TRAMA
Il ritorno a casa, dopo la prigionia ad Auschwitz, di alcuni deportati italiani.
RECENSIONI
Prima regola (appresa a prezzo di martirizzanti delusioni): mai azzardare confronti tra libro e film. Seconda regola: rispettare la prima regola anche se chi ha realizzato la trasposizione dalla pagina al telone rettangolare sostiene di avere "rispettato" il testo. [Terza regola, facoltativa ma sicuramente raccomandabile: invitare coloro che sostengono di avere riprodotto fedelmente un'opera letteraria a ri - leggersi le considerazioni di Truffaut e/o Hitchcock sulla natura intrinsecamente fallimentare di una riduzione da un "classico".] Queste sono le regole, ma La tregua è l'eccezione. Nel caso del romanzo di Primo Levi, infatti, non è in gioco soltanto il livello artistico (notevole) del lavoro di partenza, ma la sua natura insostenibilmente documentaria, che intensifica in maniera inaudita la tensione originata dallo scabro, quasi osceno tessuto testuale. La tragedia ha origine, prima ancora che dalle brutali e lucidissime pagine del testo, dal sangue e dalla carne di veri esseri umani: anche per questo è un po' difficile non pensare al libro di partenza, quando si assiste alla proiezione del film di Rosi. Ovviamente, nessuno pretende che regista e sceneggiatori debbano rispettare ad ogni riga la lettera del testo: trarre un film da un romanzo significa estrarre, sfrondare, se è necessario stravolgere l'opera di partenza, evidenziandone alcuni aspetti ritenuti importanti. Un'operazione del genere, affrontata con la necessaria serietà, convertirebbe molti sceneggiatori all'ideazione di soggetti originali: ma ciò avviene raramente, dato che il più delle volte prevale l'estetica da sceneggiato di prima serata, che fornisce graziosi siparietti utili ad incorniciare la pubblicità. È uno dei problemi di questa Tregua targata RAI: manca ogni parvenza di continuità tra un episodio e l'altro. L'odissea degli ex prigionieri è narrata per aneddoti, i raccordi narrativi sono piuttosto labili, l'interesse che proviamo, almeno inizialmente, per i personaggi si disperde in un mare di noia, tra momenti di catatonia narrativa e supposti "picchi" del racconto. Questa potrebbe essere una scelta testuale precisa, vale a dire mostrare la precarietà, il senso d'impotenza, le difficoltà relazionali di chi, dopo un interminabile periodo di detenzione all'interno di un'istituzione totale, si trova ad affrontare nuovamente, e "da capo", la vita quotidiana, la "normalità": ma sono i dialoghi a mandare lo spettatore al tappeto, e ad impedirgli di rialzarsi per tutte le due, interminabili ore del film. Lo script porta le firme del regista e del rinomato binomio Rulli - Petraglia: se non lo sapessimo, difficilmente potremmo indovinarlo. Battute sentenziose, piene fino all'ultima sillaba di retorica melensa, spunti comici quasi sempre involontari, silenzi "bergmaniani" da applausi a scena aperta. Gli attori? Generalmente dignitosi o almeno tollerabili, qui vittime di un casting delirante. Dionisi è ridotto a pupazzo (e specchietto per le allodole quindicenni), Ghini risulta insopportabile nei suoi manierismi, Bisio si aggira disorientato, forse alla ricerca del maialino del noto spot. Turturro, sulla carta il più adatto al ruolo dello scrittore, davanti alla macchina da presa si rivela legnoso come un'intera foresta (bisogna riconoscere che il doppiaggio non gli è d'alcun aiuto). Il regista? Il mestiere c'è e si vede, non manca qualche tratto geniale (il prologo), ma sono davvero troppi i momenti imbarazzanti (l'inquadratura finale è da antologia del trash "colto"). Le musiche di Bacalov? Lasciamo stare…
