
TRAMA
Grantham, Virginia. Nello scantinato di una casa, teatro di un plurimo omicidio, viene trovato anche il cadavere di una giovane donna sconosciuta.L’esperto medico legale Tommy Tilden, assistito dal figlio Austin, è incaricato di eseguirne l’autopsia.
RECENSIONI
Osservazione, raccolta dati, ipotesi, soluzione. E nient’altro. Guai ad uscire dallo schema, guai farsi e fare domande che vadano oltre il proprio specifico spettro di competenze (“leave the ‘why?’ to the cops and the shrinks, we’re just here to find the cause of death”). Vietato insomma cercare un movente per i corpi martoriati con i quali i due protagonisti hanno a che fare, ma anche vietato azzardare ipotesi che non trovino poi una precisa, evidente ed inequivocabile soluzione. È scienza, nulla più. Ed è scienza anche quando l’osservazione desta non poche perplessità, è scienza quando nel corso della raccolta dati si incappa in dettagli inquietanti e apparentemente privi di senso, è scienza quando le ipotesi hanno a che fare con il soprannaturale e infine è scienza perfino quando la soluzione sfocia decisamente nell’orrore. Ora, l’inappuntabile modus operandi che Tommy Tilden e il figlio Austin applicano con profondo rigore scientifico nello svolgimento delle autopsie, il regista norvegese André Øvredal (che nel 2010 si era fatto notare con Trollhunter) sembra riversarlo nella struttura stessa del film, chiusissima, perfettamente aderente alle quattro fasi che approssimativamente abbiamo cercato di ricostruire, priva di un qualsiasi guizzo lasciato aperto o perlomeno non soffocato da una lunga e dettagliata spiegazione. È un percorso ben definito quello di Autopsy, uno schema circolare come lo sono tutte le maledizioni, che tuttavia inciampa in uno scarto di partenza che nella seconda parte e nella prevedibile conclusione mette fin troppo in evidenza tutte le sue debolezze. Øvredal insomma, vuole trattare come scienza qualcosa che scienza non è (il racconto, il cinema), e per farlo dilata a dismisura la componente più ridondante, delicata e soprattutto scientifica (in quanto pienamente volta alla decifrazione logica e razionale del senso delle cose) del cinema dell’orrore, quel momento in cui molti film crollano come castelli di carte e almeno altrettanti si risollevano, facendo esplodere sensi e significati in direzioni inaspettate: la spiegazione. E all’interno del genere horror, per scegliere di far convergere tutte le energie verso questo momento, oltre ad una buona dose di coraggio, bisogna avere quantomeno una fiducia sconfinata nel proprio finale. Fiducia che in questo caso specifico, dispiace dirlo, è davvero mal riposta.
Di per sé non sarebbe poi una conclusione così debole, anzi, è un finale che riesce comunque ad inserire il film all’interno di un filone abituato a sfruttare tutt’altri ambienti e tutt’altri topoi narrativi e visivi. Tuttavia, si tratta di una conclusione che non è per nulla in grado di risollevare le sorti di un racconto che nella seconda parte aveva scelto ciecamente di percorrere strade fin troppo convenzionali, incanalandosi in un binario scevro di sorprese rilevanti. E dispiace soprattutto perché l’incipit e tutto il primo atto del film non sono affatto da buttare: Øvredal sa muoversi abbastanza bene negli spazi, riesce a creare una discreta atmosfera partendo praticamente dal nulla e inoltre, elemento più rilevante, trova nell’opposizione tra il bellissimo e magnetico corpo di Jane Doe e gli altri cadaveri maciullati su cui lavorano i Tilden una tensione visiva davvero notevole, che avrebbe meritato ben altri sviluppi. Purtroppo, proprio quando avrebbe dovuto raccogliere tutto quanto di buono costruito in questi primi minuti, il film si inabissa lentamente: la regia mostra tutti i suoi limiti nella gestione del climax, la componente mistery prevale sulla costruzione dell’incubo (quest’ultima decisamente rivedibile) e il perno su cui poggia l’intera struttura diventa la soluzione di un enigma che tutto sommato, una volta sciolto, fa un po’ meno paura dell’inquietante e incomprensibile senso di minaccia costante che attanagliava i Tilden nella prima parte. Autopsy è insomma un film compresso tra due attese per certi versi complementari (l’attesa dell’incubo nelle fasi di osservazione e raccolta dati; l’attesa dello scioglimento dell’enigma nelle fasi di ipotesi e soluzione), in cui però la prima scivola subdolamente nella seconda: e investire la conclusione di tutta questa responsabilità, caricarla di tutto questo peso, è davvero da incoscienti. Certo, tutto sommato ci si potrebbe anche accontentare; ma vorrebbe dire fare un torto a quanto di buono mostrato nella prima metà.
