TRAMA
Un dongiovanni contemporaneo è implacabile con le ragazze e dipendente dal porno online. L’amore è dietro l’angolo, forse.
RECENSIONI
L'ambizione di coniugare la commedia romantica indie e la webdipendenza del 2013 percorre l'esordio al lungometraggio di Joseph Gordon-Levitt. L'attore americano scrive, dirige e interpreta l'ennesima versione spuria di un topos, non tornando filologicamente alla fonte, ma rimasticandone le infinite ri-forme contemporanee: collocato nel mondo/rete di oggi, Don Jon è un donnaiolo infallibile che cambia una ragazza a sera ma preferisce il sesso su internet, guarda youporn, svaluta l'incontro carnale in favore della versione filtrata, ingrandita e falsificata dal monitor. Jon si innamora ma è un abbaglio, inevitabile per chi non ha ancora frequentato la vita vera: deve sconfiggere la mania virtuale, riflesso esatto del vuoto affettivo, deve uscire dalla sostituzione per trovare il suo posto, lontano da dove pensava, non una donna ma un'altra, non solo il corpo ma (forse) anche l'anima.
La grammatica di Gordon-Levitt (e del direttore della fotografia Thomas Kloss) è elementare al limite dell'osceno, si prenda l'incipit: in montaggio sincopato, raccordato da dissolvenze flash in bianco, vediamo Jon dedicarsi alle attività predilette e antitetiche (porno online - palestra - pulizie - famiglia - chiesa - amici) per poi finire in un club dove vede una donna - balla - copula secondo uno schema nudo e meccanico.
Sul filo tra commedia popolare americana (presentata al Sundance, ma non importa) e breviario di Shame for dummies, l'intreccio tenta di problematizzare un sedativo dei nostri anni, il voyeurismo online, ma si risolve in grossolana parodia di altri temi e luoghi: per primo - appunto - il Brandon di Fassbender che spiazzava (anche) in quanto 'malato senza perché-. Qui tutto è chiaro: l'addiction di Jon viene attentamente spiegata, lo stereotipo non è abbastanza calcato da risultare consapevole, la scrittura disarma per la sua pochezza, a tratti disinteressata a ciò che inscena, a tratti involontariamente ridicola (la tragedia nel passato di Esther). Lo scheletro risalta evidente a più livelli: sia nell'aspetto visivo (le molte sequenze disco, uguali ma non ipnotiche, solo ripetute) che in quello narrativo, con le doppie donne agli antipodi banalmente contrapposte (Barbara/Johansson, giovane e bionda, contro Esther/Moore, rossa e matura).
Non convince neanche il one man show del regista attore, che dalle figure sofferte del passato underground (ad esempio Brian di Mysterious Skin) degrada nell'esposizione dell'epidermide, suonando vistosamente traballante dinanzi ai tratti complessi, incapace di ravvivare il debole script. Obiettivo: scansare il racconto problematico per una più comoda ironia (i parenti di Jon, le stravaganze di tutti), disturbare sulla carta per confezionare un pacchetto ammiccante al proprio pubblico. Se questo è Don Giovanni, stavolta non conquista.
