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TRAMA
Ganchan e la sua ragazza Janet costruiscono straordinari robot e quando il mondo è in pericolo si_x000D_
trasformano nei supereroi Yattaman. L’occasione per una nuova impresa si presenta quando la_x000D_
giovane Shoko chiede il loro aiuto per ritrovare il padre, scomparso in Ogitto mentre era sulle tracce_x000D_
di uno dei quattro frammenti della potente Pietra Dokrostone. Ma qualcun altro è alla ricerca della_x000D_
mitica Pietra. Si tratta degli acerrimi nemici degli Yattaman: il Trio Drombo, composto dalla_x000D_
bellissima e perfida Miss Dronio, e dai suoi tirapiedi Boyaki e Tonzula. I Drombo, con l’aiuto del_x000D_
misterioso Dottor Drokobei ingaggiano con gli Yattaman una dura battaglia per il possesso della_x000D_
Dokrostone… e per il destino del mondo.
RECENSIONI
In epoca d'incessanti ricicli d'immaginario, le versioni live action di anime di culto sono espressioni esemplari della fallacia di copie rimaste orfane, ferme a mimare un originale irripetibile, pressoché intraducibile nella lingua della realtà, e costrette, nella maggior parte dei casi, a sprofondare nel kitsch di mascherate posticce e grottesche. Yattaman, tratto dal celeberrimo cartone animato di casa Tatsunoko, non solo ricade ampiamente in questa categoria, ma difetta anche del cuore necessario a tradurre il cartoon in film. Nel live action diretto da Miike vi è ben poco di vivo oltre ai pochi attori in carne e ossa, piegandosi la maschera vuota al servizio di un virtuale stilizzato e ultrapop, intento a ricalcare il modello originale per restare anime su ogni fronte, tanto nel dinamismo fasullo dell'immagine, largamente ricostruita in computer grafica, quanto nella narrazione formulare e ripetitiva, da episodio stiracchiato per il doppio della sua durata. Anziché adattare la serie originale alle dinamiche filmiche, Yattaman si dispone ossequioso in puntata-tipo, modellandosi appena in plot da fine-stagione e scimmiottando il medium d'origine nell´esibita cornice simil-televisiva, delimitata dalle fedeli sigle d'apertura e chiusura, e rilanciata, di là dai titoli di coda, dall'inverosimile prosieguo promesso per l´indomani (si sa, l'Intrattenimento si vorrebbe Infinito). La copia per il grande schermo trascrive il testo originario con precisione filologica, riprendendo con maniacale cura del dettaglio svariati brand espressivi (minuzie sonore, slogan battaglieri, gadget di scena) e riproponendo l'identica struttura di combattimenti pagliacceschi, canzoncine-burla e scaramucce sentimentali. Ideale prodotto di consumo per nostalgici allattati dal cartone, giocattolino rispettoso degli otaku più esigenti, l'intrattenimento regressivo di Yattaman assolve in pieno la sua funzione sociale: celebrativo e ancillare, lascia che sia la riconoscibilità di gag e figure a decidere della sua fruibilità, chiamando a raccolta, a suon di loghi e siparietti, le comuni memorie d'infanzia utili all'amarcord merceologico.
Fuori dall'indulgenza fandomistica, però, Yattaman si rivela men che accessorio: come se cinema e tv siano di respiro intercambiabile, Miike dilata per quasi due ore un soggetto esile, dall'intreccio più che prevedibile, provvedendo a riempire i vuoti di struttura con schegge musical e sketch slapstick da reiterare fino allo sfinimento. Il problema, va da sé, non è che il film si confessi mera riproduzione in pellicola del cartone animato (è quanto gli si chiede), ma che al di là dell'estrema fedeltà di segni e intreccio non ci sia nient'altro. Il suo stanco avvicendarsi, modulato sui medesimi tòpoi narrativi (il duplice disegno di amori non corrisposti, l'offensiva del trio Drombo, la sua puntuale [auto]distruzione), diviene presto monotono e asfittico, tutto teso a dissimulare l'assenza d'idee con musichette onninvadenti, puerili esasperazioni gestuali e dosi massicce d'edulcorante digitale. Si dolcifica il tutto nell'ovvia melassa kawaii, fatta di sentimentalismo molesto e carinerie ammiccanti, e si insiste, sommo estetismo trash, sull'anima caricaturale di un testo giá parodico (Yattaman, classe 1977,si beffava dei seriosi super robot anime á la Goldrake). Ma questa parodia², per sua natura citazionista e autoreferenziale, non sa riscattarsi nemmeno a livello spettacolare - corpi e animazione si conformano in acquario visivo automatizzato e sovraffollato (schiavitù dell´horror vacui), le riprese in interni paiono emulare lo sguardo ebete di certi studios televisivi, e il registro urlato, perennemente enfatico, riecheggia impotente nella generale mancanza di ritmo.
Arduo ritrovare in questo ricalco pedissequo e privo di nerbo la classe (pur multiforme) del maestro di Audition. Il suo estro, è risaputo, si accompagna da sempre ad un'eccezionale prodigalità, evidente tanto nell'estrema prolificità produttiva come nei numerosi lavori su commissione, da raffinare o deturpare a proprio piacimento. Non è il caso di Yattaman: in questo memorabilium ad alta vendibilità, già accolto trionfalmente al botteghino giapponese, Miike si limita a girare con pallido mestiere, illustrando senza guizzi un universo cartoonistico a lui vicino per stramberìa e gusto del paradosso, ridimensionandolo di fatto, nel suo potenziale surreal-demenziale, a chiassosa parata in costume. Solo nell'esasperazione dell'appeal erotico del cartone si può riconoscere il tratto licenzioso di Miike, occupato ad imbestialire, da buon pupillo d'Imamura, i connotati di alcuni personaggi e a punteggiare il film d'insistite allusioni sessuali - si esplicita un amplesso tra robot, s'infarcisce di doppi sensi un dialogo d'ambiguità topgunniana, s'incarica l'eroe di succhiare la coscia di una teenager e s'insudicia di vomito una scena altrimenti romantica (tra i mesti apici di comicità). Ma questi brevi passaggi, più che rimandare al genio luciferino di un cineasta dissidente, assomigliano ai tic di un maestro in decadenza, sfregi svogliati di chi è imbrigliato in un blockbuster da confezionare al meglio; in un contesto per il resto d'ineccepibile fedeltà (e d'invisibile regia), i goffi tentativi di sabotaggio impoveriscono il testo con la pretesa di pervertirlo, restano appunti vistosamente dissonanti, prossimi a (s)cadere nel pecoreccio. Con sguardo scialbo e mano pesante, Miike si disinteressa della portata visionaria della materia trattata (con una fuggevole eccezione: il sogno ad occhi aperti di Boiachi, con tutte le liceali del paese a sommergerlo in una montagna di carne)e trascura la sola idea degna di sviluppo (la progressiva scomparsa del reale, dal Fujiyama al martedì), preferendo ricorrere, dove possibile, a strappi osé che nulla possono contro la (fragorosa) povertà dello spettacolo, dove l'immaginifico invecchia presto in refrain e qualsiasi parvenza di significato è accuratamente dirottata dall'idiozia sovrana. È sì inappropriato cercare sottotesti e formalismi in un'opera dal target prepuberale, ma anche nei film per famiglie sussistono soglie minime d'intelligenza e d'inventiva; lo stesso Miike volle tenerne conto quando realizzò, con ben altro piglio e resa visiva, il suggestivo Yokai Daisenso, delizioso fantasy sugli spiriti tradizionali giapponesi. Da quest'ultimo, invece, si potrà ricavare ben poco oltre ai nuovi stampi di vecchie action figures: Yattaman cede il passo al recupero routinario e alla cacofonia del nulla, facsimile irrinunciabile per i fan dell'anime e inezia indecrittabile per gli altri. Più che un film, un (altro) esercizio di cosmetica pop.
