TRAMA
Un allevamento di struzzi ha urgente bisogno di cospicui finanziamenti: i proprietari sono pronti a tutto pur di ottenere aiuto… dall’uomo sbagliato.
RECENSIONI
Nelle campagne toscane illividite da un brumoso inverno va in scena un felice innesto de L’Ispettore Generale di gogoliana memoria e del dickensiano Canto di Natale (il racconto si snoda come un sogno che, evitando un suicidio, trasforma un mondo). Gli Anni raccontati da Virzì sono Ruggenti solo nelle disparate(/disperate) pratiche imprenditoriali azzardate dai protagonisti, che tentano la carta dell’esotico (del nuovo esasperato e prepotentemente squadernato, si tratti di struzzi o basic english) pur di non arrendersi all’amarezza del qui-e-ora, di un presente che è riflesso di un passato doloroso e (non) si apre a un futuro in pari misura scoraggiante. Ma è nel passato, nel calmo e rigoroso ritorno alle (proprie) origini, che si trova la chiave della salvezza più autentica. Forse l’opera migliore del regista livornese: una commedia non vuotamente e carinamente amarognola ma sofferente e densa di fiele, sfumata e al tempo stesso percorsa da una vena surreale distillata con sapienza (e molto più efficace di quella che intasava Ovosodo, opera tanto deliberatamente stramba da suonare irritante, a dispetto dell’indubbia grazia). Baci e Abbracci riesce dove Ferie d'Agosto aveva in parte fallito: le annotazioni didascaliche (a proposito di politica, economia, società) ci sono ma rimangono defilate, e i personaggi, non più riducibili a maschere o megafoni autoriali, mostrano uno spessore insieme umano e fantastico, sono spettri di un teatro della crudeltà involontaria, dell’amore disinteressato (un atto gratuito che nutre e salva, unica larva di redenzione in un territorio sprofondato nel grigio e nel silenzio), ombre a tal punto fragili da temere un gesto troppo violento della macchina da presa. Goccia dopo goccia, il ritmo lieve e impietoso, i dialoghi appuntiti (ma non troppo), lo sguardo registico lieve e infaticabile danno vita a un ruscello che scorre, lento, controcorrente. La televisione apre la partita, il corpo umano (o meglio, una sua parte) la chiude. E vince. Attori – professionisti e non – in gustosa mescolanza; su tutti, Paola Tiziana Cruciani e Isabella Cecchi.

Virzì ritenta il colpo di Ovosodo, spostando gli Snaporaz (anche) davanti alla macchina da presa (miseri risultati: sono loro riservate le battute “giovanilistiche” peggiori), replicandone gli errori (una certa artificiosità schematica del racconto che cozza con la ricercata improvvisazione fra attori professionisti e non) ma non i pregi. Solo con l’opera successiva, My Name is Tanino, darà finalmente sfogo a quella vena fantasiosa e surreale (qui solo abbozzata in modo impacciato) che costituirà il vero Virzi’s touch, riservandogli un posto d’onore nel palco della (ritrovata) commedia all’italiana. A non funzionare è l’impianto corale di cui è di solito maestro: il suo “L’ispettore” di Gogol (la storia è molto simile, ma il regista s’è detto ispirato da Dickens e da un racconto contenuto in Smoke) s’impantana in un “regionalismo” estremo (tutto toscanaccio), qualche macchietta di troppo, attori non convincenti con personaggi poco simpatici (non se ne salva uno), un ritmo lasco a immagine del salernitano “spento” interpretato da Paoloantoni e tante scene in cui l’effetto voluto manca il bersaglio. L’opera è senz’altro piacevole, certi passaggi funzionano (l’abbraccio a Natale, saltellando e dicendo “Non si soffre più”, è uno dei momenti più spontanei) e a Virzì va sempre riconosciuto il merito di osare fra favolismo, sprazzi onirici e tanta “carne” al fuoco, ma bastava una salsiccia ben cotta.
