TRAMA
1914, l’Italia sta per entrare in guerra. Una comune di giovani nordeuropei ha trovato sull’isola di Capri il luogo ideale per la propria ricerca nella vita e nell’arte. Ma l’isola ha una sua propria e forte identità, che si incarna in una ragazza, una capraia il cui nome è Lucia. Il film narra l’incontro tra Lucia, la comune guidata da Seybu e il giovane medico del paese. E di un’isola unica al mondo, la montagna dolomitica precipitata nelle acque del Mediterraneo che all’inizio del Novecento ha attratto come un magnete chiunque sentisse la spinta dell’utopia e coltivasse ideali di libertà, come i russi che, esuli a Capri, si preparavano alla rivoluzione.
RECENSIONI
Lucia ha gli occhi spalancati sul mondo, coscienza dei limiti che la circondano, volontà di espandere i propri confini: nelle cose che la attraggono e che non capisce vede la possibilità di un nutrimento, di un’elevazione, così vince la repulsione, respinge la diffidenza e osa. Lucia è una carta bianca pronta per essere scritta, una creatura vergine indecisa sulla via da intraprendere, divisa tra visioni del mondo distanti e confliggenti: il medico (la scienza, il positivismo) e la rivoluzione sociale; il pittore guru (l’anima, la spiritualità) e la rivoluzione interiore (la comunità fondata dall’artista, che rassembra quelle degli anni 70, considerata dalla società isolana come un oggetto alieno, una congrega di pervertiti); la famiglia (le radici ataviche dell’identità) e gli affetti che non può rinnegare né respingere.
Martone, attraverso gli occhi della sua protagonista, tocca concezioni e istanze diverse in un film che ha una collocazione cronologica precisa (siamo a ridosso della prima guerra mondiale: la comune a cui il regista si ispira, quella del pittore Karl Diefenbach, morto nel 1914, in realtà fu costituita nei primi anni del secolo), ma che, come Noi credevamo e Il giovane favoloso, non vuole proporsi come un’opera sul passato, ma che evoca un certo passato per confrontarlo dialetticamente con il presente, come in una seduta psicanalitica, in cui si va a scovare nell’infanzia le ragioni di una condizione attuale (sotto questo aspetto si comprende perché Martone torni, come nel precedente, alle musiche ultramoderne di Apparat/Sascha Ring). Cosa c’è infatti di più contemporaneo di un film che parla dello scontro tra opposte concezioni del mondo (e Capri è una metafora del mondo)? E che per metterlo in scena investe questioni di genere, identità, classe, cultura? A guardar bene nel film di Martone ci troviamo il MeToo, i novax, il discorso sui migranti (il barcone che porta in America la protagonista: noi emigravamo), le incomprensioni sulle avanguardie artistiche o certe prese di posizione nutrizioniste (i vegetariani visti come persone bislacche). Soprattutto: l’idea del tramonto di un’era e di un nuovo che avanza che mette paura (la guerra, la miseria, la morte).
Lucia vive al centro di questo fermento: quella lievitazione (sequenza arrischiata: un poetico azzardo) sancisce con icastica forza espressiva il pervenire a una nuova consapevolezza di sé.
Capri Revolution è allora un film complesso e denso, intasato di temi legati a filo doppio dal personaggio principale, una ragazza che ha il coraggio di autodeterminarsi in un’epoca e in un ambiente (quello familiare e quello dell’isola, chiuso anche geograficamente) che sembrano inchiodarla all’immobilità: Lucia, esperendo tutto, sceglie la libertà e decide a cosa appartenere, senza votarsi anima e corpo a nessuno dei suoi mentori. Perché - Martone sembra dirci questo - non c’è progresso se non nella sintesi di tutte queste istanze. Ogni portavoce di una visione ne espone un aspetto, ma nessuno di essi esaurisce la complessità del reale: non l’attivismo politico del medico, non il cieco spiritualismo della comunità di artisti (così quando la ragazza sta male, il pittore acconsentirà a portarla dal dottore; del resto lo stesso ideale comunitario si rivela utopico, perché anche nella congrega c’è manipolazione, ideologia, assertività che umilia l’altro, gerarchie più o meno tacite), non la famiglia patriarcale che preserva un mondo di valori, ma ottusamente castra ogni slancio individuale. In Lucia tutti i piani vengono a coesistere e lei si mantiene in equilibrio tra essi.
Posta la lucidità del disegno, forse a mancare è la fluidità nella sua stesura: il film, nell'argomentare comunicando, fa intuire la macchina al lavoro ed evidenzia una scrittura a tratti ripiegata sui discorsi, composta di blocchi separati che dialogano faticosamente. Ma è in queste forzature - nell’impianto drammatico che si consegna alla tesi, nella rilevanza attribuita al discorso contenutistico - che viene alla luce la radice rosselliniana di un film a cui non difetta, peraltro, la sensibilità nel trattamento delle tematiche.
Figurativamente curatissimo (Capri come una nuova Arcadia, i nudi di plasticità neoclassica: sono gli anni in cui nasce la danza moderna - un’altra rivoluzione - che immagina l’arte coreutica praticabile anche da un corpo in una stanza, senza musica [1]), il film, citando l’opera e il pensiero di Joseph Beuys («Noi siamo la rivoluzione»), conferma l’occhio peculiare di Martone anche nel modo personalissimo in cui mette i personaggi in scena, nei volti che sceglie di attribuirgli, per come li abbiglia o li trasforma. Un tratto personale messo al servizio di un apologo che ci ricorda come i ribelli siano figure spesso dimenticate, anche se sono sempre loro a cambiare il mondo.
[1] È solo una coincidenza che proprio quest’anno Martone abbia acconsentito a riallestire quel Tango Glaciale che nel 1982 fu un esperimento di teatro-danza contaminato il cui mix di linguaggi girò tutto il mondo (e a New York fu visto anche da Andy Warhol, Laurie Anderson e Martin Scorsese)?