TRAMA
Sullo sfondo dello scontro politico e mediatico intorno al caso di Eluana Englaro, padri, madri, figli, politici, medici e innamorati sperano in un risveglio.
RECENSIONI
Il disegno di Bella addormentata è questo: sullo sfondo martellante del caso di Eluana Englaro, il cruccio dei protagonisti riguarda casi privati, coscienze irritate e sonni difficilmente reversibili. Il sonno di una bellissima ragazza in coma, ma anche quello della madre, attrice famosa che ha rinunciato alla propria vita per vegliare e pregare al capezzale della figlia. Il sonno di una tossicodipendente, Rossa, che vuole il suicidio. Il sonno dei rappresentanti del popolo e delle loro coscienze. Il sonno eterno voluto dalla moglie di un senatore, spossata dalla malattia terminale. Ma nella fiaba che dà il titolo al film il sonno è solo un incantesimo e il risveglio è il lieto fine che tutti attendono. E il fulcro della faccenda, per Bellocchio, sono appunto i risvegli, non i sonni. È Berlusconi, in una delle sue apparizioni tele-giornalistiche, a distillare il desiderio fiabesco in senso comune: il risveglio è una chance, ci sono buone probabilità. Questo dato umanissimo fa premio sulla questione politica, o etica, e dopo tutti i risvegli difficili che il film alla fine ci nega (la figlia dell’attrice famosa, la stessa attrice, la coscienza pubblica del parlamentare berlusconiano, la repubblica italiana) ce n’è uno che rinfranca la nostra fede: la tossicodipendente Rossa abbandona, almeno per oggi, la voglia di suicidio
È chiaro che nella poetica di Bellocchio è giunto il tempo della mediazione. Tutta la sostanza ideologica del film (a dispetto del pregiudizio che ne ha accompagnato la produzione) è la ricerca di un dialogo possibile. Tra madri e figli, tra padri e figlie, tra idea politica e prassi parlamentare, tra fratelli, tra i lati opposti di uno scontro etico, persino tra fede e ateismo. Il paradosso rivoluzionario è che in un paese inutilmente estremista, in cui la radicalizzazione è pura isteria incontrollata, forma senza sostanza, happening emozionale, il contatto umano è una proposta eversiva. Questa illuminazione teorica è per il regista anche una riflessione sulla propria filmografia. La rivelazione più netta è nel personaggio del fratello arrabbiato, radicale, che odia la madre e ha nausea del possibile amore tra Maria e Roberto: è un duplicato volutamente grossolano del Sandro de I pugni in tasca, ma qui per lui non c’è molto spazio, è una figura disturbata e fuori posto da cui non sembra poter arrivare nulla di buono.
Si sa che Bellocchio non è nuovo al confronto – difficilissimo, va detto – tra storie private e Storia recente (anzi, con la Storia recente che si fa storia privata). Qui le complicazioni ulteriori sono due. La Storia è recentissima, forse troppo. E le storie private sono tante, forse troppe. L’esercizio riesce solo se i frammenti del disegno e le asperità di un compito del genere sono unificati e vivificati dall’energia ideale e cinematografica di un’ispirazione forte – che qui, purtroppo, manca. Ci sono momenti di notevole intelligenza (certe soluzioni fotografiche, l’uso spregiudicato e portentoso della incongrua colonna sonora) e spiragli di profonda intuizione pittorica e surreale (il personaggio di Herlitzka, la sauna dei senatori in toga, l’uomo che fruga furiosamente tra i letti dell’ospedale, il sonno macbethiano di Isabelle Huppert, le fattezze puramente fiabesche dell’unica ragazza in coma che ci è dato vedere); ma l’amalgama del Cinema latita troppo spesso e le buone (ottime) cose galleggiano irrisolte accanto a cose trascurate e maldestre. Si sente la fatica di una scrittura spesso frettolosa, di prove d’attore sbagliate, dei meccanismi banali da fiction RAI. Questa disomogeneità ha l’effetto schizofrenico di esaltare e deprimere lo spettatore, con alternanza penosa, a intervalli sempre più corti. Un Bellocchio minore, senza dubbio.
L’ultimo cinema di Bellocchio ha scelto la magnifica cifra stilistica del sogno, fatta di montaggio delle attrazioni e associazioni tematiche dove, all’inizio, figure e loro intenzioni restano misteriose, la scena in sé spesso trasfigura in qualcosa di simbolico o grottesco (sognato, da favola), il sottotesto ideologico sfuma le proprie direttrici per abbracciare più punti di vista, e il privato si costruisce sul pubblico (il caso di cronaca) e viceversa. Il capolavoro, in tal senso, resta Il Regista di Matrimoni ma il film più affine al presente, per temi e polemica contro certi abbruttimenti cui giungono i ferventi cattolici, è L'Ora di Religione (ma anche, nei risultati, Diavolo in Corpo). Eppure, nella scrittura, Bellocchio torna molto più indietro, ai tempi infausti con lo psicanalista Faggioli, quando i dialoghi o la loro programmatica assenza avevano un che di artificioso nell’accompagnare discorsi a loro modo predicatori e presuntuosi. Perché in quest’approccio corale al tema della libertà di vita-morte, schematicamente declinato in vari rivoli a tesi, la frammentarietà non giova, il rimpallo fra cronaca pubblica (massiccio l’utilizzo delle news di allora, dei volti di politici coinvolti e così via) e tormenti privati toglie a quest’ultimi il nerbo della verità e il cinema di “sogno” raramente è così potente da sublimare la materia per evocare, più che dire, le riflessioni che sicuramente il testo stimola. Ci sono pagine notevoli, resta qualche dubbio sull’equidistanza sull’argomento dell’autore, nonostante le sue dichiarazioni (l’opinione personale traspare dalla costruzione drammaturgica o per bocca di personaggi più “positivi” di altri: Bellocchio, oltretutto, è amico di Beppino Englaro, il padre di Eluana) e, nel complesso, viene buttata troppa carne al fuoco, gli ingredienti sono dispersivi e i personaggi “da favola” sono così sopra o sotto le righe da creare maggior confusione, con risultati altalenanti come l’opera stessa: alcuni interpreti sono splendidi (su tutti Alba Rohrwacher e Maya Sansa), altri mediocremente discreti, altri propongono un’impostazione che deprime il loro ruolo (Brenno Placido), altri ancora sono troppo poco sfruttati per avere peso (l’arrabbiato, tipico bellocchiano di Fabrizio Falco). Il film che si intravede con Isabelle Huppert è La Storia Vera della Signora delle Camelie di Bolognini. Flop al botteghino.