Horror

RABIES

Titolo OriginaleKalevet
NazioneIsraele
Anno Produzione2010
Genere
Durata90'
Sceneggiatura
Fotografia
Montaggio
Scenografia
Costumi

TRAMA

Un fratello e una sorella, scappati di casa, trovano rifugio in una riserva naturale deserta. Quando la sorella cade nella trappola di un killer psicopatico, il fratello corre contro il tempo per trovare aiuto. Per lo strano gioco del destino, il soccorso alla sorella si intreccia involontariamente con le vite di un gruppo di giovani tennisti, un ranger e il suo cane e una squadra di poliziotti.

RECENSIONI


Il cinema israeliano è un classico oggetto da festival. Pochi autori (tra gli altri, Amos Gitai, Ari Folman, Eran Riklis) hanno colonizzato l’immaginario cinematografico del paese trasmettendo l’idea che un film proveniente da quelle terre non può che essere incentrato sul conflitto israelo-palestinese. Quando la realtà brucia, si finisce con il dare per scontata l’idea che il cinema debba affrontare di petto la situazione fotografando in modo diretto le contraddizioni del presente. È quindi con grande curiosità che si accoglie uno dei rarissimi casi di film horror prodotti in terra israeliana. Un chiaro esempio di come, pur attendendosi ai punti fermi del genere (il film è uno slasher in piena regola), si possa ugualmente dire qualcosa di politico e sociale ricorrendo all'allegoria. Aspetto, occorre sottolinearlo, non essenziale per poter apprezzare un horror, ma evidente nelle scelte compiute dai due registi: Aharon Keshales e Navot Papushado.


Il primo si è laureato al Dipartimento di Cinema dell’Università di Tel Aviv e lavora come critico e lettore, il secondo è stato prima studente di Keshales e poi suo complice cinematografico (il suo corto “Zeitgeist” è stato prodotto da Keshales). Li accomuna una chiara visione di intenti. Raccontare una storia tutto sommato ordinaria che ammicca ai teen-horror americani provando, e in parte riuscendo, a spiazzare, nonostante uno stile smaccatamente derivativo. C'è un maniaco, un fratello e una sorella incestuosi, due coppie di tennisti, due poliziotti e una guardia forestale con il suo cane. I loro destini si incroceranno in un bosco, luogo simbolico per eccellenza della perdita di ogni certezza, in un pomeriggio apparentemente come tanti altri. Sarà, ovviamente, mattanza.


 Fil rouge del massacro la crudeltà del fato che determina una serie di coincidenze devastanti che finiscono per fare degenerare situazioni sulla carta innocue: un controllo di routine da parte della polizia, un giro di ricognizione tra le frasche, il miraggio di una partita a tennis. L'odio e la rabbia, però, covano sotto pelle e basta un niente per infiammare gli animi. Tra esplosioni, mutilazioni e tocchi gore, a dominare la scena è un'ironia corrosiva che sfocia più volte nel grottesco a causa di personaggi che finiscono per portare all'eccesso, non sempre con motivata progressione, i lati neri del proprio carattere.


La parola d'ordine, però, è disattendere le aspettative e quindi si muore, e parecchio, cercando il colpo di scena, andando controcorrente (a partire dal fatto che tutto avviene alla luce del sole e le tenebre sono esclusivamente negli individui), e irridendo la dabbenaggine dei personaggi. Basta pensare che l’uomo sulla carta più pericoloso, il maniaco, oltre a uscirne indenne sarà proprio quello che non ucciderà nessuno (cani esclusi). La metafora è garantita dall'insensatezza dei conflitti, dal machismo esibito e condannato, dalla deriva della comunicazione affidata soprattutto alla tecnologia e dalla pericolosità di un territorio divenuto teatro di guerra (mine e trappole sono ovunque). Senza bisogno di commenti, invece, la battuta che chiude il film, gridata da uno dei pochi sopravvissuti in cerca di un passaggio in auto: “Questo paese è una merda!”