Drammatico, Duetto, Miniserie, Recensione, Streaming

WE ARE WHO WE ARE

TRAMA

Fraser, un quattordicenne timido e introverso, da New York si trasferisce in una base militare in Veneto con la madre Sarah e la compagna di lei, Maggie, entrambe in servizio nell’esercito statunitense.

RECENSIONI

CHANGES


And these children that you spit on
As they try to change their worlds
Are immune to your consultations
They’re quite aware of what they’re going through
Ch-ch-ch-ch-Changes

Una miniserie solo perché divisa in otto episodi: per la struttura, per la continuità registica (dirige Luca Guadagnino dall’inizio alla fine), per il modo in cui gestisce i tempi, WRWWR può essere considerato un film di otto ore.  Anche il suo presentarsi come un lavoro di sguardo, prima ancora che narrativo, sottrae l’opera al canone della serie: le vicende in evoluzione si muovono dietro il primo piano di corpi, sentimenti e sensazioni. Per questo la musica è così presente, quasi ossessiva: perché a fluire sullo schermo è un paesaggio sensoriale di cui il tappeto sonoro delle canzoni è parte integrante. Sotto quella superficie serpeggiano motivi e temi, ma mai sembra emergere l’urgenza di raccontare.
Che la questione sia di prospettiva ce lo dicono le prime due puntate che ripropongono lo stesso arco temporale dai punti di vista di due giovani protagonisti che si cercano senza ancora saperlo, che si annusano e si riconosceranno.
Che sia questione anche di sguardo lo sancisce la quarta puntata: ambientata in una villa che è campo neutro e spazio di libertà nella quale i ragazzi esprimono se stessi lontano dai dettami delle varie realtà nelle quali sono inquadrati o inquadrabili. Siamo in un rifugio protetto che, come ospita la vita, così accoglierà lo sfogo per la morte di un amico. In cui si parla, si dicono verità dolorose, si ama e si fa sesso, in cui ci si scopre nudi e fragili sotto l’occhio di una camera che sembra registrare la realtà. Come in un documentario osserviamo una gioventù che, esprimendo se stessa, rifugge definizioni, perché coscientemente mutante e mutevole (riguardarsi Métamorphoses di Christophe Honoré).
Adolescenza fluida, dunque. Inquadrata in un’ambientazione ibrida: un pezzetto di America trapiantato in Italia, due mondi a un passo. E dove a un passo le regole cambiano (l’esempio è banale, ma rispecchia la semplicità dell’assunto: se esci dalla base militare - scenario principale delle vicende - puoi comprare alcolici anche se sei minorenne).

La cosa che più mi ha impressionato di WRWWR è la messa in scena di un mondo chiaramente esemplare, in cui vengono rappresentati in modo dimostrativo tanti differenti modi di essere (si guardi all’intero parco di caratteri): Guadagnino sembra pianificarlo a tavolino, ma, nello stesso tempo, scopertamente, senza nasconderlo. Il contesto, per esempio, è calcolato: si isola un microcosmo, quello della base militare, che è circoscritto e rigorosamente regolamentato e lo si osserva come si trattasse di un campo di sperimentazione sociale, nel quale le dinamiche sono contenute entro un raggio molto ristretto e in continuo confronto con il “fuori”. La scelta del momento storico è ugualmente ragionata: si rimarca che si è alla vigilia dell’avvento di Trump, che il mondo tutto è a un bivio e l’incognita che esso vive è rifratta sugli adulti che “giocano” alla guerra. Questa programmaticità - tematica, temporale, ambientale - non intacca mai la leggerezza dello svolgimento, che rimane legato sempre e indissolubilmente a un piano percettivo. Mi sono chiesto che cosa rendesse possibile questo miracolo e alla fine dell’ottava puntata credo di averlo capito: non ci sono le figure tipiche del coming of age, nessuno degli archetipi a cui, soprattutto nel cinema americano, quel genere ci ha abituato; i personaggi - anche nel loro definito temperamento - non sono polarizzati, non rappresentano altro che se stessi (la soluzione, come spesso accade, era fin dall’inizio sotto i nostri occhi: sono ciò che sono). Anche le conflittualità in gioco non sono mai drammatizzate in eccesso, restano irrisolte, vaghe, come irrisolta e vaga è la gestione di certe relazioni: nessun arco narrativo isolabile, nessun percorso riconoscibile come tale. È questa approssimazione a garantire la verità di fondo: l’impianto concettuale costituisce solo uno scheletro, una linea sotterranea che tiene insieme coerentemente un complesso di situazioni che restano vive, palpitanti, in evoluzione, nonostante tutte si aggancino al tema principale, che è, banalmente, nella netta contrapposizione tra mondo adulto e mondo adolescente, la ricerca di se stessi. 

È come se questa nuova famiglia che arriva alla base (Fraser, la madre e la compagna di lei) si facesse stimolo implicito di tutti i dubbi, i tormenti, le incertezze che giacevano sotto la sabbia, che li intercettasse e li rendesse attivi - Teorema? -. Tra i teenager l’autoesplorazione è meno filtrata, più esplicita (tanto che l’intesa tra Fraser e Caitlin è incompresa e temuta dai genitori, che tentano di sabotarla), in quello adulto meno enunciata, trattandosi non più di capire chi si è, ma di ridiscutere quello che si è detto di essere o l’idea che si è avuta di se stessi. E la mutevolezza che caratterizza i personaggi, questo loro registrare il cambiamento, questo abbandonarsi al proprio flusso di coscienza identitaria, ha un preciso riscontro nel linguaggio utilizzato dal regista, che ibrida registri, ora scandendo il succedersi dei fatti, ora abbandonandosi alla mera contemplazione, ora utilizzando le note oniriche, ora rifacendosi al format del video musicale: nessuna scelta di campo, ma apertura stilistica piena, a far eco con il campo aperto della rappresentazione. Verso questa stessa direzione puntano le musiche di commento e la presenza di Blood Orange/ Devonté Hynes (a questo artista - anch’esso ha mutato identità: lo ricordiamo esordire come Lightspeed Champion - si deve forse il titolo della serie?).
Certo, l’opera non nasce dal nulla, ha referenti precisi: tutto il Gus Van Sant che pedina il tormento teen (Elephant, Paranoid Park - anche lì era questione di punto di vista: le riprese a livello skateboard -), certa Sofia Coppola (Bling Ring), gli ovvi Harmony Korine & Larry Clark (la presenza di Chloë Sevigny li cita implicitamente). Ma si fa anche interprete di un sentire, come report di gioventù in equilibrio precario, che ritroviamo da un po’ nel cinema (è solo dell’anno scorso il bellissimo Giants Being Lonely di Grear Patterson, per tanti versi collegabile a questa serie) e da un pezzetto in tanto videoclip: il docudrama più o meno allucinato di videomaker come Vincent Haycock o AG Rojas, per esempio, fino ai rovelli di Troye Sivan, artista assai consapevole, che ridiscute - continuamente e con intelligenza - termini, confini e dilemmi identitari della nazione Youth.

ABSOLUTE BEGINNERS

With eyes completely open
but nervous all the same

Perché We Are Who We Are la miniserie creata e diretta da Luca Guadagnino per Sky e HBO, è la cosa video più bella e significativa vista in questo anno sui generis? Innanzitutto perché "cosa video", nella sua genericità, è l'unico modo per definirla. Il cinema di Luca Guadagnino oscilla tra gli estremi del formalismo postmoderno, accusato con qualche ragione di scivolare nel citazionismo sterile e freddo (Io sono l'amore e, con una qualità nettamente più elevata, Suspiria), e la forma fluida ugualmente postmodern in quanto coperta da strati di cultura ma finalizzata a un'effusione che viene dall'autobiografico sentimentale (Call me by your name). È questione di gusti ma, a mio parere, Guadagnino diventa un grande regista quando si lascia andare, derivare. We Are Who We Are è l'esperimento più estremo nella direzione. Il titolo ricorsivo ricombinato in sigla, allusione da occultisti a lettere sparse,nelle brillanti soluzioni grafiche dei titoli di testa, è la prima coordinata. L'altra viene dai titoli dei singoli episodi: sempre "Right here right now" con numero crescente. Anche lo spettatore più svagato capisce di trovarsi di fronte a dichiarazioni programmatiche.
L'ambizione, soddisfatta in un modo miracoloso che confina con lo stato di grazia che già era Call me by your name, è raccontare, rappresentare la generazione Z. È stato notato che gli adulti di We Are Who We Are sono personaggi più rigidi, schematici, meno appassionanti. È vero ma è anche giusto. Loro - liberal snob e egoriferiti oppure buzzurri machisti, sciovinisti e rancorosi - sono invischiati con le loro identità definite ma tristi nello scontro di mondi con cataclisma incarnato nella campagna elettorale Trump - Clinton (la serie, molto acutamente, si svolge in quelle settimane) e nei loro disastri privati e collettivi. A contare davvero sono i giovani, un pugno di personaggi e attori indimenticabili, cominciando da Fraser / Jack Dylan Grazer. È nata una stella? La recitazione schizoide dell'under 18, fatta di tic, nevrosi, slanci e rinculi, che sta tra uno Chalamet accelerazionista e Woody Allen su TikTok, lo lascia intendere.
L'aspetto più prezioso - e raro, almeno tra i registi italiani recenti - dell'opera di Guadagnino è che scaturisce dall'amore - amore per il cinema, amore per i personaggi, i luoghi, gli attori eccetera. La co-sceneggiatrice Francesca Maineri spiega in un'intervista di aver voluto superare "la semplificazione del concetto di identità nell'era contemporanea" preferendo "porre attenzione non più sull'identità e il genere ma sul desiderio". E chiosa Guadagnino stesso: "Spero che il pubblico senta amore. Spero sentano confusione, irrequietudine (...) e spero di lasciare il desiderio di amare e essere amati". Queste le premesse filosofiche alla rappresentazione fedele e non ideologica di una generazione, sotto il segno di un tandem di pensatori purtroppo sempre più inattuali, Gilles Deleuze e Félix Guattari. Tutto fluisce, si mescola e ricombina in We Are Who We Are - tempo, spazio, identità - immerso nella sostanza eterea e motore universale che è il desiderio, nelle sue molteplici declinazioni.

Right here right now I: l'identità

La conferma più salda di missione compiuta sono i call out sulle riviste, le recensioni inviperite sui forum, le shitstorm social arrivate a tenaglia da destra e da sinistra. Se ai prevedibili patrioti è saltata la mosca al naso per i presunti affronti all'immagine dell'esercito yankee o agli altrettanto prevedibili custodi della morale non sono andate a genio certe "differenze d'età", i più creativi inquisitori woke hanno trovato "estremamente problematici" vari passaggi e in particolare considerato non ortodossa, non politicamente corretta, non edificante la soluzione della vicenda narrativa. A spaventare entrambi i gruppi in modo differente è verosimilmente l'ostinato rifiuto da parte degli sceneggiatori di ridurre a schema, di incasellare in un diagramma binario "corretto/scorretto", "morale/immorale", di giudicare. Il punto della serie è esattamente la sperimentazione libera, rizomatica, senza preconcetti o forme fisse, dell'affettività. La base NATO di Chioggia a tratti ricorderebbe curiosamente una comune californiana durante la summer of love, se solo questa non fosse un'utopia di ieri mentre la serie, con Rimbaud, dice che bisogna essere assolutamente moderni. Si tratta di provare e vedere cosa accade quando due esseri umani - il cui genere non conta niente, il cui orientamento è una bussola smagnetizzata - si incontrano. Si tratta di scommettere e ritentare finché non funziona. I personaggi incontrano varie delusioni e ripartono, sempre declinati al tempo presente. E, come nella vita quando è vera e libera, la combinazione più improbabile può essere quella giusta, con buona pace dei preti di ogni confessione. La sperimentazione, prima di muoversi verso l'altro da sé, comincia nell'individuo. I protagonisti sono patchwork - Fraser, con la sua passione per i look decostruiti, anche visivamente - freak, esclusi dal mondo normie di chi conosce bene o male il suo posto nel mondo. Cambiano identità senza volere un volto sotto le maschere come fece David Bowie - non a caso ricorrente nella colonna sonora e commovente e programmatico quando la sua voce accompagna e ritma la fuga-sequenza, cominciata a volo d'uccello, degli absolute beginners. E radicalmente si permettono l'ebbrezza del mu, della perdita del sé quando, in una delle scene più intense, persi in una periferia anonima di notte e nebbia tra Veneto e Romagna, si mettono a saltare euforici gridando "we don't exist".

Right here right now II: il tempo e lo spazio

Se identità e affettività si muovono deleuziani, ugualmente i luoghi sono eterotopie, hanno dell'onirico, dell'assurdo e dell'anywhere out of the world per loro peculiarità e per il trattamento Guadagnino che trova la forma registica. La base NATO, non esistente ma costruita ricalcando fedelmente le molte basi del triveneto a partire da Camp Ederle a Vicenza, è di per sé in un'eterotopia: un pezzo di USA trasportato di peso in un territorio completamente altro con tutti i corollari di straniamento, dislocazione psichica e precarietà esistenziale per chi ci vive dentro e i potenziali attriti con chi confina con gli "invasori". Il regista la sposta a Chioggia per poter rincarare con la laguna, ambiente queer, di commistione continua e senza soluzione di continuità tra terra e mare, acqua dolce e salata, soglia porosa per definizione, terreno instabile costantemente sfracellato, ricostruito, reinventato da correnti e sedimenti. Appena usciti dal luogo deputato all'identità (alla patria, al ruolo, al servizio) per quanto assurdo, si sbocca letteralmente su una zona grigia. È un'intuizione psicogeografica da cui viene buona parte della magia di We Are Who We Are. L'altro fattore è l'epica sconnessa degli spostamenti. Il continuo bisogno di evasione di protagonisti e comprimari si manifesta in piccole (verso il centro di Chioggia, la spiaggia, la laguna, la villa "squattata" - luogo altrui dove è quindi più facile essere il se stesso che si vuole essere in quel dato momento) e grandi fughe. Indifferentemente dal chilometraggio Guadagnino gira tutti i tragitti come viaggi iniziatici. Se il tempo degli adulti si ancora alla storia (le elezioni presidenziali e la mutazione antropologica che annunciano), il tempo dei ragazzi è fatto di presenti che si accostano e si distinguono in base al calore specifico, all'intensità. Ci sono poi almeno due fughe più sostanziali. La prima, fallita, verso l'altopiano di Asiago (luogo sovraccarico di storia e letteratura e al tempo stesso morfologicamente separato dal mondo) è la fuga d'amore che ricorda la gita a Bergamo di Call me my your name in versione meno fausta. La seconda invece coincide con la 'season finale' ed è l'epica più weird, improbabile e gloriosa che ci sia. Comincia con un colpo di mano (e con Bowie), si muove per treni, non luoghi, autostop, incontri, raggiunge la terra promessa - il concerto di Blood Orange al Locomotiv Club di Bologna, isola che non c'è, luogo e situazione di sogno dove finalmente tutte le possibilità si spalancano, niccianamente, dalla gioia alla tragedia. E poi i ragazzi si prendono la città vuota, dalla notte all'alba, quando non c'è nessuno in giro e il mondo delle forme per un poco muta in atto creativo, usano i suoi luoghi simbolo, sgombrati dalla patina turistica, come il palcoscenico di una festa galante. Le immagini, il ritmo assecondano senza peso né sforzo l'immensa, utopica libertà di un momento aurorale di adolescenza e l'infinito amore che ci scorre attraverso, nel modo torrenziale in cui l'amore può scorrere soltanto attraverso la libertà.

Se We Are Who We Are è un atto di amore plurimo, plurale, di poliamore, è anche un dialogo amoroso. Racconta la generazione ora e qui senza paternalismi, senza cannibalismi o interposte persone ma non rinuncia a cercare ponti. Nella cameretta di Fraser si vedono poster di Klaus Nomi (altro nume tutelare ricorrrente, precursore gender fluid, che viene dagli anni del regista) e di Ultimo tango a Parigi. Il secondo è inquadrato insistemente durante un dialogo intenso a proposito di transizione e riassegnazione sessuale. Dove l'inquisitore darebbe l'aut aut tra il film "scomunicato" e il tema giusto e progressista, Luca Guadagnino getta un ponte tra la sua adolescenza e l'adolescenza del 2016 considerandole entrambe preziose e fragili e degne d'amore e considerazione specifica, volendo quindi compiere un'ulteriore - ulteriormente privato e personale - connesione rizomatica. Right here right now, abbiamo bisogno più che mai di "cose" aperte, fluide, che scardinino ogni claustrofobia verso l'esterno e disarmino ogni gendarme interiore, che siano mosse dall'amore, non abbiano paura di mostrarlo e trovino la forma - al di là della forma - per lasciarlo circolare.