Commedia, Drammatico

VOLVER

Titolo OriginaleVolver
NazioneSpagna
Anno Produzione2006
Genere
Durata120'
Sceneggiatura
Montaggio
Scenografia

TRAMA

Raimunda e Sole hanno perso i genitori in un incendio. Dopo la morte della zia Paula, Sole scopre che sua madre Irene è…

RECENSIONI

Dopo la Passione narcisistica de La mala educación, la Resurrezione della carne e dell'anima. Volver inizia come un vaudeville (la pulizia delle tombe a suon di zarzuela) e prosegue oscillando con civettuola levità fra i sapori piccanti (e non sempre paradisiaci) della farsa e la composta amarezza della tragedia classica: seguendo, come sempre, le piste occult(at)e che guidano a un dolore rimosso, il regista spagnolo realizza una ghost story sui generis che guarda al passato, da Tacchi a spillo (madri assenti, giovani assassine e scarpe fatali in salsa mélo) a Il fiore del mio segreto (la moltiplicazione fittizia dei piani del reale, il ritorno al paese natale come palingenesi), da Kika (l'attacco frontale alla pornografia dei sentimenti) a Tutto su mia madre (l'affresco integralmente femminile, con gli uomini a far da strumenti del destino o da improbabili alibi sentimentali), associando il sempiterno feticcio Carmen Maura (perfetta, al pari del resto del cast) all'esplicito omaggio ai maestri (dopo il Buñuel di Carne tremula, è la volta di Visconti).
A mutare radicalmente è il tono complessivo: il grottesco è confinato ai margini del racconto (il funerale campestre con gli uomini torvi e le prefiche sventaglianti), i personaggi sono descritti con millimetrica esattezza ma anche con totale indulgenza, le frecciate contro preti e proibizionisti sono ridotte ai minimi termini, l'elemento fantastico è affrontato con una "ragionevolezza" di sibillina coerenza (ma una dissolvenza al nero, collocata prima dell'epilogo - inutilmente? - chiarificatore, sembra indicare la riluttanza del regista a cancellare completamente ogni possibile ambiguità). Se un simile approccio può dispiacere ai fan dell'Almodóvar più infuocato, la maggiore morbidezza del contenuto non rende meno affascinante la forma, un trionfo di colori accecanti ed eclissi inesorabili (la forza plastica, e per nulla fine a se stessa, della sequenza delle "pulizie domestiche"), un mondo di trovate piacevolmente dissacranti (la tomba di Paco) e ritratti di mirabile sintesi (le solitudini simili e profondamente diverse della zia Paula e di Agustina, le clienti di Sole con il loro chiacchiericcio vacuo e rivelatore), un gioco di smisurato artificio (la canzone di Raimunda, magnifica ripresa delle parentesi musicali di Parla con lei), cornice ideale per il ritorno di un rapporto mancato. La nudità e il silenzio si addicono a questa miniatura pienamente manchega (i mulini a vento...), solo a tratti appesantita da deviazioni non propriamente necessarie (il ristoratore galante, l'orrendo salottino da piccolo schermo) e dall'alterna colonna musicale firmata da Alberto Iglesias.

A tornare è il sedicente fantasma del primo cinema di Almodovar (che in fondo è un unico feuilleton che propone anno dopo anno nuove puntate), è lo sguardo primario che alcuni pensano morto e che invece continua a colpire, nascosto sotto il letto della citazione, della costruzione inappuntabile, dei rimandi millimetrici. Il passato torna dunque in questo romanzone che è l'opera tutta dello spagnolo e non può che assumere le fattezze dell'antico feticcio del regista (l'icona Carmen Maura resuscita, letteralmente, telenovelisticamente): Irene/Carmen è la madre di Raimonda e di tutti i personaggi di questi ultimi anni, il sangue e il desiderio che furono confluiscono infatti nel desiderio e nel sangue che sono, poiché se è vero che il tempo passa è vero anche che il labirinto delle passioni porta sempre alla stessa destinazione: genitori e figli - con le loro molteplici identità - sono marchiati dallo stesso destino, in questo come in altri film. E nel connubio di vecchio e nuovo (come in La mala educacion - il miglior Almodovar dai tempi del capolavoro Il fiore del mio segreto -) il cineasta, smarcato completamente l'algore teoremico e inaspettatamente routinario dell'unico mezzo passo falso di una carriera da incorniciare (Parla con lei), si muove da gran signore della scena nella programmatica, finta sgangheratezza di un melodrammone (la compattezza è nello stile!) in cui fa parlare i morti (intendendo anche i tanti cineasti citati), balla sul confine realtà-fiction infischiandosene bellamente di entrambi e omaggia le sacerdotesse del suo Tempio-Film. Pedro dimostra di sapere sempre come far agire queste sue donne, riservando agli uomini al massimo un coltellaccio in corpo o un approccio amoroso che nasce e muore al bancone di un bar (e basterebbe lo schizzetto del giovane che flirta con Raimonda, imprigionato tra le sbarre di un soggetto che non può proprio concedergli di più, a dire della superba implacabilità dell'autore nel delimitare il campo d'azione delle pedine sulla sua scacchiera filmica). Continua dunque a impressionare la lucidità di Almodovar nel mettere in gioco il cinema, non soltanto suo, ma anche quello di cui si è sempre nutrito (la Cruz fa la Loren e la Maura la Magnani - anche se Bellissima in tv è una sottolineatura fin troppo vezzosa -), la magistrale abilità nel farne apparato vitale nell'organismo del suo lavoro, la naturalezza con la quale espone l'ineluttabile corso di un'opera che - oggi che il furore di vivere del regista pare esaurito, convertito com'è in puro furore creativo -, onorando la sincerità, non può che ri-guardarsi, riflettere su se stessa, su colui che l'ha concepita mantenendo comunque intatto il suo appeal popolare. È un Almodovar sfacciatamente artificioso e autoreferenziale quello che ci propone Volver; un Almodovar che, proprio perché così spudorato si dimostra più autentico, più vivo che mai.

C'era un tempo in cui Pedro Almodovar rappresentava uno sguardo obliquo sul mondo in grado di intercettare un sentire contemporaneo messo a tacere dalle convenzioni. Ogni suo film, anche i più sgangherati, trasudava vitalità e passione. Può sembrare uno slogan buttato lì superficialmente a posteriori, ma con le sue opere, e insieme ai suoi personaggi, "si piangeva e si rideva" per davvero. Con il passare degli anni il suo sguardo si è affinato, ma la spontaneità e il piglio ruspante hanno ceduto il passo alla cerebralità. Quasi come se il timore di dover soddisfare le aspettative di un pubblico sempre più ampio e di critici sempre più esigenti avesse in qualche modo imbrigliato la sua creatività. Sta di fatto che anche Volver, come le ultime, acclamate, opere (diciamo a partire da Tutto su mia madre) soffre di un manierismo narrativo in cui è il calcolo a dominare la scena e dove il tragico carosello di varia umanità passa senza lasciare particolare traccia. Le solite donne forti e volitive devono vedersela con uomini assenti o spregevoli, meritevoli al massimo di una poco più che comparsata. La famiglia è il luogo da cui tutto parte e a cui tutto ritorna. Non mancano inoltre alcuni topoi del regista spagnolo, come la solidarietà femminile, la prostituta dal cuore d'oro, la marijuana, la critica alla televisione, oltre agli omaggi (Penelope Cruz come Sophia Loren) e alle citazioni (Anna Magnani, icona di tutte le mamme, bravissima ma basta!!!). Il melodramma che ne viene fuori, pur nella consueta cura formale con cui Almodovar cerca il bello in ogni inquadratura, arriva perciò raggelato, incapace di scaldare i cuori nonostante tutto accada. Sembra più di assistere a un teatrino artefatto e ponderato al millesimo che al flusso casuale della vita. La scansione degli eventi si mantiene leggera, ma colpi di scena, omicidi, malattie e confessioni si succedono nell'indifferenza. La mancata (o eccessiva?) misura deriva da una sceneggiatura calibrata ma contratta e da una regia formalmente ineccepibile ma incapace di affrancarsi dalla razionalità. Le interpreti si danno con convinzione ma non sempre paiono adatte al ruolo: la Cruz è troppo sofisticata per il personaggio di Raimunda e Lola Duenas, utilizzata sottotono, spreca il potenziale comico in un'unica espressione di smarrimento. Si finisce così per non ridere e non piangere, ammaliati da un'atmosfera caliente e ineluttabile che promette senza però riuscire a trasformare il grottesco in sferzanti tracce di vita.

Pochi registi come Almodóvar hanno saputo far accettare le proprie ossessioni al gusto di massa garantendosi una statura autoriale immediatamente riconoscibile. Rovescio di questa medaglia è la rocciosa fedeltà del pubblico a una determinata poetica; poco importa se i film della nuova maniera – più o meno slegata dall’antica, a volte in aperta polemica con quella – coprono un arco di tempo equivalente e un numero di film non di molto minore: sempre si odono lamentele sul fatto che il grottesco e il surreale, un tempo felicemente ridondanti, fanno oggi capolino come ingredienti fra molti, in una miscela ove il peso maggiore va alla malinconia, all’amarezza, a una concezione non più solare ma oscura della passione.
Ombre sempre più fitte si addensano in effetti nel cinema del manchego, ed egli le abbraccia con ammirevole determinazione. Quando si sente libero da soverchianti istanze d’inflazione narrativa e di turgore drammatico dispiega i toni uniformi, cechoviani della sua commedia umana, altrove offuscati dalle intemperanze diegetiche o dal disegno fosforescente dei personaggi: il coro policentrico; le beghe e gli intrighi frammentari; la ritualità – funerali, riunioni di famiglia, feste, scampagnate – quale snodo rivelatore di un’umanità scontrosa, appassionata, sofferta; la mescolanza dei generi spinta al punto da rinnegarli; il tempo che deteriora ogni cosa e insieme la eterna in memoria inesorabile; il paradosso quale regola del vivere; gli accenti quasi distratti della satira; il quotidiano e l’ironia a neutralizzare il tragico.
In un contesto tanto curato ma poco appariscente (nei primi minuti del film, senza dare importanza a nessun elemento in particolare vengono stabiliti in un fluire di luoghi, atmosfere e conversazioni i temi conduttori e i caratteri e le relazioni dei personaggi), il peculiare epos almodovariano scivola sempre più nella poesia del consueto: i fantasmi si nascondono sotto i letti, interrogativi decisivi sono agitati mentre ci si tinge i capelli, la vita e la morte vengono fronteggiate mentre si pulisce la casa, si accudisce una malata, si sbuccia una pera. Coerentemente, al pathos un tempo fiammeggiante della sua poetica Pedro mette oggi la sordina; sono emblematici il tono asciutto con cui viene presentato il tema della malattia – anche grazie alla continua antifrasi dell’aspro rapporto di Agustina con Raimunda – e quello dolente della rivelazione finale. Pure il grotesque subisce una sorte simile, ogni suo accenno spento in un duro realismo: si pensi alla scena della trasmissione TV, che ha suscitato al regista accuse di fiacca ripetizione di se stesso. Se non è la prima volta che egli accusa la trash-TV, qui si avverte un decisivo spostamento dell’attenzione dalla volgarità alla disumanità; il concentrarsi sugli sguardi delle protagoniste, che dialogano con quello ferito di Agustina, è il controcanto a quella gogna, e non si può ridere né col suo pubblico né di esso, ma solo accogliere come una liberazione il gesto silenzioso che ne spezza il giogo.
Per quanto s’è detto, Almodóvar davvero non ci sembra un autore a corto di idee che ricicla stanchi frammenti della sua arte. Piuttosto, l’ha trasformata lentamente fino a rovesciarla; il vitalismo fatalista e dionisiaco (in nome del quale bisognava accettare, con scandalo dei benpensanti, incesti stupri e omicidi) con cui raccontava la potenza della passione è oggi foriero di sciagura; così, non solo il mélo diventa reticente – le scene madre sono annegate in un timbro cinereo o trascurate in favore del trasporto di frigoriferi e cadaveri, dei conti della spesa, della cura meticolosa dei defunti e provvida dei vivi – ma la sensualità deve essere ostracizzata perché affetto e solidarietà e allegria e costruttivi rapporti abbiano spazio.
Una concezione drastica, senza dubbio. Il desiderio ignora la fedeltà, diserta le promesse, nega la soggettività dell’altro; il sesso è violenza, inganno, meccanica umiliante, penosa routine, ed è quasi sempre associato a una maschilità sopraffattrice od ottusa. Quando i maschi conducono il gioco, si rendono responsabili di ogni nefandezza: qui come in Tutto su mia Madre o in Parla con Lei; ne La Mala Educaciòn, il corto circuito dell’elemento maschile dovuto all’omosessualità conduceva poi al tetro trionfo del sadomasochismo e della morte, inferta interminabilmente fin dopo la morte stessa, e senza che la sublimazione dell’arte riuscisse a spezzare quel vortice infernale.
Simmetricamente, progredisce l’idealizzazione di un universo femminile che amministra la giustizia (anche irrogando la pena di morte) senza restare schiavo dell’odio (la tomba lungo il corso del fiume), rispetta la tradizione ma non vi edifica pericolosi sofismi, si adegua al cambiamento e coglie il volo delle occasioni; universo dal quale la sensualità è bandita. L’immagine del seno della Cruz mentre lei lava il coltello col quale sarà ucciso il marito, dice di una femminilità generosa ma che ha scartato eros e scelto agàpe; è solo il nostro sguardo, come quello del giovane della troupe cinematografica, a proiettarvi il proprio desiderio famelico. La citazione del film Bellissima è in questo senso significativa: si è scelta l’inquadratura in cui la matura femminilità della Magnani, resa saggia dall’esperienza, trova serenità nell’ambiente famigliare purgato dalla vanità e dalla gratificazione erotica, e riconciliato nella cura parentale.
La social catena; le radici; il ritorno; la riconciliazione: sono temi decisivi del “secondo” Almodóvar, qui esposti in una summa che si arricchisce di una nota dominante: il confronto coi morti, con la morte. La tinta funebre già distesa su Parla con Lei, che la trama noir de La Mala Educaciòn accentuava quasi con livore, in Volver è quieta disperazione, lo scioglimento drammatico solo apparentemente recando il sollievo che lo spettatore anela.
“Sono sola, come sempre”, “Come ho fatto a vivere tutti questi anni senza di te?”: confessioni di ciascuna figlia alla madre rediviva, materializzazioni di un sogno inappagato. A un primo livello di lettura il fantasma non è un fantasma, ma da tracce visive (la dissolvenza a cui accenna Selleri, la luce di cui è bagnata l’ultima apparizione) e verbali (l’insistenza sul “sogno”; l’ultima battuta) il film si rivela una seduta medianica che sfocia nel compianto: Almodóvar conversa coi morti, ma il dialogo e la riconciliazione che essi consentono sono autoinganni consapevoli. Solo un tenue velo, oggi, separa l’autore dalla vertigine in cui sprofonda il dolore.