
TRAMA
Chiara Ferragni, prima fashion influencer al mondo, ci mostra come la rivoluzione digitale abbia cambiato il mondo degli affari, la comunicazione e la cultura, attraverso un ritratto che la vede protagonista come donna e imprenditrice digitale.
RECENSIONI
La contraddizione su cui si fonda Unposted - fare agiografia, dicendo di documentare - è il suo punto di forza: se questo film è parte integrante di quella stessa strategia promozionale di cui vorrebbe farsi testimone, se questi “dietro le quinte” sono soppesati e verificati come e più di una foto pubblicata da Chiara Ferragni sul suo Instagram, allora Unposted è esattamente ciò che serve per comprendere il personaggio e l'impatto che determina. Capire che anche il sedicente unposted di Chiara Ferragni è solo altro materiale pubblicabile, posted camuffato con la maschera un, è quanto necessita per inquadrare l’influencer, più utile di qualsiasi sondare il lato umano e davvero inedito del personaggio, che rimane rigorosamente nascosto (come la sua gravidanza: si passa dal matrimonio al figlio già nato senza soluzione di continuità). Insomma il fatto che questo film offra solo un’altra angolazione dalla quale guardare la stessa faccia(ta) pubblica ci permette di realizzare in pieno l’ampiezza del fenomeno e il perché del suo successo.
Visto così Unposted diventa un lavoro da leggere tra le righe, ribaltando il senso delle interviste/recite e cercando di intuire cosa si cela dietro il fondale di questi veri siparietti finti: così si potrà leggere nella madre e nella sua documentazione maniacale (quei filmini delle vacanze fanno già ufficio stampa) la genesi del protagonismo social della figlia, una sorta di imprinting. Una lucida programmazione, un po’ come lo era stata quella della madre di Martina Hingis che chiamò la figlia come Navratilova e la avviò, fin dalla nascita, a diventare una stella del tennis.
Procedendo così ognuno troverà nel film il suo punto di entrata: io l’ho ravvisato in una frase che mi pare squarciare il velo. Quale? Quella che Ferragni dice prima del matrimonio: «Spero di piangere in modo carino». È in quell’istante che il re mi è apparso nudo: è quello il dettaglio che mi ha mostrato il lato autenticamente unposted di Chiara, la dittatoriale autodisciplina, il perentorio obbligo alla perfezione, l’ossessione maniacale del controllo, la paranoia di non ottenerlo, il terrore di soccombere all’emozione (anche in un’occasione in cui non solo sarebbe ammesso, ma persino doveroso socialmente), la gabbia dorata nella quale ci si è rinchiusi sotto gli occhi di milioni di follower.

Sempre più spesso, in questi ultimi anni, si è usato a sproposito l’aggettivo “iconico” come sinonimo di “rappresentativo, emblematico, paradigmatico”. Si tratta di uno dei tanti anglismi ereditati supinamente e con superficiale unanimità dal linguaggio promozionale: possono essere definiti iconici una macchina, una borsa, un cappello, un taccuino, degli occhiali o un paio di stivali, ma anche, per estensione, un gesto, una posa, un profumo o un modo di parlare. Insomma più o meno tutto può essere definito iconico, con l’inevitabile depauperamento semantico che ne deriva (l’abusato termine finisce per comunicare una vaghissima ed evanescente idea di emblematicità indistinta e acefala). Il problema è che, almeno per chi abbia qualche nozione di semiotica, l’aggettivo “iconico” significa tutt’altro, ovvero rimanda al registro dei segni visivi, alle immagini, in una parola. Un segno iconico, tralasciando le sfumature, è un’immagine e in quanto tale si distingue dai simboli (segni verbali convenzionali) o dagli indici (tracce, impronte, indizi che rimandano direttamente alla loro causa senza l’intermediazione di un codice artificiale, proprio come il fumo rimanda al fuoco che lo ha prodotto). Ora, il guaio è che se ignoriamo il significato appropriato dell’aggettivo (quello semiotico, ovviamente), si possono verificare aberrazioni linguistiche tipo “immagine iconica”, “visione iconica”, “fotografia iconica” e via iconizzando: espressioni che suonano a tutti gli effetti come tautologie dotate di irresistibile comicità involontaria. Se un’immagine è iconica per sua natura, che senso ha definirla come tale per arricchire o impreziosire il suo significato? Chi si spingerebbe, se non sotto effetto di alcaloidi, a vantare le proprietà liquide dell’acqua?
Ebbene, giusto per contraddire clamorosamente quanto appena scritto, credo che la Chiara Ferragni raffigurata in Chiara Ferragni - Unposted riesca nella paradossale impresa di conciliare entrambe le accezioni dell’aggettivo “iconico”. In primo luogo è iconica in senso stretto poiché è un’entità costituita da sole immagini e immagini di tenore diverso (dall’archivio personale al web, dall'analogico al digitali): Ferragni esiste come oggetto di puro consumo visivo, logo di se stessa, brand ammirativo. La sua vocazione a essere esposta e sovraesposta si legge non soltanto nell’esibizione strategica di sé come corpo prima estraneo poi sempre più integrato nell’esclusivo mondo della moda, ma anche, forse soprattutto, nel regime di rappresentazione permanente a cui è abituata fin da bambina, nella sua assuefazione alla visibilità e alla dichiaratività (non a caso elargisce consigli guardando in macchina anche in tenera età). E in secondo luogo è iconica in senso promozionale perché, come viene detto e ridetto nel film, rappresenta una figura “aspirazionale” per i suoi follower, una fonte di ispirazione e un modello esemplare di condotta fashion-oriented. Una costellazione di segni da esibire e vedere (iconica nella prima accezione) e, al contempo, un esempio da emulare idealmente e seguire socialmente. Inoltre, anche se questa iconolatria da invasati finisce per generare disgusto e repulsione in dosi massicce, trovo semplicemente perfetta la triangolazione cinematografica (Sofia Coppola - Nicolas Winding Refn - Terrence Malick) che delimita stilisticamente il film di Elisa Amoruso, coi tre vertici stilistici che vengono evocati senza tregua e riconfigurati rispettivamente in chiave euforica, fascinatoria e introspettiva. Perfetta perché l’immagine di Chiara Ferragni veicolata dal film rimbalza continuamente tra il lato spregiudicatamente adolescenziale da Bling Ring, quello biondamente sovversivo da Neon Demon e, infine, quello intimamente angelico da To the Wonder. Non liquidate sbrigativamente Chiara Ferragni - Unposted come uno stucchevole e nauseante pedaggio encomiastico forgiato dall’industria culturale del nuovo millennio, in realtà è una lente deformata attraverso la quale osservare, ingigantita fino al grottesco involontario, non dico tutta, ma una parte consistente della contemporaneità. Tra orrore, rassegnazione e clinica esattezza. Non è poco.
