TRAMA
Una celebre cantante-attrice è circuita da un intraprendente bellimbusto, ma c’è chi vigila su di lei…
RECENSIONI
Vita e arte in divertita (e poco originale) confusione. Una primadonna (interpretata da una vera superstar della canzone), la sua famiglia e il suo entourage (che comprende il vero regista Zaki Wahab), un film da realizzare: le riprese, turbate da un seduttore da strapazzo che rischia di compromettere affetti e carriere, saranno portate a termine grazie all’involontario apporto del “cattivo”, sconfitto dai suoi stessi sistemi. L’affabulazione è ciò che fa grande il cinema e la realtà, e i confini fra verità e bugia sono più sfumati di quanto sembrino: fin dalla prima sequenza, in cui la cantante raggiunge il palcoscenico della sala da concerto passando fra le poltrone del pubblico, il regista evidenzia come l’arte debba nutrirsi della vita, anche dei suoi lati peggiori (fra il pubblico è presente il cascamorto di Malak), per rinnovare la propria magia. Il film è un gioco di quinte ingannevoli (la stazione della metropolitana, le porte chiuse) e passioni forse non del tutto simulate [il corteggiamento di Lamei, che potrebbe non essere solo frutto dell’ambizione (vedi le ultime inquadrature), il turbamento di Paula nell’udire e immortalare le parole dell’amante della madre]: stilizzate visioni di gloria e surreali sogni d’estate, immagini proiettate e nuvole di fumo, luci teatrali (la morte della nonna) e balletti di equivoci e travestimenti (il prefinale) sono gli elementi che costruiscono un’eterogenea celebrazione del soffio vivificatore che il grande schermo (o il palcoscenico, poco importa) invia ai creatori e agli spettatori dei suoi incanti. Ma l’arte, soprattutto quella comica, richiede vero talento e impegno ininterrotto, se non si vuole cadere nel ridicolo più televisivo (l’orchestra che abbandona il teatro davanti all’esibizione di Lamei, improntata al più orripilante karaoke).
La banalità dei personaggi (quasi tutti stereotipi da fotoromanzo) e la prevedibilità dell’intreccio dovrebbero enfatizzare il valore assoluto, libero da ogni costrizione di scrittura, della macchina onirica di fronte alla quale il mondo si ferma (come indica il titolo). Ma la coreografia di pianti e risate, pur impeccabilmente confezionata, lascia indifferenti: le gag visive sono vecchiotte e ripetitive, il dialogo è quasi sempre piatto, la fusione fra i piani della rappresentazione rimanda a film che, sull’argomento, erano molto più divertenti, profondi e leggeri. Chahine pensava, con ogni probabilità, a un lavoro frizzante e impalpabile, ma il risultato è un’opera un po’ limacciosa, carica di un risentimento (verso i pressappochisti, i fanatici della politica e dei soldi, i cialtroni che ostentano risibili raffinatezze europee) che non sa trasformarsi in lucida cattiveria o sarcastica ironia; la pretesa di accostare melò, commedia sofisticata, farsa e musical con l’ausilio di trovate da cartone animato (ralenti, occhi che schizzano dalle orbite e altri “effetti speciali”) è velleitaria. Gli attori over-30 meritavano di più.

Naif, colorato, ingenuo, allegro, autorale e popolare, trash e ricercato. Quando Chahine unisce la favola grossolana bollywoodiana alla riflessione politica e morale, scimmiotta in virtù della parodia o ha una felice schizofrenia congenita? La sua telenovela pone a confronto due amori, uno “vero” ed uno “recitato”, fa incontrare e naufragare la passione di due finzioni (una diva ed un aspirante attore), corteggia l’eccentricità facendo cozzare la “cartapesta” con gli “scenari naturali”, frulla il musical con la pochade di René Clair, A Spasso con Daisy (autista e adorabile nonna acida) e Il Ladro di Bagdad (lo scooter d’acqua come un tappeto volante), gli occhi a palla di Chi ha Incastrato Roger Rabbit e le comiche mute, il valzer dei sessi e il melodramma. E’ un divertissement con la coda di paglia di chi cavalca un genere con la mano sinistra (certe coreografie sono ridicole) per sottolineare cosa fa la destra (dagli omaggi al cinema egiziano classico ai sinceri messaggi edificanti) e, allo stesso tempo, non prendere sul serio nulla, a cominciare dallo spettatore. Per il pubblico tipo-snob francese (la Francia co-produce) c’è il sapore metacinematografico che riporta tutto ad un sogno visionato e contrappone finzione e realtà, per i palati meno fini partono i violini nelle scene d’amore, Bulli e Pupe e Grease. Silenzio, si gira! Ed ecco il ballo dei servi con i padroni, quello della passione che acceca, i trucchi demodé e la gratuità (gli ombrelloni in volo), le scene madri e il vaudeville, l’isola che non c’è e la necessità dei punti di riferimento (“Non vivete un film!”, “L’amore vero si sente, non si recita!”, “Il prezzo della gloria è la solitudine!”). Il lieto fine chiama un letto di morte dove i riflessi del mare blu (o quelli “finti” della piscina) si cullano sulle note di una canzone, gli opposti s’incontrano con sano (dis)gusto. Il cugino impazzito di Notting Hill lascia a bocca aperta (nel bene e nel male) e fa scuotere la testa divertiti.
