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V|M_06/11 | Albertin, De Thurah, Daughters, Megaforce, Salier, Canada, Raz, Gavras, Stahl, Haycock…

Un vero e proprio dream team in questo mese videomusicale.
Torna Jaron Albertin con Changes per The Stars: il video è aperto da un conferenziere che discetta sull’estinzione della religione e il graduale tramonto della fede, di come la modernità stia inesorabilmente rigettando l’idea di Dio, su come gli unici angeli che si sente la necessità di invocare siano Onestà, Ragione e Amore e gli unici demoni da temere Cupidigia ed Odio. A seguire una donna entra nel grosso teatro (è il Winter Garden Theatre Centre di Toronto) e, improvvisamente nuda, ne percorre l’interno fino a raggiungere il palco: danza. Il video, molto semplice, è straordinariamente aderente al brano (una specie di dilatata True Blue di Madonna) e sembra delineare un parallelo tra i cambiamenti epocali di cui si è appena discusso e i cambiamenti della persona (alla donna cresce una coda e cammina carponi), di come questi vengano recepiti e di come rendano necessario e naturale l’adattarvisi. Albertin è al solito magistrale nel suo esprimere una realtà e confrontarsi con essa attraverso l’immaginazione, mirando a rivoltare l’esistente, ponendo questioni su di esso e conducendo lo spettatore a fare altrettanto.Voto: 8
Martin De Thurah prosegue la sua collaborazione con James Blake dopo l’exploit di Limit to your love e, in Lindisfarne parte da un presupposto più limpidamente narrativo: la protagonista si sottopone con degli amici a un rito che sancisce la loro profonda unione e che sembra fungere da auspicio per la partenza della ragazza che avverrà l’indomani. Girato in una sola nottata nei sobborghi berlinesi, il video di De Thurah si sofferma su volti ed espressioni, restituisce attraverso dettagli minimi l’intimità che lega i ragazzi coinvolti e riesce, con pochi elementi, a far emergere il senso e la gravità della situazione, lasciando al performer il ruolo di marginale testimone invisibile. De Thurah ha affermato che la musica di Blake lo sfida ogni volta a a concepire delle idee adatte, perché è talmente intima ed onesta, talmente “piena”, da far sembrare del tutto superfluo il creare qualcosa di bello per essa. Voto: 7.5
Splendido bianco e nero (fotografia di Martin Ruhe) per la versione video dello Stargate Remix (di cui, peraltro, nessuno sentiva la necessità) di Personal Jesus, occasione che riporta il regista Patrick Daughters sulla strada dei Depeche Mode, dopo l’acclamato Wrong: ambientazione medievale, caccia alle streghe, il popolo che trascina la ragazza al fiume per annegarla e il miracolo che la fa risorgere dalle acque, tra lo stupore generale. Segue una pioggia mortale che investe i superstiziosi.
Il trio parigino Megaforce non delude mai: in The Greeks dei Is Tropical il gioco innocente dei bambini simula le spietate gesta dei grandi e l’animazione – in postproduzione – anziché enfatizzare il divertimento e il sollazzo infantile, come ci si aspetterebbe, ne sottolinea il dato truce.
Edouard Salier ribadisce la sua cifra kolossalista e catastrofista e per Civilazation, dei sempre in vogue Justice, mostra il crollo dei grandi simulacri della civiltà, in un pianeta dove della razza umana non sembra più esserci traccia. Un’orda di bisonti percorre le lande oramai desolate mentre i moloch iconici si disintegrano (con una probabile strizzata d’occhio a Il pianeta delle scimmie): come in Splitting the atom dei Massive Attack, Salier punta sulla modellistica e la sofisticata post produzione in digitale e il risultato è a dir poco poderoso, culminando in un finale ambiguo che forse sottintende l’avvento di una nuova civiltà con il suo ciclico carico di nuovi miti, anch’essi destinati a morire. Voto: 7.5
Dopo i bei video per El Guincho e le Scissor Sisters, tornano i Canada (Luis Cerveró, Nicolás Méndez e Lope Serrano – che si dilettano, lo abbiamo visto, anche in opere individuali -) con ben tre video, tutti di grande impatto e che confermano il collettivo barcellonese come uno dei più interessanti in circolazione. Da goderseli tutti questi Ice cream dei Battles (voto: 7.5) [foto], All’s white dei Vaccines (voto: 7.5) e Holy Ghost dei White Lies (voto 6.5).
E torna anche Roy Raz, dopo lo splendido The lady is dead, sulle note di In this shirt degli Irrepressibles (V|M, dicembre 2010): I won’t let go dei Monarchy e Lonely Lisa di Mylene Farmer ripropongono l’assurdo mondo ultrastilizzato del regista, popolato da personaggi-modelli in interni sofisticatissimi e in esterni fortemente artificializzati; se il primo illustra la costruzione chirurgica di un corpo femminile, alternandola a enigmatici tableau vivant che ibernano i performer e a scorci outdoor che culminano in una meravigliosa pioggia di tazze, il secondo presenta una più tradizionale esibizione cantata, ma riscattata dal suo incastonarsi in una serie décalé di trovate visive di elevatissimo effetto, figlie di un mondo pubblicitario ” a parte”, quello dei profumi – irreale, levigatissimo, a metà strada tra Mito e Fiaba [foto] -: vi si aggiunga l’ultraestetica di Matthew Barney, la si mescoli alla glaciale postumanità di Chris Cunningham e si serva il tutto in un abbagliante delirio fashion. Inutile cercare di capire, si goda senza senza porsi domande. Voto: 7.5
E’ assolutamente il caso di segnalare l’ultima creazione di Romain Gavras, anche se non strettamente legata al mondo videomusicale: in Boxing, spot per l’Adidas, lo sguardo dei ragazzini si posa sul cruento, ma leale confronto sul ring di una palestra di periferia: è geniale la scelta del commento musicale, la hit L’amour et la violence di Sebastien Tellier, il cui testo si adatta perfettamente a spiegare la passione dei ragazzi per uno sport e per la sua maschia competizione (Dimmi cosa pensi della mia vita/ della mia adolescenza/ dimmi cosa pensi/ amo anch’io l’amore e la violenza). Gavras elimina qualsiasi coolness dalla griffe (mostra sudore, sangue, fatica) ed è abile come nessun altro a scartare la realtà, non tentando di riprenderla, ma ricostruendola, riproducendola, facendo passare il suo artificio come un exploit naturalistico: così costruisce un microracconto, presenta prima i personaggi e poi li porta tutti dentro e attorno al ring. Tira le fila. Poco meno di due minuti, ma che potenza. Voto: 8.5
Ha un’identità sempre più forte e personale il mondo creativo di William Stahl: più che tradizionali video i suoi sono lavori legati a filo doppio a una narrazione che si afferma come elemento predominante. Quella di No room for mistakes dei Murder è quasi tutta di parola (sceneggiatura di Michael Vogt), per quanto muta e sancita dai sottotitoli, senza paura di
1) rendere ignorabile il brano, concentrati come si è a seguire l’evoluzione di una storia misteriosa;
2) rendere il video poco rivedibile, posto che si fonda tutto su un racconto che, una volta conosciuto, non può più rinnovare nello spettatore l’interesse ai suoi sviluppi.
Due punti che, a ben vedere, finiscono con il sorreggersi l’uno sull’altro: quello che non hai fatto la prima volta (ascoltare il brano), puoi farlo comodamente la seconda, per scoprire, guardando con attenzione la clip e non limitandoti a leggere i sottotitoli, che essa è davvero ben girata e formalmente assai interessante, in quell’incrocio glaciale tra sottile autoreferenzialità e assurdità coeniana: un’esperienza creativa molto coraggiosa e poco sperimentata, aggravata (si fa per dire) dall’incipit e dalla fine a schermo nero. Piccole cose, fatte con grazia, lasciate nude, ma senza morbosità. Voto: 7.5 [foto]
Dell’accoppiata Stahl-Vogt, la stessa che ha firmato la mise en abîme di Mother di Bon Homme (V|M, Video dell’anno 2009/2010), opera che conferma il dato del racconto surreale in primissimo piano, è uscito anche il secondo capitolo della collaborazione con i Whomadewho, dopo il bellissimo Keep me in my plane: la labilità delle sicurezze del mondo borghese, la distanza tra benessere economico e spirituale, sono narrate con implacabile quanto asettica disperazione anche in Every minute alone.
William Stahl, insomma, è qualcosa di più di un nome da tenere d’occhio, è una nuova esaltante realtà nel mondo videomusicale.
Tre teppistelli, in una squallida e deserta periferia, forzano la portiera di un’auto e vi penetrano. Ma la radio comincia a funzionare da sola (parte il brano, volume 47), scattano le sicure e qualsiasi via d’uscita è preclusa: devastate dal suono, le orecchie dei tre cominciano a sanguinare. E’ una lenta agonia, fino a quando uno dei ragazzi non oppone la testa di un altro al finestrino rompendo il vetro: riesce a fuoriscire, ma solo per stramazzare al suolo. Gli altri due sono esanimi, riversi sui sedili: è quanto accade in Playing the villain dei Son of the kick, video distopico diretto da The Glue Society, lavoro molto interessante che alterna prospettiva interna a prospettiva esterna e che si chiude sull’inquadratura di un adesivo appiccicato sul parabrezza: un avviso che segnala la presenza nell’auto di un sistema di sicurezza, marchiato dal logo del gruppo. Voto: 7
In Reds degli Houses [foto] una città di ghiaccio, tramite il reverse, sembra costruirsi piano piano; alla fine si scioglie. Il riverbero sull’acqua è quello di tanti schermi illuminati (gli altri effetti fotografici sono dati da luci natalizie…). Era molto tempo che non si vedeva un video di pura visione così efficace e suggestivo. Regia di Lamar + Nik (Lamar High and Nik Harper). Girato in un garage, budget ridicolo (poco più di duecento dollari). Voto: 7
E sull’impatto puramente visivo puntano anche il collettivo Special Problems (Girls like you dei The naked and the famous, V|M dicembre 2010) con un ralenti in reverse sul primo piano di una ragazza, con capovolgimento di camera iniziale (quindi operato a fine ripresa) – voto: 7 -, James Lowrey & Thomas Ormonde per Delight in temptation dei Wild Palms, dettagli in macro su schermo sezionato (voto: 6) e Bryan Schlam per Chinatown di Kitten: la reiterazione a tempo di pochi fotogrammi e le vibrazioni del quadro segnate dai bassi coinvolgono il mezzo video prima ancora di ciò che esso rappresenta.
Sadness is blessing – Likke Li, diretto da Tarik Saleh. Videonarrazione che parte assai bene, ma si affloscia nel finale, dal regista di Metropia. Con Stellan Skarsgård.

Rue de Rome – Munk, diretto da Doublezero: girato come un livido e sporco polar anni 70, con tanto di titoli iniziali e finali, ambientato ovviamente a Marsiglia, è gioco divertente e molto ben fatto sugli eccessi di un sindaco che rapina negozi, aggredisce e deruba spacciatori, sbevazza e pippa di brutto accompagnato dalla distinta moglie. Ma le cose non sono come sembrano…

Everyday – Rusko, diretto da Jason Miller: lavoro fotografico/antropologico in cui si inserisce il discorso smaccatamente promozionale, girato in California, a Salvation Mountain, una montagna colorata artificialmente.

See you hurry – Wim, diretto da Daniel Askill (regista e videoartista australiano motivatamente quotato – il notevolissimo We want war dei These New Puritans, da ultimo -): la camera pedina una donna nuda che si addentra in una foresta. Giunta a una radura la donna divora un cigno morto e volge lo sguardo al pedinatore. La macchina arretra e si inoltra di nuovo nella foresta. Ralenti ipnotizzante, il mistero regna.

Every teardrop is a waterfall degli attesissimi Coldplay, diretto da Matt Whitecross [foto]: lavoro in stop motion girato durante una session dello street artist Paris. Video exploit piuttosto deludente, nonostante l’idea e la fattura.
Turn up the volume – Autoerotique, diretto da Miles Jay & Derek Blais
. Ralenti di compleanno con una torta che vale il video (quella con la scritta Our favorite mistake).

House – Patrick Wolf, diretto da Andy Bruntel: dal regista del miglior video dell’anno scorso (Scissor dei Liars) un lavoro molto ben congegnato a cui però manca il quid che solitamente contrassegna la sua opera. Patrick Wolf, oramai perso nelle sue sciccherie ottantesche, somiglia sempre più a Tony Hadley e ha momenti di immedesimazione spandauiana quasi imbarazzanti.

Flower – Amos Lee, suggestiva animazione diretta da Kneeon.

Everywhere degli Anycanbe: un topolino in cabina di proiezione, mentre i film riprodotti evocano immaginari altri, in un video curatissimo diretto da Lele Marcojanni.

Money and run – U.N.K.L.E. feat. Nick Cave, diretto da Tom Haines: lavoro di realtà “esagerata” che pone al centro della rappresentazione la superviolenza di una upper class ferina e senza valori. Provocatorio, ma senza grossi spunti.

Novacane: il grande Nabil (Elderkin) dà vita al delirio allucinogeno di Frank Ocean. Solo lo schiaffo finale è reale. Forse.

Got to lose – Hollerado, diretto da Greg Jardin: dopo il lodatissimo Americanarama gruppo e regista si ritrovano per il virtuosistico pianosequenza di una coreografia “ombrellata”. Una delizia.

The bay – Metronomy, diretto da David Wilson [foto]: si appropriano della nostra estate i solari Metronomy e calvalcano l’onda marina con un video che ammicca agli anni 70, nel suo moltiplicarsi sornione di split screen a tema vacanziero. La bella stagione ha il suo inno, il suo video, il suo disco: until the end of the summer (summer).
Run the world (Girls) – Beyoncé, diretto da Alan Smithee: Francis Lawrence (e siamo già a quota tre in carriera – dopo quelli della Imbruglia e della Lopez -) rifiuta di accreditarsi il suo video e lo attribuisce allo pseudonimo collettivo Alan Smithee (usato comunemente dai registi rinneganti); qualcosa non ha funzionato come doveva, qualcuno si è evidentemente imposto dall’alto, anche se l’ennesima brutta videokitschata (in questo caso in salsa Mad Max) non ci pare peggiore di altre (se si eccettua l’ingenuità, a dirne bene, dell’iconografia di riferimento): molto meglio, per esempio, dello spento fallimento di Judas di una tracotante Lady Gaga autodiretta.
E’ comunque deprimente dover verificare come nella videomusica mainstream, si sia imposta una modalità di proposizione della star (soprattutto femminile) in una chiave di coregorafia-baracconata in cui, a parte il contesto di riferimento, cambia davvero poco a livello stilistico o registico. Si allarga dunque il divario tra il video di ricerca e quello comemerciale, sempre più consacrato ad una formula unica, senza alcuno sforzo di variarne il registro. Boring.

Peace and love.