l’Imprendibile sembra un virus che mangia dall’interno un tipico film della Mecca del Cinema: la trama è noir-criminale fra le più risapute, con il professionista del crimine solitario che si mette nei guai per amore. Il modo di presentarla, girarla e di mettere in risalto un ingrediente rispetto all’altro è del tutto unico, originale, refniano. Mentre i brani così anni ottanta da sembrare kitsch fanno pensare a Vivere e Morire a Los Angeles, mentre le musiche di Angelo Badalamenti e di Cliff Martinez (non accreditato) creano un sottofondo felpato-ovattato e brani vari diventano co-protagonisti (i tre inseguimenti con suoni molto differenti: la techno di Johnny Jewel, il solo rumore dei motori, la canzone “Oh, my love”), Refn fa come il suo protagonista: guida, nient’altro. Durante le rapine sta con lui nell’abitacolo, in attesa dello scadere del tempo concesso ai suoi “clienti”; per il resto della durata assume il suo carattere laconico, calmo, salvo poi esplodere, come ama, nella violenza più efferata e debordante. Non è, però, diretto al meglio il personaggio di Ryan Gosling (che forse ha avuto troppa voce in capitolo, scegliendo personalmente il regista), poco credibile nei passaggi da serafico a temibile (quando minaccia i convenuti non spaventa nessuno, quando li massacra senza pietà pare del tutto fuori luogo, fuori del suo carattere) ed è anche vero che questa splendida forma evocativa non dà valore aggiunto ad un racconto che, detto in maniera tradizionale, avrebbe trasmesso i medesimi ingredienti. Ma che sguardo alieno, anche su Los Angeles! Ricorda i primi arrivi di Wenders nella terra promessa e le sperimentazioni nel genere di Jean-Pierre Melville.