
TRAMA
Libby aveva sette anni quando la madre e le sorelle furono uccise. Fu la sua deposizione ad accusare il fratello Ben come autore del massacro. Ventiquattro anni dopo, Ben è in carcere e Libby viene rintracciata dal “Kill Club”, una società segreta di “feticisti del crimine” i cui soci sono convinti dell’innocenza di Ben. La donna accetterà di mettersi in discussione e di scavare nel proprio passato alla ricerca di una nuova verità.
RECENSIONI
Una sorella che crede di avere visto, un fratello che sembra avere fatto. Come il successivo “L’amore bugiardo”, anche il secondo romanzo di Gillian Flynn, così come le relative trasposizioni cinematografiche, si basa su una serie di menzogne. Al centro del racconto non il rapporto di coppia, ma il covo di insidie insito nelle dinamiche familiari che conferma, ce ne fosse bisogno, la famiglia come luogo di malessere. Un malessere che pare destinato a tramandarsi di generazione in generazione, senza che scoperte e nuove consapevolezze possano davvero riaggiustare ferite profonde e insanabili. Ogni sollievo è solo temporaneo; il grigio, a un passo dall’abisso, un dato di fatto con cui imparare a convivere. Il fine è quello di sviscerare le cause (capire cosa è accaduto realmente e perché) per placarne gli effetti (scagionare gli innocenti, punire i colpevoli e sopravvivere).
Gli sviluppi della narrazione non mancano di incuriosire, ma la linearità con cui passato e presente si intrecciano finisce per non giovare alla progressione. Troppo scontato non tanto il cosa, quanto il come, con un andamento a prevedibile intermittenza e una resa dei conti che arriva nel momento in cui la si attende, senza destabilizzare più di tanto. Sì, l’atmosfera è torbida, cupezza e disperazione la fanno da padrone nell’ennesimo ritratto di terribile provincia americana, ma la regia pacata del francese Gilles Paquet-Brenner (assurto a rilevanza internazionale dopo La chiave di Sara) non riesce a dare mordente all’agire dei personaggi, credibilità alle motivazioni e spessore al retrogusto.
Difficile credere che dopo venticinque anni di certezze la protagonista accetti così in fretta di collaborare e rivedere le proprie convinzioni grazie a un ragazzotto volenteroso, un gruppo di sciroccati e qualche centinaio di dollari. Mancando nelle premesse il tacito accordo tra script e spettatore, in grado di sospendere l’incredulità, recuperare terreno in marcia è quasi impossibile. Non aiutano caratterizzazioni non sempre riuscite (il “Kill Club” suona immediatamente fasullo), una voce fuori campo buttata un po’ lì per riassumere stati d’animo già evidenti e troppi personaggi che sbucano all’improvviso dal cilindro della sceneggiatura pronti a spiattellare verità nascoste da lustri.
Charlize Theron, ormai icona di ruvidità, pare credere molto nel progetto (oltre che protagonista è anche co-produttrice) e si cala nella parte con misura ed efficacia, ricalcando ruoli già interpretati non troppo dissimili (su tutti la dolente Sylvia di The Burning Plain - Il confine della solitudine). Trasversali arrivano echi di crisi economica, manipolazione dei media nel trattare i fatti di cronaca, assenza di stimoli e prospettive nei microcosmi urbani, ambivalenza della natura umana, ma nulla in grado di imprimersi nella memoria.
