TRAMA
Nella Svezia dei primi ani 80, le dodicenni Bobo e Klara decidono di formare un gruppo punk e trascinano nell’impresa la timida compagna Hedvig.
RECENSIONI
Siamo a Stoccolma, nel 1982, e fra i banchi di scuola di Bobo, Klara ed Hedvig, aguzzando la vista, pare di scorgere il biondissimo Oskar di Lasciami entrare che rigira fra le dita un cubo di Rubik. Dopo aver fatto il giro del mondo, con il dramma transcontinentale e malriuscito di Mammoth, Lukas Moodysson riparte dalla sua patria e da un'epoca in cui era coetaneo delle sue piccole protagoniste: indizio che già ci parla di una partecipazione emotiva non posticcia alla materia del film. Cui si aggiunge la componente familiare: la sceneggiatura è tratta da un fumetto firmato dalla moglie del regista, Coco Moodysson, Aldrig Godnatt (“Mai buonanotte”), a sua volta largamente autobiografico (la piccola Bobo è un facile alter ego, con minimo scarto di consonanti, della punk Coco nel 1982). E delle strip stilizzate e sgraziate, maglioni larghissimi e capelli cortissimi, hanno i tratti le piccole, meravigliose interpreti di un film girato ad altezza di dodicenne e sempre dalla parte delle bambine (femministe in miniatura, inconsapevolmente: non chiamatele “girl band”, loro sono una band!). Gli adulti, quei pochi che si affacciano sullo schermo, sono più disastrati e inaffidabili delle ragazzine: dalla mamma single con girandola di partner al papà con la fissa per il flauto, sono figure comiche e disfunzionali, malgrado le quali un trio di punk in miniatura si appresta a diventare grande. Non di ribellione si tratta, ma di ricerca di un'identità: se padri e madri distratti non sono certo fonte di proibizioni per le tre preadolescenti, la loro voglia di proclamare che il punk non è morto nasce dalla ricerca della propria voce e di un modo per esprimere se stesse. D'altronde, è una logica tutta infantile quella che porta Bobo e Klara, incapaci di cantare o di suonare uno strumento, ad auto definirsi band; ed è con il fervore che solo alle scuole medie si può vivere che le due intonano il loro brano sull'odio viscerale per lo sport, l'educazione fisica, i giochi di squadra e relativo tifo. Moodysson mette da parte le ambizioni melodrammatiche e torna a raccontare un'età delicatissima e complicata come già nel suo esordio folgorante Fucking Amal, risintonizzandosi sui toni ironici di Together e lasciando il trio di interpreti libero di improvvisare e di trasportare senza finzioni davanti alla macchina da presa il contagioso entusiasmo di un’età irripetibile (e se non fosse per i telefoni col filo e gli amati vinili, potrebbe essere anche l’altroieri). Una libertà d’azione che crea una curiosa intimità con l’oggetto filmato, un po’ come quei filmini casalinghi in cui il papà lascia semplicemente la telecamera accesa con l’obiettivo puntato sulla prole esagitata; se è facile conquistare il pubblico mettendo in gioco le azioni un po’ folli e comiche dei bambini (una su tutte: il tentativo di “riprogrammare” la troppo cristiana Hedvig), il regista compie un’operazione meno semplice e lontana dagli intenti ricattatori che sempre si rischiano con la “recitazione” dei piccoli. Moodysson trasforma le creaturine cartacee della moglie in bambine in carne e ossa, e trova un equilibrio che ha del miracoloso fra la complicità con lo spettatore, inevitabilmente travolto dall’energia del trio, e quella con le sue stesse protagoniste, senza cercare di esporre il punto debole né dell’uno né delle altre. Tra gli oggetti più vitali e originali visti a Venezia 70, Vi ar bast! dà la sensazione di essere nato e cresciuto senza sforzo, l’incontro spontaneo fra tre forze della natura minorenni e la macchina da presa di un regista che passava di lì: illusione rara, che al cinema va tenuta stretta.
Sono passati quattro anni dall’ultimo film del regista svedese Lucas Moodysson, Mammoth (2009), progetto ambizioso girato in due continenti e solo parzialmente riuscito. Con We Are The Best! Moodysson sceglie l’approccio diametralmente opposto e riesce a rilanciare la propria vena creativa raccontando una storia piccola e curiosamente personale che ricava adattando una graphic novel scritta dalla moglie Coco. Abbassando la macchina da presa di qualche centimetro e portandola vicino ai suoi personaggi, Moodysson si concentra sull’amicizia fra Bobo (Mira Barkhamm) e Klara (Mira Grosin), due ragazzine dodicenni innamorate della musica punk e ghettizzate dai coetanei per il loro aspetto mascolino e il loro look alternativo. Alla ricerca di un modo per affermare la propria identità e mostrarsi al mondo in tutta la loro incantevole diversità, Bobo e Klara avvicinano l’apparentemente conservatrice Hedvig (Liv LeMoyne) e le propongono di formare insieme un trio musicale. Hedvig si lascia convincere e inizia a condividere il proprio talento di chitarrista con le due amiche, che contemporaneamente muovono i primi passi alla batteria e al basso. I coniugi Moodysson si tengono fortunatamente lontani dai cliché dei film musicali tradizionali, concentrandosi non sulla prevedibile ascesa al successo del gruppo prescritta dal genere, ma piuttosto sulla delicatezza dei rapporti personali e sul valore dell’amicizia in un’età in cui si impara più dagli errori che dai successi. Dividendo il loro tempo fra scuola, sala prove, e le rispettive residenze, le ragazze si scambiano opinioni sulla sessualità dei loro genitori, sulla religione, sui loro coetanei, e soprattutto sulla musica che ascoltano. In competizione alla mostra del cinema di Venezia e selezione officiale al Toronto International Film Festival, We Are The Best! segnala chiaramente il ritorno di Moodysson ai temi già esplorati in Show Me Love (1998) e nel più celebre Together (2000). Ma il film esibisce anche una maturità drammaturgica e un rigore stilistico superiori alle opere precedenti, confermando la voce originale del regista e il sottolineando la sua importanza nel panorama del cinema europeo contemporaneo.