Drammatico, Recensione

WHIPLASH

Titolo OriginaleWhiplash
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2014
Durata107'
Sceneggiatura
Fotografia
Montaggio
Scenografia

TRAMA

Andrew sogna di diventare il miglior batterista jazz della sua generazione. Al Conservatorio di Manhattan, dove si esercita senza sosta, la concorrenza è però feroce. Andrew, poi, vorrebbe entrare nella big band di punta, quella diretta da Terence Fletcher, professore tanto inflessibile quanto intrattabile. Quando infine riesce a raggiungere il suo scopo, sotto la guida di Fletcher, Andrew inizia la sua ascesa nella ristretta cerchia dell’eccellenza dei batteristi.

RECENSIONI

Damien Chazelle, classe 1985, ha un passato da batterista, vaga base autobiografica per il progetto di Whiplash, opera seconda che ha subito il processo creativo inverso rispetto al suo esordio. Se Guy and Madeline on a Park Bench (2009) nasceva, sulla carta, come corto ed è sfociato per eccesso di materilai (e di esordiente arroganza) in un lungo, Whiplash doveva essere da subito un lungometraggio, ma per mancanza di fondi è stato prima un corto di 16 minuti, presentato al Sundance con sufficiente successo da fornirgli i finanziamenti per la versione “estesa”. Progetto, dunque, sin dalla genesi più strutturato e compiuto rispetto all’opera prima, il film sembra partire dal medesimo nucleo tematico - giovani musicisti jazz in cerca di una strada, non solo professionale - per deviare in un prodotto sostanzialmente differente, a partire dall’approccio alla musica. Laddove Guy and Madeline on a Park Bench riproduceva con la sua narrazione sincopata, i suoi dialoghi improvvisati, il suo fluire da dimensioni solipsistiche ad altre corali, una sorta di partitura jazz per grande schermo, Whiplash non è in alcun modo un “film jazz”; non è nemmeno un film musicale; e, cosa più importante, non è un film sulla musica.

La volontà ferrea e autolesionista del giovane Neiman, combinata al sadismo del docente Fletcher, fanno sì che le esibizioni contenute nel film siano autistiche ripetizioni di singole battute di spartito, reiterate fino a perdere qualsiasi orecchiabilità, pratiche muscolari che mettono alla prova la resistenza fisica dei protagonisti come quella percettiva dello spettatore. La musica sparisce nella ricerca meccanica del suono perfetto, l’improvvisazione soccombe alla furiosa smania di perfezione ritmica: il jazz è solo un pretesto per mettere in scena due anime diversamente consumate dal sacro fuoco dell’arte, unite e divise dalla medesima necessità di “essere fra i Grandi”. Lo scontro fra i due ego è il motore del film, nonché il nucleo più coerente di un prodotto che, a dispetto della sua solida idea di “purezza” dell’arte, cede a più di un compromesso artistico. Ciò che Neiman e Fletcher condividono, loro malgrado e al di sopra delle divergenze che li portano a esercitare violenza l’uno sull’altro, è la visione della disciplina musicale come forma espressiva non soggetta a compromessi né imposizioni esterne, ars gratia artis che non può essere messa in discussione in nome di convenzioni sociali come il rispetto della personalità degli studenti (per Fletcher) o il bisogno di costruire legami affettivi soddisfacenti (per Neiman). Tutto è sacrificabile, il fine giustifica i mezzi: così è nell’iperbolica, efficacissima sequenza dell’incidente stradale che non impedisce a Neiman di scapicollarsi su un palco ed esibirsi grondante sangue; così per la natura mendace di Fletcher, che plasma la realtà a suo piacimento in funzione del suo obiettivo (a partire dall’aneddoto su Charlie Parker con cui indottrina Neiman sulla necessità dei metodi “rudi”: non è vero, infatti, che Parker diventò Bird dopo che gli tirarono addosso un piatto, la vulgata vuole che il piatto fosse stato banalmente sbattuto per terra, ma la storia pare raccontata ad hoc per giustificare ciò che Fletcher ha intenzione di fare pochi minuti dopo: scaraventare una sedia in testa a Neiman per fargli notare una banale imperfezione ritmica). Il parossismo agonistico fra i due, sorretto da due prove magistrali, giunge al paradosso di sabotare proprio la bellezza della forma d’arte cui hanno dedicato ogni energia a costo della salute fisica e mentale: nel gran finale dell’esibizione orchestrale in un prestigioso teatro newyorkese, Fletcher inganna Neiman facendo in modo che giunga impreparato e senza spartito, danneggiando quindi l’intera esecuzione. Neiman risponde a sua volta trasformando il concerto in un unico assolo inarrestabile, completamente improvvisato, spettacolare quanto del tutto fuori contesto rispetto all’occasione in cui si svolge. Ed è solo in quel momento, avendo rotto ormai ogni regola e convenzione che ingabbiassero un’idea di Grandezza fuori dalla norma, che Neiman e Fletcher si guardano e si riconoscono, si alleano, per un’esibizione che non si interessa del suo pubblico, ma solo della pura esistenza della performance. Che Miles Teller (corpo attoriale in continua crescita, capace di reggere senza colpo ferire la presenza ingombrante dell’over acting di J.K. Simmons) stia realmente suonando, eseguendo in prima persona ogni brano del film, è un valore aggiunto nell’ottica del regista di perseguire un rigore di messa in scena testardamente, perfino illogicamente esibito.

Il discorso di Chazelle è cristallino, ingenuo e potente, e al contempo incredibilmente fallimentare: se fra le righe degli spartiti, fra le scie di sangue lasciate sulla batteria dalle mani di Neiman, si legge la sua idea di cinema, il risultato finale è frutto di quegli stessi compromessi che i suoi personaggi rigettano. Lo scrip diventa debolissimo ogniqualvolta esce dalla dinamica serrata fra i due antagonisti, rivelando la natura posticcia delle sottotrame dedicate alla “fidanzatina” e al conflitto tra Neiman e suo padre: elementi inseriti per aggiungere uno spessore emotivo a un concept di partenza che non prevedeva alcuna concessione alla retorica sull’importanza delle relazioni rispetto al successo, e che Chazelle gestisce maldestramente, quasi di malavoglia, rivelandone la funzione di riempitivi per raggiungere un risultato di gusto più “mainstream”. Perché Whiplash, pur essendo, in proporzione, il film col minore incasso nella storia del cinema a raggiungere la rosa per il Miglior film agli Oscar, resta comunque un’opera capace di incontrare il gusto dell’Academy, di conciliare la sua irruenza con una retorica da American Dream più consona al pubblico statunitense. Paradossalmente, per una volta sono più che meritati i premi tecnici che il film ha portato a casa: montaggio (di Tom Cross, già collaboratore in sala di montaggio per James Gray) e missaggio sonoro lavorano egregiamente al servizio di un film che, se non parla di musica, riesce spesso a parlare solo con la musica, dissezionandola e trasformandola in suono puro, materiale grezzo nelle mani degli artisti.

Film indipendente (co-finanziato dal Sundance Festival, previo promo, e dalla Blumhouse) ed in parte autobiografico (Damien Chazelle è stato batterista jazz): una sorta di catarsi per rivincita (spiegherebbe il finale sensazionalistico) che, all’apparenza, veste i panni ammiccanti di Saranno Famosi adottando la struttura tipica di Ufficiale e Gentiluomo e compagnia militare bella, con il duro sergente Gunny di J.K. Simmons (Oscar) e la recluta da formare alla legge della guerra. All’apparenza, anche il finale citato rientra nella politica del “sogno americano”. Ma c’è qualcosa di diverso prima del grande assolo di batteria (9 minuti) stile Il Concerto di Radu Mihaileanu: un prefinale amarissimo, che si rivolge a tutti gli artisti/persone che hanno avuto un sogno e l’hanno veduto infrangersi contro la realtà, insegnando che, prima del talento, c’è la necessità di formare la tempra dell’esecutore. Le due facce del film, dei suoi finali, si intercettano lungo tutta la durata: l’idea inusitata di un protagonista che si separa dal mondo e rinuncia ad amore ed amicizia per perseguire l’obiettivo artistico, si allinea con l’intransigenza del maestro (in nome dell’aneddoto per cui Charlie Parker divenne Bird solo perché Jo Jones gli lanciò un piatto contro): per quanto sia sfumato il rapporto di causa/effetto fra metodo e risultato, le “tattiche” di Fletcher sono intellegibili (ovvero “spettacolari”) fino ad un certo punto, in quanto portate al parossismo, rientranti in territori comportamentali che vanno oltre la morale comune. Ci sono, cioè, “ingredienti segreti” in un film che, all’apparenza, è ruffiano e risaputo ma, in realtà, resta impresso nell’affastellare controfinali, tensioni che non portano, appunto, alle mete immaginate. La discriminante di tutto, dei due finali possibili come del discorso sul diventare unici nella vita, è la determinazione: non quella dell’allenamento, ma quella di carattere. A volte solo con l’aiuto del destino (Andrew, ad un certo punto, rinuncia) e il tramite di figure scomode come quella di Fletcher, l’Arte, di fronte ad una dedizione oltre i limiti, trova casa al genio.