TRAMA
Clearville, anni ’60. Dopo aver messo a segno un altro colpo, Diabolik riesce a sfuggire alla polizia. Sulle sue tracce si mette l’ispettore Ginko con la sua squadra. Intanto in città arriva la ricca ereditiera Eva Kant che porta con sé un preziosissimo diamante rosa che Diabolik è intenzionato a rubare.
RECENSIONI
È filologico l’approccio dei fratelli Manetti al ladro mascherato, fascinoso, spietato e amorale, creato nel 1962 dalle sorelle Giussani. Quello che imbastiscono - traendo ispirazione principalmente da “L’arresto di Diabolik” (il terzo albo della prima serie) e dal suo omonimo rifacimento pubblicato nel 2012 nella collana parallela “Il grande Diabolik” - è un mondo di completa fantasia che più che limitarsi a omaggiare un’epoca prova a ricostruirla con meticolosità per darle respiro e farla vivere. L’esperimento, indubbiamente interessante e condotto con consapevolezza e senza l’ansia di inseguire i presunti gusti del pubblico contemporaneo, si può dire riuscito a metà. Se infatti le scenografie, i costumi, i lampi di luce, lo split screen, la misura della recitazione, le battute secche di dialogo, le pose degli attori, l’essenzialità dei tratti caratteriali, la Jaguar, le maschere, i pugnali, lo chignon, traspongono con fedeltà il fumetto e le sue atmosfere in immagini, la magia si interrompe quando quelle immagini non si limitano a essere fisse, ma si muovono generando interazioni.
Se pensiamo al film come a un fotoromanzo da sfogliare, funziona benissimo, ma nel momento in cui tutto ciò diventa movimento e prende forma cinematografica, l’incredulità ha bisogno del supporto della razionalità, e della suadente colonna sonora di Pivio & Aldo De Scalzi, per sospendersi, o almeno tentare di farlo. Si dirà che “del resto Diabolik è così, per sua natura privo di sottigliezze, quindi prendere o lasciare”, in effetti fu creato come facile lettura per intrattenere i pendolari, e il rischio era quello di aggiornarlo ai tempi, dargli spessore e complessità, perdendo di vista lo spirito originario del fumetto, un po’ come è accaduto con James Bond e il progressivo addomesticamento da quando a interpretarlo è Daniel Craig. I registi invece non si preoccupano del pubblico di riferimento, non vogliono attualizzare il personaggio a dinamiche contemporanee, renderlo spendibile, dargli quel ritmo che nel fumetto è tutto nella mente di chi legge, ma ricreare, con l’estro che li distingue, quel mondo che dimostrano di conoscere e apprezzare. Per cui Clerville diventa un incrocio senza soluzione di continuità tra Bologna, Milano e Courmayeur e la località balneare di Ghenf trova spazio in quel di Trieste. Se tutto ciò stuzzica assai l’intelletto e in parte conquista, non trova però piena soddisfazione durante la visione. Si potrebbe pensare che la causa sia l’assuefazione a un cinema seriale che propone altri ritmi e modelli, e davanti a un’operazione originale, fieramente analogica e condotta con personalità non trova appigli a cui aggrapparsi, se non razionali, ma sarebbe uno sbilanciamento eccessivo.
Se l’insieme non infiamma davvero mai, se quel mondo resta tutto sommato inerte, è infatti proprio perché “del resto Diabolik è così, per sua natura privo di sottigliezze, quindi prendere o lasciare” e riproporlo oggi con fedeltà rischia di essere un’operazione anacronistica e meramente celebrativa che dietro alla confezione fatica a trovare quella vita a cui ambisce. Perché quella vita appartiene quasi esclusivamente a chi l’ha sognata e chi non l’ha fatto difficilmente lo farà ora. Non sono sempre di aiuto i due protagonisti, considerando anche che i modelli di riferimento per i disegni dell’epoca furono Robert Taylor per Diabolik e Grace Kelly per Eva Kant: Luca Marinelli, essendo un attore carismatico, riesce in parte a supplire all’assenza di physique du role, Miriam Leone dietro alla fotogenia e all’ostentata sicurezza lascia trapelare una vulnerabilità poco incline al personaggio. Entrambi, costretti dalla logica del progetto a posare più che interpretare, sono comunque troppo raggiungibili, troppo vicini a noi per ambire in qualche modo a incarnare il mito. Più centrato il Ginko di Valerio Mastandrea.