
TRAMA
Con l’aiuto del Genio della Lampada, Aladdin, il ladro buono di Agrabah, cerca di impressionare la principessa Jasmine, di cui è innamorato; nel mentre, il gran visir Jafar, tenta di usurpare il trono e impossessarsi della lampada e del regno.
RECENSIONI
Ci sono storie immortali, che amiamo raccontarci mille e mille (e una) volte, talmente radicate nel nostro immaginario che ogni scusa è buona per rivederle, riviverle, magari in modo diverso, ma il cui sapore deve restare immutato, come quando i bimbi rivendicano la loro favola della buona notte preferita. (La) Disney lo ha capito bene, ma non ora: da sempre, già da quando riportava nei cinema i propri Classici, in home-video, nei mille formati, nelle mille collector's editions, a teatro, nei negozi, nei parchi a tema, per perpetuare, di generazione in generazione, capolavori senza tempo, irresistibili, che hanno – incredibile a dirsi - il fortunato ed inevitabile effetto collaterale di rastrellare montagne d'oro, che non basterebbe una caverna delle meraviglie per contenerli. Nel secondo decennio del nuovo millennio sono i remake live-action ad essersi imposti come moda imperante di successo, oggetto di un continuo perfezionamento nella formula e nella vendita, tanto sfacciatamente ruffiane da risultare a volte rischiose, ma sempre studiate e controllate. Non importa se ci si concede qualche licenza (Cenerentola, Il Libro della Giungla), o se il Classico è solo il punto di partenza (Dumbo, Alice in Wonderland, Maleficent), l'importante è che il pubblico riconosca in questi prodotti le storie e i personaggi che ne hanno segnato l'infanzia, riveda le scene iconiche, anche solo per dire quanto siano brutte e/o imparagonabili con quelle del passato. Non è un caso se praticamente tutte le altre re-immaginazioni operate dalla concorrenza abbiano floppato, sebbene a volte più interessanti, come se il pubblico avesse avvertito un' indebita appropriazione di qualcosa che, se proprio va rifatto, deve conservare il Disney Touch. Triste ironia, perché, se vogliamo, è stata la Disney in primis ad appropriarsene. E non è neanche un caso se l'unico, ad oggi, sequel di questi remake, Alice Attraverso lo Specchio, più riuscito del suo predecessore, sia stato rifiutato dal suddetto pubblico, perché ormai troppo distante dalla versione a(ni)mata, talmente circoscritto nel nuovo e parallelo universo creato da risultare altro, privo di quei rimandi e omaggi che quasi si pretendono. In questo caso, davvero, Alice non era più quella Alice, segno che i cuori degli spettatori possono essere sedotti, ma non tradiscono, non per ora almeno... Il destino di ciò che la Disney spera possa essere la moda del prossimo decennio sarà tutto nelle mani del sequel di Maleficent, in arrivo in autunno.
Intanto l'Aladdin di quel Guy Ritchie di Lock & Stock e Snatch, così come i blockbuster Sherlock Holmes (entrambi) e King Arthur, è la più recente aggiunta al nuovo canone, in attesa dell'imminente Re Leone col quale, insieme a La Bella e la Bestia e La Sirenetta (annunciato e in uscita in un imprecisato ma inesorabile futuro) va a completare i remake della quadrilogia di punta del Rinascimento disneyano anni '90, senza i quali non esisterebbe la Disney come la conosciamo oggi; guarda caso, tutti e quattro i film hanno subito anche un riadattamento teatrale a Broadway. Nel rileggere questi Classici più recenti, la Disney appare più protettiva e timida, forse perchè il dover riproporre gli stessi film a quello stesso pubblico che qualche decennio prima probabilmente ha conosciuto il cinema proprio grazie ad essi, sembra essere una missione già di suo complicata. La furbata sta allora nella pretesa di dare più profondità a quei personaggi attraverso storyline più complesse, e di conferire al 2D originario più realismo grazie alle nuove tecnologie, col risultato che, nonostante/grazie a tutte le buone intenzioni, il prodotto finito risulti un singolare ibrido che inevitabilmente, date le sue stesse premesse, vince e perde allo stesso tempo, in misura diversa, a seconda dei casi. Aladdin, più di tutti, fa di questo dualismo il suo punto di forza e la sua debolezza.
Will Smith, inizialmente dato per spacciato e non affatto invidiato nel dover rimpiazzare quel genio di Robin Williams, ne esce vincitore su tutta la linea. La sua intelligente interpretazione e l'attenta riscrittura da parte di John August (Big Fish, La Sposa Cadavere) (ri)danno vita a quello stesso Genio che conosciamo, ancora una volta fortemente caratterizzato dal comico che ne riveste i panni (come è stato anche per la versione teatrale), di cui richiama due dei successi più iconici: Hitch e il Principe di Bel Air. Evidente e spassosa è l'intesa con Mena Massoud, che regala un Aladdin più timido e impacciato, ma dallo stesso cuore d'oro, che nel nuovo finale fa prova di maggior sacrificio e rettitudine. Jasmine subisce il makeover più sfacciato, frutto dei tempi (delle mode e dei movimenti): nel volto, stupendo, di Naomi Scott, più indiano, come la madre - ci dice una sceneggiatura furbacchiona - e nel temperamento, ancora più indipendente, che la impone come parte attiva nello lotta al gran visir, che verrà fronteggiato a viso aperto e non sedotto e ingannato come nel film originale; il tutto sotto gli occhi orgogliosi e lucidi del padre, il Sultano, che riconoscerà in lei la legittima sovrana di Agrabah, nonostante alle donne tale onore non sia mai stato riconosciuto. Ma le leggi (come i film) possono essere riscritte.
A Jasmine viene anche affidata la nuova empowerment song, Speechless, grido prima soffocato e poi urlato, simile nelle intenzioni a Let it go - di Frozen ovviamente, come se fosse necessario specificarlo - e come tale destinata a innumerevoli cover. A firmarla è il duo di La La Land e The Greatest Show Man, Benj Pasek e Justin Paul che in ogni intervista non hanno mancato di sottolineare l'enorme entusiasmo e onore di poter lavorare fianco a fianco con uno dei loro miti, nonché ispiratore, il compositore Alan Menken, autore delle musiche originali (insieme a Howard Ashaman e Tim Rise), che torna per riarrangiare gli storici pezzi. Altra efficace novità è il personaggio di Dalia, spalla comica, interlocutrice e ancella di Jasmine, che va così a creare con i protagonisti un quadrittico dal sapore quasi da commedia dell'arte, con siparietti e trovate tutte riuscite. Scenografie e costumi ricostruiscono una Agrabah da fiaba mentre la CGI riesce a dare concretezza alle fibre tessili del tappeto, senza perdere un filo della sua personalità, così come convincente è la versione digitale di Iago che va ad aggiungersi alle spettacolari creature ricreate al computer di Dumbo e Il Libro della Giungla.
Ma ogni magia ha un costo, si sa, e quella che può sembrare un formula di sicuro successo chiede sempre alla fine di regolare i conti. Nel passaggio dal cartoon al live-action qualcosa necessariamente si perde per strada, data la differenza stessa tra i due medium, soprattutto considerando le possibilità estetiche e narrative che il 2D offre, finora irraggiungibili su pellicola. A tal proposito, non esiste CGI alcuna in grado di riprodurre le mirabolanti trasformazioni animate ad opera di Eric Goldberg, creatore del design - ispirato allo stile di Al Hirschfeld- e delle animazioni originali del Genio, dove il virtuosismo si fa personaggio, lo definisce, lo plasma. Il gonfio corpo blu (realizzato in performance capture) di Smith manca di quella voluta e tanto ricercata concretezza, perdendo anche quella fumosa ed eterea essenza di cui è composto il suo corrispettivo animato, conseguendo una forma incerta che l'occhio piuttosto rifiuta. Non solo, il disegno e la stilizzazione del tratto facilitavano la grande immediatezza delle gag e le irresistibili caricature, laddove una CGI, certamente all'avanguardia, ma ancora manchevole – soprattutto quando si parla di figura umana – rallenta il ritmo e distrae lo sguardo. Una completa riscrittura del personaggio avrebbe senza dubbio ovviato al problema... ma non sarebbe stato più il nostro Genio, non al cinema almeno, perchè a Broadway l' ”umanissimo” Genio funziona tout court ed è anche valso un Tony Award al suo interprete James Monroe Iglehart. Anche l'Abu digitale non è in grado di rendere giustizia a quella tenera canaglietta dagli occhi enormi del cartoon originale e la sua parte è stata nettamente ridimensionata. A Broadway, quasi a voler marcare il diverso approccio, è stato sostituito con tre compagni di birbonate, Babkak, Omar e Cassim.
Ma tornando a questo adattamento live-action, a farne maggiormente le spese è stato il gran visir, a causa soprattutto di un casting decisamente poco ispirato. Sebbene la scelta di un Jafar più giovane possa essere interessante, perché ne fa quasi una versione corrotta dello stesso Aladdin (come è evidente nella scena, ben girata, in cui gli ruba la lampada), il voler dare a tutti i costi una spiegazione, sommaria, della sua malvagità (pratica comune a tutti questi remake) ne indebolisce la statura, trasformandolo in un villain incattivito più che cattivo, mai percepito come una vera minaccia, e non supportato da una performance convincente come accadeva invece con le sempre eccezionali Cate Blanchett e Angelina Jolie rispettivamente in Cenerentola e Maleficent. Anche il prologo, narrato da una marinaio dalle fattezze di Will Smith, risulta più fiacco e meno efficace rispetto a quello animato, sebbene narrativamente più giustificato, ma fallisce nell'imporre da subito il ritmo comicamente irriverente del film. Viene mantenuta però la tradizione di affidare l'introduzione al Genio, come nella versione originale (il mercante è doppiato sempre da Robin Williams e leggenda vuole che si tratti proprio del Genio sotto mentite spoglie) e in quella teatrale.
Tuttavia, tirando le somme ci si rende conto che i conti non tornano, perché Aladdin, nonostante gli indubbi difetti, convince e assicura quello scatenato spettacolo che il pubblico si aspetta, con la giusta e studiata dose di nostalgia. L'operazione è nel complesso riuscita, la confezione è ammiccante (con quel tocco Bollywood che rende il film più appetibile anche al vasto publico indiano), il prodotto funziona, complici anche le leggendarie canzoni; alcuni critici lo hanno definito il miglior remake Disney, il pubblico (inizialmente dubbioso con i primi trailer) lo ha pienamente promosso con un esordio al di sopra delle aspettative e una tenuta invidiabile (segno di un ottimo passa parola)... e mamma Disney gongola, si appunta gli errori per perfezionare sempre più la sua formula, e rafforza sempre più i suoi “fenomenali poteri cosmici”, in uno spazio (artistico) vitale sempre più minuscolo, sempre più schiava delle mode e dei gusti del tempo, costretta a esaudire i desideri del suo pubblico.
