CARTOLINA DA CANNES 77 – SCHRADER TORNA A BANKS E GERE

«Il corpo e lo spirito non si erano mai mescolati. Mai nell’azione fisica avevo scoperto la soddisfazione fredda delle parole. Mai sulla pagina avevo sperimentato la calda oscurità dell’azione. Deve esserci da qualche parte un principio nel quale si riconciliano arte e azione. Questo principio, mi accorgevo ora, è la morte. L’immensa atmosfera superiore, totalmente priva di ossigeno, è circondata dalla morte. Come un attore, devo usare una maschera per sopravvivere in questa atmosfera».
Così, Yukio Mishima nel flashback in bianco e nero del film che Paul Schrader girò su di lui nel 1985, mentre arringa la folla poco prima di togliersi la vita.
Certo, Mishima non fu l’unica linea di fuga in una carriera tutta incentrata sulla rivelazione, avvenuta incrociando Ozu e Bresson, che al cinema possa darsi il sacro quando uno iato si apre nell’abbraccio più inestricabile che mai tra forma e contenuto di cui ogni immagine è fatta per definizione. Un’altra di queste linee di fuga fu lo scrittore Russell Banks grazie a cui Schrader ci diede il meraviglioso Affliction.
A Banks, morto da poco, Schrader torna ora con Oh, Canada!, presumibilmente incoraggiato dalla contingenza storica che più di tutte anima il nostro presente: l’asfissiante invasione, nei media e quindi nel mondo, dei contenuti. Quando il mondo viene invaso dai contenuti, che ne è del sacro, ovvero dello iato aperto tra la forma e il contenuto?

Un filmmaker politicamente impegnato, e docente apprezzato, interpretato da Richard Gere (che fece esplodere il cinema di Schrader con American Gigolo), viene intervistato sul letto di morte da un documentarista meschinamente privo di scrupoli (e talento). Sulla sua vita ci sarebbe molto da dire, anche perché la sua fuga in Canada, alla fine degli anni Sessanta, fu un momento capitale della contestazione contro la guerra in Vietnam. Lui stesso promette che la sua confessione darà sorprese eclatanti, particolarmente ad uso dell’amata moglie che gli sta a fianco. Ma l’unica sorpresa è che non ci sono sorprese: qualche adulterio, qualche ammissione che ciò che molti scambiarono per impegno politico-civile fu in realtà casualità nella migliore delle ipotesi, e codardia nella peggiore. Molto rambling senile, che dà il la a una intricata struttura di flashback e un ancor più intricato incrocio di narratori (il Gere vecchio, in flashback, in alcune scene interpreta se stesso giovane, in altre no) che cercano di mimare l’ondivago incedere della mente e dei ricordi del morente.
A incrociarsi sono, soprattutto, le morti. Quelle fittizie (il protagonista), quelle vere (Banks), quelle passate e quelle purtroppo presumibilmente imminenti. La morte, finalmente, diventa così per davvero impersonale (era questo, in fondo, ciò che cercava il Mishima blanchottizzato del 1985), liberandosi di quel narcisismo (autentico cancro del presente almeno quanto il contenutismo) che ancora inevitabilmente inficiava Mishima (visto il personaggio) e forse pure Affliction. In Affliction, a scomparire era pur sempre un personaggio (l’insopportabile e violento padre). Qui a scomparire è, letteralmente, via via, il film stesso: la logica che lega passato e presente sfugge in misura sempre maggiore a qualsiasi individuazione, e quelle Confessioni di una maschera che, ancor più di Mishima, sono questo film, sbattono contro l’evidenza che non c’è niente da confessare. La vita non è un contenuto, ma una forma, e precisamente la forma della morte. Più il gioco di flashback si inabissa, più arriva a non rivelare niente più della forma stessa dello stacco. Ciò a cui torna, in loop, la memoria del protagonista sono soprattutto quei momenti in cui dalla vita si è protetto o ritratto, rifugiandosi in un adulterio, ignorando il figlio o quant’altro – il tutto senza la minima autocommiserazione o il minimo psicologismo. Nessun narcisismo, nessun vitalismo: la luce entra, a valanga, solo quando ci si accorge di non esistere per nessuno. Semplicemente: la vita non è che il ritrarsi dalla vita, e ben prima della fine intuiamo che l’ultima scena sarà il fatale attraversamento della frontiera verso il Canada, gesto che il film spoglia di qualsiasi tratto aneddotico ed evenemenziale per farne la forma stessa della sua vita (ma anche: la vita in quanto tale) in quanto non-vita, in quanto fuga dalla vita.
La personalità è una maschera, e niente più che una maschera; eppure, confessa il protagonista, “quando si prega non si può mentire”. Stavolta Schrader pensa più a Ozu che a Bresson: la rete di sguardi che stringe insieme le relazioni famigliari e nel quale lo spettatore stesso rimane impigliato finisce per evidenziare come, al di sotto di questa rete, ci sia uno sguardo non-umano, quello della macchina da presa, assolutamente disindividuato e impersonale, con il quale nessuno sguardo individuato potrà mai coincidere. Tutti lo occupano, spettatore compreso, ma nessuno lo occupa. Lo mostra benissimo la preparazione del set nella casa del protagonista durante i titoli di testa: la comunicazione, il regno dei contenuti, si installa su di uno spazio vuoto, impersonale, che è al di qua e al di là di ogni comunicazione. E il sacro è lì, senza bisogno di alcun altrove: è verso di esso che ogni preghiera viene rivolta, quando è al di qua e al di là della comunicazione.

A noi dunque la scelta. O ci accontentiamo della comunicazione, e come il documentarista ci ritraiamo cinicamente dietro la distanza di un obbiettivo fotografico o cinematografico per manipolare, confezionare e vendere chi ci sta davanti. Oppure miriamo allo spazio impersonale al di qua e al di là della comunicazione, attraversando come fosse trasparente lo sguardo che vede il nostro vuoto, che a nostra volta rivediamo nel suo. La moglie del protagonista (Uma Thurman) viene eletta a destinatario di confessioni terminali che sono, più che confessioni, una preghiera: non possono essere menzogna, perché a prescindere da quanto vi viene detto ciò che conta è il posizionarsi di chi vi è coinvolto. A lei, il morente rivolge il proprio vuoto, o meglio la forma vuota della propria vita, ovvero l’attraversamento della frontiera a cui venne condotto da una donna (la moglie dell’amico pittore) che dunque pure lei, nelle sue memorie, avrà coerentemente le fattezze di Uma Thurman. La vita non è che il ritrarsi dalla vita, e la morte non è che il punto limite dell’autocoscienza di questo principio, autocoscienza che può circolare solo su un piano al contempo al di là e al di qua della comunicazione. Se i due personaggi interpretati da Thurman si collocano precisamente all’origine e alla fine di questo percorso dalla vita come non-vita (“inaugurata” dalla moglie dell’amico pittore) e dal raggiungimento della sua forma (sancita dalla morte, assistita dalla moglie del protagonista), questa forma è ciò che permette di agganciare le posizioni soggettive coinvolte su un piano distinto rispetto a quello comunicativo, e a prescindere dalle loro intenzioni. È insomma grazie alla moglie del protagonista, depositaria della forma vuota della sua vita come non-vita, che il figlio da lui sempre evitato potrà inserirsi da narratore nella storia di un padre con cui mai si relazionò, nemmeno nel momento della sua morte.