Get By dei Delta Heavy è lo stop-motion che ci piace tanto. Robertson dirige e anima.
Sean Pecknold (parliamo dell’autore, tra gli altri, di White Winter Hymnal e The Shrine/ An Argument per i Fleet Foxes e di While You Wait for the Others per i Grizzly Bear, ad oggi il suo capolavoro) firma per gli Here go Magic How Do I Know; il lavoro mette a confronto la sua ricercata concezione visiva (studiata composizione dell’inquadratura, iconizzazione iperrealistica, ruolo predominante del colore, estetica vagamente pop) con una narrazione anticonvenzionale e fantasiosa. Studio allucinato sul paesaggio americano e sulla sua umanità, con elementi che oscillano tra Wenders e Lynch, il video è un saggio dell’abilità di Pecknold, un regista che distilla sempre le sue prove e che lascia puntualmente il segno.
Voto: 7.5
Ninian Doff, ancora per Graham Coxon, in uno dei suoi saggetti artigianali, con gli abiti che ballano da soli nel corso del video performance Ooh yeh yeh che si adegua alla situazione, fino al finale che materializza l’ubriacone che abita il danzante vestiario. Ancora un semplice campionamento di singoli frame, come nel precedente, che creano l’effetto principe, la ragion d’essere della clip. Doff conferma una poetica visiva votata al fiero pauperismo.
Voto: 7
Metaperformance #1
E mentre la volta scorsa ci si lamentava della loro perdita di smalto, ecco che tornano i Daniels più grandi. Entrambi i nuovi video prendono la performance come base e sostanza stessa della narrazione: operarne la contestualizzazione all’interno del progetto-clip è ciò che i due registi, più di tutti gli altri, continuano a porsi come una sfida, affrontandola con soluzioni diverse e dagli esiti differenti. In Houdini, per Foster The People la morte accidentale del gruppo determina la necessità di mettere sul palco i loro cadaveri opportunamente manovrati da maschere invisibili. Ne nasce, sul fondamento della prestazione musicale come oggetto mediatico, una riflessione acutissima sulla fascinazione divistica e sul conseguente riflesso condizionato del pubblico. I Daniels stessi appaiono nelle vesti dei registi, cosa che avviene sempre più spesso (vedasi anche il video successivo) affermandosi oramai come director-star che non impongono soltanto il loro progetto e i loro ritrovati, ma la loro stessa firma con effigie incorporata.
Voto: 7.5
Metaperformance #2
Il secondo video è per i Teniacious D di Jack Black. Rize of the Fenix è un caleidoscopio di trovate in cui, attraverso l’effettistica artigianale tipica del duo – in questo caso messa a nudo con svisate volute e difetti ostentati – si ironizza ancora sul format del video-performance (incorporando di conseguenza quest’ultima), immaginandone una esagerata e fallimentare che finisce in caciara e viene conseguentemente interrotta e ripudiata. Partendo dal film flop del 2006, Teniacious D e il destino del rock, il video, inscenando l’ironico confronto del gruppo coi propri fantasmi, innesca un meccanismo di entrata e uscita dal teatro della rappresentazione, con coda finale parossistica e nessuna battuta d’arresto. I registi apparecchiano quindi una nuova opera a strati in cui tutti gli elementi risultano perfettamente motivati ed esaltati, mantenendo un’estrema coerenza con la linea musicale. Daniels in gran forma, insomma: di nuovo tifosi.
Voto: 8
E a proposito di performance cosa dire del sacrosanto sbarco in video di Lost in the world, la rivisitazione-capolavoro di Kanye West di Woods di Bon Iver, che un video sbagliato avrebbe facilmente compromesso? West codirige con la visual artist Ruth Hogben (e la collaborazione di Nick Knight) una clip strepitosa: pochi elementi, bianco e nero lucente, coreografia e corpo di ballo in dettaglio, rappresentazione stilizzata della metropoli, un pugno di squarci visivi paradisiaci, una scarica di sovrapposizioni a screziare il climax e il rapper che ci canta su (letteralmente: nell’alto dei cieli). Non tenta neanche per un attimo il ghirigoro Kanye West, sta fermo e deciso sul pezzo, senza sbracare un secondo, utilizzando specchi e corpi, movimenti ed espressioni e consegnando un’opera di grande freschezza che lo conferma artista grande in ogni senso.
In loop, con godimento.
Voto: 8.5
Già tra i registi del 2012, AG Rojas sforna video a ripetizione e tutti di alto livello; questo Ivory dei Congorock conferma in pieno poetica e visione, con la rappresentazione di quella che sembra la giornata tipo di un ragazzo umanamente sbandato; tra pillole, corse di motocross, sesso e vario pigro girovagare, il suo percorso culmina in un inseguimento, ultimo brivido prima della nanna. Inquietante per lucidità e impressionante per capacità descrittiva, il video, attraverso il superbo lavoro di montaggio e fotografia, si pregia dei consueti, splendidi dettagli che conferiscono forza e convinzione alle immagini, muovendosi, ancora una volta, su una linea delicata in cui l’esasperazione del ritratto adolescenziale non sconfina mai nella parodia o nel grottesco.
Sogno un suo lungometraggio.
Voto: 8
Prolificissimo in questo 2012 e sempre da seguire, Andreas Nilsson prosegue il suo sghembo percorso: ancora alle prese con le sue comunità strampalate, si muove sul filo del grottesco senza mai superarlo e ci mischia la sua malattia. Quello messo in scena per i Van She, in questo Idea of Happiness, è un esempio emblematico del suo colorato weido world, popolato da figure fuori da ogni canone che operano in una dimensione inquadrata sì realisticamente, ma di marca fumettistica e alternativa. Con String Emil, su cui è bene informarsi per comprendere bene la labilità di ogni confine.
Fotografia mirabile di Jallo Fabre.
Voto: 8
Quello del belga Joe Vanhoutteghem con The Hickey Underworld (Blonde fire per tutti) è oramai un felice sodalizio. In The frog lo stile riconoscibile del regista belga è al servizio di una narrazione che prevede quattro frazioni uguali in cui una stessa situazione continua a ripetersi, mentre a cambiare sono solo i protagonisti, in quello che sembra un ciclo destinato a rinnovarsi in loop e che invece si scopre terminare. Ambientazioni squallide, protagonisti sbandati, situazioni borderline, idee molto forti e nessuna considerazione per i canoni censori sono oramai le cifre di un regista particolarissimo (si vedano anche gli imprevedibili ads), che ha dimostrato di avere tutte le carte in regole per il grande salto nel cinema.
Voto: 8
E arrivò anche il secondo video di WoodKid, attesissimo e annunciato da tanto di teaser, dopo l’acclamatissimo Iron dell’anno passato. WoodKid, ricordiamolo, non è altri se non lo stesso Yoann Lemoine, artista poliedrico che alterna la sua attività di regista con quella di musicista e che dirige anche questo Run Boy Run. Il video si presenta come un seguito, non solo ideale, del precedente, di cui ripropone uno dei protagonisti, le soluzioni visive e sceniche (set artificiale con figure in movimento costante, retroprojection e sovrapposizioni, ralenti estatico, esaltazione del dettaglio, bianco e nero magnificato dall’HD, dimensione atemporale – tra passato, presente e futuro -) in una chiave stavolta più virata sul fantasy esplicito e sull’onirico spinto (le figure mostruose che accompagnano la corsa del piccolo protagonista). Come in Iron, la clip presenta una corsa in avanti e va in accumulo di elementi in un travolgente crescendo che non lascia indifferenti, anche se il risultato finale, pur di altissima fattura, è meno equilibrato ed efficace del suo predecessore. Lemoine conferma il suo occhio, ma, quando si consegna alla formula risulta sempre un po’ trattenuto dal calcolo.
Il concept è servito, ci sarà sicuramente un seguito; lo attendiamo.
Voto: 7
Dirigido por.
Canada, sempre nostalgico e citazionista, dirige Brillar per Pegasvs: il gioco del collettivo spagnolo è oramai noto, ma pur nell’ambito di un campo delimitato in maniera netta, continua a svilupparsi in modo felice e mai ripetitivo, anzi questa specie di Excalibur in acido è uno dei loro pezzi migliori, un evidente low budget che si fa cavalcata visionaria, sfrenata eppure ponderata affermazione di poetica, attestazione autentica di un’ascendenza che in questo momento molti operatori del settore si affrettano subdolamente a rivendicare. Con quest’ultima clip i Canada ci dicono due semplici cose: noi lo abbiamo fatto per primi, noi continuiamo a farlo meglio di chiunque altro.
Voto: 8
Producido por.
E quasi a ribadire il primato con i fatti il collettivo produce per i Keane Disconnected. Gli autori del film The Orphanage, il regista Juan Antonio Bayona e lo sceneggiatore Sergio G. Sanchez, assemblano un falso d’autore, un horror italiano d’antan, contenuto in un vhs (il video comincia con un avviso contro la pirateria), con tutti i difetti di vetustà e di grana del caso, di rigore quasi filologico (trama, scelta delle ambientazioni, design, look, modalità di ripresa, inquadrature). Gli anni 70 hanno i loro cantori indiscussi che vantano innumerevoli tentativi di imitazione.
Voto: 7.5
Essere una boy band nella Corea del Sud oggi: Fantastic Baby dei Bigbang, diretto da Seo Hyun Seung, filtra gli standard occidentali in una felice e carmellosa orgia di look pride anni 80 e coreografie sincronizzate anni 90. Cliccatissima (il gruppo è una miniera d’oro) lezione di marketing creativo: ventiquattro ore di ordinarissima patina e innocuo soft-core della cloroformica MTV non valgono dieci secondi di questa clip, tanto tamarra quanto curata.
Voto: 7
Isaac Rentz lancia un ironico appello a smetterla di abusare dello slow motion, ma quando quest’ultimo è circostanziato e pieno di senso come nello splendido Postcards from 1952 degli Explosions in the sky, diretto da Peter Simonite e Annie Gunn, è difficile stargli dietro. I pezzi di memoria sono istantanee di momenti minimi che ricostruiscono un mondo di situazioni, rievocano stati d’animo e riaccendono le atmosfere del passato. La poesia riposa nel dettaglio, l’evocazione nostalgica risuona alta, senza un’ombra di ruffianeria, nelle stanze della vita quotidiana: il ricordo è una bolla di sapone che scoppia. The tree of life cresce in piena sintonia col brano musicale.
Giù il cappello.
Voto: 9
– Superbo Cyrus Mirza, con la consueta produzione Thulsa Doom; l’inquietante Lacrimosa per gli Helium Robots spacca [foto].
– Remy M. Larochelle e la sua animazione: We Cut Corners dei The Male Mind è fuoco d’artificio.
– Yoonha Park, tentato dalla videoarte, non ha paura di confrontarsi con una delle icone degli anni 80, la pretty woman di Julia Roberts, in Sinful Nature dei Bear in Heaven.
– Variazione sul tema (Karate Kid + Double Dragon) per il video dei Temper Trap Need your love: tra anni 80 e anni 90 Dugan ‘o Neal, ironizza e cita, con il sempre scintillante stile visivo riesce a farci dimenticare la brutta canzone.
– No.1 Against The Rush dei Liars, per la regia di Todd Cole, ripropone il tema del serial killer: la metodicità di un uomo in apparenza inappuntabile che si scopre feroce cacciatore di prede umane. Ben realizzato, ma un po’ convenzionale.
– Si scompongono gli elementi (della band) in un tripudio di fiori nel video dei Last Days of 1984, River’s Edge, per la regia di Sophie Gateau.
– Siamo in pieno Video Marsh-style: Rained the Whole Time di Shlohmo, nel remix di sua maestà Nicolas Jaar. Visione allo stato puro, combine, di straordinario equilibrio, di suono e immagine. Un capolavoro, probabilmente.
– Delude invece il nuovo video di Grimes: Nightmusic, diretto da John Londono, è una bjorkata senza averne l’afflato.
– Tre storie si alternano, tra Rio, Los Angeles e Tokyo nel video diretto, con la consueta forza visiva, da Vincent Haycock per Calvin Harris. In Let’s go la giornata di tre coppie comincia e culmina nello stesso modo.
– Honeysuckle dei Xiu Xiu, diretto da Amir Shoucri, è un allucinato e molto riuscito ritratto di una routine quotidiana in forma di incubo ad occhi aperti che si manifesta in parentesi visivamente disturbanti, tra mele che sanguinano e pesci che boccheggiano.
– Christian Larson in Timebomb porta Kylie Minogue fuori dal set della performance per un trip visivo eclettico ed avventuroso che mescola l’adrenalina di Akerlund alle pop-pate di Madonna.
– Il mondo colorato di Jonas & François esplode in magnifica danza in Express yourself di Labrinth.
– Non si soffoca più a tavola, con la pubblicità progresso sponsorizzata dai Sigur Ros di Ég anda, diretto da Ragnar Kjartansson. Un grande bah.
– Ci si diverte invece sempre un sacco con gli Hot Chip: Night & Day, diretto da Peter Serafinowicz, è un racconto sci-fi in salsa B-movie, con tanto di coreografie demenziali e la presenza di peso di Terence Stamp [foto].
Che nel regno di Kanye West il video di Gavras per M.I.A. fosse molto piaciuto ce lo aveva detto Twitter (West lo aveva pubblicato in pompa magna, Rihanna si era spesa – my new favourite shit! -) ; se a questo si aggiunge l’interesse maniacale del rapper per tutto quello che suona à la page ed artistico e l’ansia di applicarlo al suo percorso, le conclusioni diventavano intuibili: dunque la notizia che a dirigere No Church in the Wild sarebbe stato proprio il regista franco-greco non ci ha colto di sorpresa.
Girata a Praga, la clip è un Gavras ad alto budget, ma con carta bianca e nessuna restrizione: dopo la parentesi di Bad girls (capolavoro, unico caso della sua carriera di video-performance) il regista torna allora al suo tradizionale racconto per immagini (bando alle star che mimano il canto – e trattandosi di presenzialisti del calibro di Kanye, Jay Z e Frank Ocean non è dettaglio secondario -) e alle sue costanti della violenza urbana e del conflitto sociale (oddio, un nuovo riot porn, ancora la violenza estetizzata… – si dirà -): lo fa con un lavoro tutto in ralenti che, nella sua sontuosa progressione, appare come un riassunto ultimo di una poetica assodata (la conferma proviene dallo stesso autore che parla apertamente di una trilogia conclusa).
A un impianto visivo al solito poderoso (la fotografia è di Mattias Montero), con riferimento diretto al globale disagio e alla situazione contemporanea (anche quella della Grecia su cui l’autore, figlio di tanto padre, si è più volte espresso) che rende nulla la storyline (come a dire: la storia la conoscete), Gavras infonde le sue incendiarie intuizioni.
E allora questo duro combattimento – che si prolunga dal giorno ad una notte illuminata come una discoteca – diventa un happening sanguinoso orchestrabile all’infinito.
E allora l’osservazione da parte delle statue-divinità di questa guerriglia, raccontata per icastici dettagli, ammanta gli eventi di un senso di ineluttabilità, conferisce loro una sostanza tragica davvero toccante.
E allora quell’elefante finale, incongruo e drammatico, si afferma come il segnale dell’apocalisse di una civiltà, immagine fortissima che stupisce e spiazza, che lascia nei nostri occhi un segno indelebile.
Voto: 9
John Harris
Report Digital (1984)
L’era dell’elefante.
Human being to the mob
What’s a mob to a king?
What’s a king to a god?
What’s a god to a non-believer?
Who don’t believe in anything?
Will he make it out alive
All right, all right
No church in the wild
No church in the wild
- Fleur & Manu ancora felicemente per M83. Il secondo atto: Reunion. La prima parte era Midnight City.
– Harmony Korine per The Black Keys: Gold on the ceiling è entusiasmante.
– Ancora Lorenzo Fonda al servizio delle Scissor Sisters dopo il deludente Only the Horses. Questo Baby Come Home consta di un'idea sola, ma molto ben realizzata e a servizio efficace del brano.
– David la Chappelle non si limita a imprimere il suo riconoscibile marchio su Spectrum di Florence + The Machine, fantasia camp assai brillante, splendidamente coreografata da John Byrne (non nuovo alle collaborazioni col fotografo-regista): un lavoro che si chiama il repeat a oltranza. A qualcosa servono i gridatissimi e pomposissimi brani del secondo album dell'artista, dunque [foto].
RG – Stress, il video che avevo fatto per i Justice tre anni fa era stato molto visto. E’ interessante: tutti dicevano “Questo video fa schifo, non lo guardate” e tutti andavano a guardarlo… Ho importato la violenza sociale nell’immaginario di un gruppo techno di base piuttosto depoliticizzato.
RG – Born Free era stato cancellato da You Tube dopo cinque giorni a causa della sua violenza (…). Al di là dell’orgoglio da stronzetto di farsi censurare da You Tube, la questione che si pone è quella di un’epoca che censura un videoclip, dunque una finzione, quando poi è possibile vedere l’impiccagione vera di Saddam Hussein.
RG – Se tu consideri il video come un mezzo per vendere un album, allora sì, Stress e gli altri miei video possono suscitare delle critiche. Soprattutto se non si vedono in essi che delle immagini scioccanti. Ma per me il video è un fine in sé, non un mezzo, e ci metto dentro molto ego.
Amo il video come forma e so che continuerò a girarne, sempre.