CARTOLINA DA CANNES 77 – L’ANNO DI MERYL

E rieccoci a Cannes che quest’anno colpisce meno il nostro sguardo col poster che isola un fotogramma da Rapsodia in agosto di Kurosawa. L’anno scorso la questione era stata risolta in scioltezza con una foto di Catherine Deneuve alla quale si tributavano onori e la cui effigie, dunque, occhieggiava in ogni dove, programmi giornalieri compresi che proponevano fotogrammi sempre diversi tratti dalla sua poco imitabile carriera. Le dive da sempre assicurano riconoscibilità e glamour, soprattutto se storicizzate, quindi che tu ti chiami Cardinale o Bergman l’effetto è assicurato. Quest’anno quasi ce lo si è dimenticato cosa c’è su quel poster, ché a spiccare è la solita palma, su un fondo blu che rileva solo se ti scomodi a guardare cosa cela sotto. Probabilmente per non apparire da meno sbagliano la comunicazione anche la Quinzaine e la Semaine. Se la Quinzaine sfodera un’immagine concepita per l’occasione da Kitano, la cosa colpisce solo se alla griffe non associ la visione del poster, due simpatiche melanzane antropomorfe. Un dipinto giocoso, da non prendere molto sul serio, scrive la Quinzaine. Non credo si corra alcun rischio in tal senso. E rispetto al passato è un discreto passo indietro.
Per finire la Semaine che, come al solito, punta su un fotogramma tratto da un film dell’edizione precedente, Le ravissment. E ne sceglie uno del tutto anonimo, un primo piano della meravigliosa interprete Hafsia Herzi, che suona come uno stralcio a caso (o che costa meno al mercato dei copyright).
Vabbè, per il merchandising quest’anno la vedo dura.

Nell’edizione che celebra con una palma d’onore Meryl Streep,  come al solito il mio compito è quello di testare le reazioni della stampa sui film presentati, nell’attesa di approfondirli al momento dell’uscita in sala.
Se il film che ha aperto la kermesse (fuori concorso), Le deuxieme acte di Quentin Dupieux, ottiene consensi convinti (e prevedibili) soprattutto dalle testate francesi (Télérama e Cahiers a garantire solidità), il primo film in concorso, il francese Diamant brut di Agathe Riedinger, convince poco, una severità nei giudizi che forse deriva dal fatto che si tratta di un’opera prima, quindi naturalmente destinata ad altre sezioni: quando un esordio lo si mette in competizione ci si aspetta qualcosa di folgorante. È la storia di Liane, ossessionata dalla bellezza e dal bisogno di diventare “qualcuno” e che vede i reality come la sua opportunità per essere amata. A parte la critica tedesca, più convinta, il resto va a costituire un compatto e tiepido fronte, nessuna stroncatura e nessun plauso. La vera spaccatura si ha invece per The Girl with the Needle di Magnus von Horn, opera che fa di tutto per provocare lo spettatore (per come affronta alcuni temi, per la brutalità delle immagini) e che prevedibilmente pone le testate su posizioni molto distanti: a Copenaghen, nel 1918, Karoline lotta per sopravvivere. Quando rimane incinta, incontra Dagmar, una donna carismatica che gestisce un’agenzia di adozioni clandestine. Tra le due donne si crea un forte legame. Al consenso di Guardian (per tutti) una stroncatura sonora di Le monde (ma tanta critica francese ha fatto spallucce).
Ovviamente continua…