
MADEMOISELLE (Park Chan-Wook)
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Molto opportunamente, il Festival ha pensato di piazzare le quote rosa (Andrea Arnold e Nicole Garcia) nel fine settimana, rendendo a tutti un po’ più facile avere il sabato sera libero o magari prolungare il sonno la domenica mattina. Altrettanto opportunamente, questa parentesi forzatamente rosa (inutile sotto tutti i punti di vista, visto che finora l’opera migliore è stata proprio quella di Maren Ade, e difficilmente saranno in molti a superarla da qui alla consegna delle palme) è stata preceduta da Mademoiselle di Park Chan-Wook, arzigogolata e stilosa variazione sul sempiterno canovaccio de Le relazioni pericolose (“integrato” da de Sade) che finge di operare una chirurgica separazione tra godimento maschile e godimento femminile solo per ritrovarseli ogni volta riannodati inestricabilmente. In attesa che arrivino numerosi, nella seconda settimana, gli americani (che in genere a Cannes deludono, ma non si sa mai…), la Quinzaine des Réalisateurs non cessa di calare assi che non avrebbero sfigurato nel concorso principale._x000D_NERUDA (Pablo Larrain)
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In effetti se lo sono chiesto in molti: perché Neruda di Pablo Larrain non è stato ammesso a gareggiare per la Palma? Domanda legittima: il biopic sul poeta cileno avrebbe avuto motivi di interesse più che sufficienti ad esservi incluso, a cominciare dall’originale e azzeccata struttura narrativa. I mesi che seguono la messa al bando di Neruda (allora senatore) nel 1948, a seguito delle persecuzioni anticomuniste che l’allora presidente Videla decise di inasprire, vengono infatti raccontati da Oscar Péluchonneau, detective che non è mai esistito se non come parto della fantasia dello scrittore stesso, e che viene immaginariamente sguinzagliato per scovare e catturare proprio il suo creatore, Pablo Neruda, fuggiasco nei più remoti anfratti del Paese. Perché? Perché a Neruda piacerebbe molto che la battaglia politica venisse combattuta sulla sua pelle, ma la realtà è che il governo ha altri interessi, e sa che il poeta è un elemento tutto sommato innocuo. Inventarsi perseguitato (il che fu vero, ma fino a un certo punto) era per Neruda un mezzo per nascondere ai propri stessi occhi la dolorosa consapevolezza della propria limitatissima incidenza sull’agone politico.
_x000D_Nel suo essere non solo spesso e volentieri ironico, ma addirittura lui stesso una sorta di ironia ambulante, il Neruda di Larrain è, non meno che nerudiano, un personaggio nabokoviano, un’ideale incarnazione di quel tardo modernismo di cui Nabokov fu tra i più rappresentativi esponenti. Se il modernismo “alto” tra le due guerre mirava a cambiare radicalmente la società attraverso l’estetica, il tardo modernismo successivo alla seconda guerra mondiale rappresenta la disillusa presa di coscienza che un tale cambiamento non è possibile. Lo stile si rivela impotente a cambiare la società, e dunque si rifugia nell’irrilevanza parodica, nel fuoco di artificio estetizzante fine a se stesso e puerilmente innocuo. E il detective immaginario Péluchonneau, sulle orme di un Neruda a cui piace ancora credere di contare qualcosa, nasce proprio come proiezione dell’impotenza in cui Neruda sente che l’arte, la sua arte, sia stata confinata.
Neruda è interamente imperniato sul trapasso del tardo moderno in postmodernità compiuta. Nella sua ultima parte, l’inseguimento tra Neruda e Péluchonneau assume toni quasi western, la storia si arresta e balzano in primo piano i montani paesaggi innevati che le fanno da sfondo. Il tempo insomma finisce di farsi sopraffare dallo spazio – il che è letteralmente la definizione stessa di postmoderno, tanto più pertinente dal momento in cui quelle terre innevate sono possedute, come ci viene mostrato poco prima, da un tycoon ipercapitalista che fa soldi con il contrabbando tra le frontiere nella totale assenza di ogni autorità statale (impietosa parafrasi della globalizzazione). Eppure, il film si schiera dalla parte di una qualche persistenza e percorribilità del tardo moderno nonostante il compiuto passaggio alla postmodernità: se il tardo moderno si contraddistingue per uno stile che scopre di essere dolorosamente fine a se stesso, solipsista e come staccato dalla propria materia, è in questa scia che si colloca Larrain, con tutto il suo armamentario di lens flare, controluce impervi, grandangoli, ellissi incongrue, chroma key vistosamente posticci e quant’altro, tutto rigorosamente privo di fini estetici se non appunto quello di segnalare quella rigonfia gratuità dello stile che segna per definizione il tardo moderno. E i maligni qui avrebbero ragione a far notare che tutto questo zelo visuale è tipico dei cineasti iperletterari con la coscienza sporca, quelli cioè che sanno benissimo di essere iperletterari e che dunque eccedono per partito preso nel senso opposto, sovraccaricando le immagini e accelerando forzosamente il ritmo, con risultati abbastanza lontani da una qualche effettiva sensibilità cinematografica. Ma appunto non ci sono molti dubbi riguardo al fatto che è dalla parte della letteratura che Neruda, con la sua verbosità e con il suo accatastare idee su idee con poco riguardo alle nozioni tradizionali di “azione” cinematografica, sceglie deliberatamente di stare; e infatti Péluchonneau si rivela un personaggio immortale che sopravvive financo al proprio stesso narcisista creatore, come un sigillo apposto alla permanenza del tardo moderno anche dopo la sua fine.
_x000D_Ci sarebbe molto da discutere, e molte riserve da opporre, in merito a questa posizione ideologica (al fatto cioè che il tardo moderno venga ancora spacciato come percorribile): si tratta, in effetti, dell’unico punto debole del film, per il resto perfettamente coerente con le proprie premesse. Più ancora che articolarle, sarebbe il caso di rimandare a un altro film presentato in questa Quinzaine 2016, e che sembra curiosamente (e certo, involontariamente) controbattere punto per punto a Neruda: l’indiano Raman Raghav 2.0 di Anurag Kashyap. Ma questa è un’altra storia, e soprattutto un’altra geopolitica.
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_x000D_Voto: 7.5