TRAMA
Woody Allen torna a New York con una commedia che racconta la storia di un irascibile misantropo (Larry David) e di una giovane, timida e suggestionabile ragazza del sud fuggita da casa (Evan Rachel Wood). Quando i genitori della ragazza (Patricia Clarkson e Ed Begley, Jr.) giungono a New York per salvarla, verranno velocemente e selvaggiamente risucchiati in inattesi intrighi sentimentali. Ma alla fine tutti capiranno che per trovare l‘amore ci vuole una giusta dose di fortuna abbinata alla capacità di riconoscere tutto ciò che potrebbe funzionare
RECENSIONI
Boris Yellnikoff, affetto da pessimismo cosmico e misantropia apocalittica, la sa più lunga degli altri. O così crede. Ex fisico a un passo dal Nobel, riadattatosi dopo un tentativo di suicidio e il divorzio dalla ricca moglie a insegnare scacchi a bambini (a suo dire) incapaci e a un tenore di vita tra lo sciattone e il bohémien, gira zoppicante in terribili calzoncini corti e calzini bianchi, riversando sugli altri il suo catastrofismo antropologico. Sferzante fino alla sgradevolezza e vittima del suo stesso cinismo che esplode in crisi di panico defenestranti, Boris è parente prossimo del 'cattivo maestro' David Dobel di Anything else (uno dei titoli più cattivi e dimenticati di Allen): memore del suo passato accademico, impartisce gratis ad amici e passanti sprezzanti lezioni sulla insignificanza congenita delle azioni umane e sul collasso inevitabile dell'universo sotto il peso della stupidità universale. L'impero feroce del caso, la tragica impossibilità di poter forgiare la propria vita: è questa la lezione che l'ex professore decide di impartire in prima persona, sguardo in macchina, dalla sua cattedra monologante, forte di una 'visione globale' delle cose negata agli altri, ciechi e stolti, che gli permette, unico, di abbattere la quarta parete, rivolgersi al pubblico in sala e svelare crudelmente anche l'illusione (l'inanità?) della scena.
Ritorno a casa di Woody Allen, dopo il grand tour europeo (i crimini londinesi, i misfatti sentimentali iberici), Basta che funzioni a prima vista sembrerebbe unoperazione al risparmio. Calatosi nuovamente negli umori e sapori della sua New York, Allen rimette mano a una vecchia sceneggiatura di circa trent'anni fa, accantonata dopo la morte di Zero Mostel per il quale era stata scritta la parte di Boris. Ed effettivamente, in Basta che funzioni i meccanismi narrativi e scenici sono fortemente debitori, più che altrove, della gavetta alleniana tra studi televisivi e palchi di cabaret. Allen gira principalmente su quello che sembra il set di una sit-com: l'appartamento di Boris presenta la tipica scansione tra spazi comunitari sempre in scena (il soggiorno col divano di fronte alla tv) e spazi privati fuori campo (la camera da letto), timide aperture sull'esterno (le finestre che filtrano le luci della città) e continue entrate e uscite dei personaggi dalla porta d'ingresso. Anche New York è ripresa come fosse un insieme di interni già noti, luoghi circoscritti, locali confidenziali. Larry David, scelto per il ruolo di Boris, è qualcosa di più del solito attore che si presta al 'Woody Allen role' in assenza del titolare: caustico stand-up comedian ebreo-newyorchese, autore e attore televisivo celebre in America, quasi sconosciuto in Italia, soprattutto per la serie tv Curb your enthusiasm nella quale interpreta un se stesso ancor più misantropo e sarcastico, Allen non poteva trovare un doppio in maggiore sintonia (e autonomia) esistenziale. Eppure quel che poteva essere un one man show, mordace ma anche un po' risaputo, si trasforma in qualcos'altro.
Con l'entrata in scena di altri personaggi Boris perde, anche davanti alla macchina da presa, la sua centralità. E la perdono i suoi spazi per filmare i quali Allen abbandona progressivamente la messinscena frontale (in accordo con la natura spiccatamente teatrale del testo) per uno sguardo più obliquo. Ad esempio, nella sequenza in cui Melodie (la deliziosa ocheggiante Evan Rachel Wood) ritorna delusa dalla serata con Perry, la macchina da presa perlustra tutto l'appartamento di Boris, si ferma sulla ragazza, rinuncia al consueto campo-controcampo per fissarsi su di lei. E' l'evidenza di un amore strambo quanto si vuole ma che, contrariamente alle sue teorie, Boris non può contrastare. Così come l'inattesa conferma delle suddette teorie, quando la ragazza lo informerà di essersi innamorata di un altro, porterà a una replica del primo suicidio in forma di gag congelata, sospesa tra riso e tragedia, frantumando la finestra (stavolta inquadrata, a differenza del precedente tentativo) che metteva Boris al riparo dal mondo esterno. L'arrivo dei genitori di Melodie, pur nelle forme di una divertente e già nota pochade (i ricchi conservatori bigotti del sud che si liberano di tutte le inibizioni socioculturali nella frizzante e artistica atmosfera del Village) demolisce definitivamente il protagonismo di Boris: il film diventa corale e Boris, nonostante i monologhi e gli appelli diretti al pubblico, è parte del coro. La satira si colora d'affetto, i personaggi sebbene irrisi nella loro goffa mutazione si liberano delle prigioni mentali nelle quali hanno vissuto fino a quel momento: Marietta (la solita magnifica Patricia Clarkson) letteralmente si sveste, abbandona il rigido e istituzionale museo delle cere per fotografare corpi nudi. Lo humour spesso nero degli inizi sfocia in una riconciliazione libertaria ed edonista (la lezione di Vicky Cristina Barcelona, forse, libera dalle pastoie e perplessità puritane).
Film minore? Ritorno in grande stile? Chi se ne frega. L'inossidabile coerenza di una filmografia come quella di Woody Allen, malgrado i lamenti di chi lo dà per morto da anni ogni anno (o ripete il refrain del 'sempre lo stesso film'), rende oziosa questa distinzione già oziosa di per sé. I'm not a likeable guy and this is not a feel-good movie, afferma Boris all'inizio del film. Si sbagliava, almeno in parte. Sì, non c'è più Duck Soup dei fratelli Marx a far desistere dai propositi suicidi come in Hannah e le sue sorelle (benché Groucho canti sui titoli di testa, quasi un esorcismo), al massimo la leggiadria di Fred Astaire può agire da ritardante, se non si muore è per puro e beffardo caso. Ma questo è un feel-good movie: Allen osa finalmente un happy end totale in cui si glissa sull'ambiguità del motto 'whatever works', principio di piacere o massima cinica, a vantaggio di una serenità insperatamente raggiunta. Boris, sempre convinto della sua superiorità filosofica, continua a parlare col pubblico ma gli amici ci voltano le spalle, soddisfatti del loro sapere parziale. Preferiscono vivere e viversi, nell'assenza tranquilla di Dio (dovesse esistere, afferma uno di loro, sarebbe comunque gay).
Cercherò di essere breve, perché gli sfoghi degli amanti delusi (rectius: traditi) non sono facili a scriversi né piacevoli a leggersi.
Dopo quattro film girati in Europa, Allen torna a New York (al Village, per la precisione) per un'opera dalle ambizioni enciclopediche e dagli esiti penosamente simili a una barzelletta di cui si dimentica l’inizio prima ancora di ascoltarne la fine. Negli ultimi anni Woody ha “riciclato” (copiato) se stesso a più non posso, ma finora aveva avuto l’accortezza di cercare uno spunto (la vita di uno scrittore, una conversazione "meta" sui generi narrativi o altro) in grado, se non di giustificare la fotocopia di glorie passate, almeno di imprimere al racconto una certa vivacità. Niente di tutto ciò in quest’ultimo film: il tenue, debolissimo pretesto della “visione d’assieme” di Boris (un’idea impietosamente scippata nientemeno che a La rosa purpurea del Cairo, in cui aveva ben altro respiro e soprattutto ben altri sviluppi) non basta a far funzionare una storiella in cui i personaggi, ormai fotocopie di fotocopie, hanno la consistenza della carta velina e anziché dialogare si rimpallano battute.
Intendiamoci: rispetto ad alcuni degli ultimi film (penso a Hollywood Ending, a Melinda & Melinda oppure a Scoop) il livello delle battute è discreto, in un paio di casi quasi degno del Woody di un tempo, ma le risate non bastano a colmare il vuoto di un film assolutamente piatto, in cui non accade nulla né sotto il profilo drammaturgico, né sotto quello cinematografico. I personaggi sono pure macchine da slogan, macchiette tutte d’un pezzo (di scarsa qualità), sagome di cartone contro un fondale turistico capace di far impallidire persino la Barcelona del film precedente. La complessità delle relazioni umane, le contraddizioni della vita di coppia, le imprevedibili metamorfosi dell'esistenza sono ridotte a meccanismi da vaudeville, per non dire di peggio, che il regista tenta invano di galvanizzare calcando la mano sugli aspetti più facili e grotteschi (la “conversione” dei genitori di Melodie) e ricorrendo a comodi salti temporali (meglio non pensare alla forza che simili “buchi” avevano in capolavori come Manhattan e Hannah e le sue sorelle). Lo sguardo in macchina, il “chiamare in causa” senza tregua il pubblico in sala è la spia dell'impossibilità di costruire un film coeso e coerente, perché i tasselli che dovrebbero formare il puzzle provengono da troppe scatole differenti e non aderiscono gli uni agli altri neppure a prenderli a martellate. E non vale la pena perdere tempo catalogando in dettaglio le citazioni, i rimandi o, per essere esatti, le copie carbone di cui Basta che funzioni è costituito.
Resta da chiedersi per quale pubblico questa operazione sia stata confezionata. A occhio e croce, vista anche la presenza nel cast dei legnosi Evan Rachel Wood (che di solito è deliziosa, ma stavolta sembra una Scarlett Johansson in tono minore, se possibile) e Henry Cavill, il pubblico dei ventenni, magari digiuni del Woody Allen anni Ottanta. E sì che il dvd dovrebbe favorire la diffusione dei classici, vecchi e nuovi.
Caterina la Grande ebbe a scrivere, a proposito di alcune musiche composte da Cimarosa durante il suo soggiorno in Russia: “Saranno forse preziose per gli amatori e i conoscitori; personalmente, non le pagherei dieci soldi”. Il target di Basta che funzioni è agli antipodi di quello immaginato dalla Zarina per le opere del grande operista napoletano, ma il giudizio complessivo, per quanto mi riguarda, è identico.