
TRAMA
I teneri Gemma e Tom, adescati da un losco agente immobiliare, si trasferiscono nel quartiere di Yonder, in una bella villetta. Alla loro porta viene recapitato uno strano neonato, di cui dovranno prendersi cura. Presto capiranno di essere in trappola.
RECENSIONI
In un’epoca in cui il cinema, anche quello horror, è – significativamente – sempre più un esercizio di conciliazione con il mondo (fioccano i lieti finali, ma soprattutto chiari sono sempre i motivi del contrappasso dei protagonisti), lo sguardo di Lorcan Finnegan si contraddistingue per la sua impietosa macabrità. Il male giace fuori dai nostri orizzonti di comprensibilità, ci prende senza una ragione immediatamente visibile, non ci lascia scampo. Ecco dunque che Vivarium diviene immediatamente un grande film, capace di toglierci le speranze man mano, senza forse avercene mai date, di lasciarci disorientati, privi di quegli appigli che ci possano far dire che gli sventurati Gemma e Tom (degli straordinari Imogen Poots e Jesse Eisenberg) se lo meritavano, il loro triste destino. Nessuna catarsi, nessuna consolazione, solo il crudo spettacolo della dissoluzione di una giovane coppia truffata da un losco agente immobiliare prima, vessata da una genitorialità non cercata né voluta poi, infine sacrificati a non si sa bene quale idolo. Una giovane coppia colpevole di aver ambìto, chissà con quale hybris, a una vita un pochino migliore.
Vivarium rappresenta il sogno borghese messo a ferro e fiamme dalla sua stessa vacuità. L’impomatato agente immobiliare – interessante i tetri paralleli con La casa della morte (Welcome to Dead House, Robert Lawrence Stine 1992), nientemeno che il primo racconto della fortunata serie Piccoli brividi – coopta i poveri Gemma e Tom offrendo loro una sistemazione nel quartiere residenziale di Yonder, laddove si stagliano a perdita d’occhio splendide villette a schiera con prato all’inglese, tutte inquietantemente identiche, ferocemente gemellari. Tuttavia l’utopia post-reaganiana della periferia tranquilla e dell’utilitaria (un po' boomeristica come considerazione, ma tant'è) immediatamente soverchia il suo lato oscuro: Yonder è “laggiù” nel senso peggiore del termine. Lager a cielo aperto, intrappola la coppietta in una sorta di prigione da cui non si può scappare; è come L’angelo sterminatore (Luis Buñuel 1962), ma anziché la sala da pranzo c’è il quartiere modello in stile Suburbicon (George Clooney 2017) o, più recentemente, Don’t Worry Darling (Olivia Wilde 2022). Il loop spaziale (se si prova a fuggire si tornerà sempre, ineluttabilmente, alla villetta n° 9) è amplificato dall’angoscioso cielo magrittiano, dalla luce pallida e artificiale che tutti i giorni come una falce illumina il vialetto, dagli smunti colori pastello, dal cibo dall’aspetto suadente ma che non sa di nulla. La brama di costituire una famigliola felice si rivela tetramente come un involucro vuoto, e a farne le spese sono Gemma e Tom, per i quali non si può che provare empatia. Incolpevoli, combattono come possono contro la loro immeritata prigionia. Erti a simboli di qualcosa di più grande di loro (il miraggio della perfezione posticcia anzitutto conchiuso nelle magagne del mercato immobiliare, che vende sogni preconfezionati a caro prezzo) devono poi vedersela con l’ennesima falsa speranza: un figlio, coattamente, adottivo.
Lasciato fuori dalla porta, provano – specie lei – ad amarlo, ma egli è refrattario a ogni forma di umana affettività. Alieno, in senso etimologico e forse anche fantascientifico, gli si rivolta contro, li sfrutta, li sfianca. Cresce troppo in fretta, fa cose strane, infine sancisce la morte di un altro mito: che far figli significa dare senso alla vita. No, ci dice crudelmente Vivarium, far figli significa sacrificarsi fino alla consunzione definitiva. Nemmeno dunque nel votarsi all’alterità c’è una soluzione di fronte all’insensatezza dell’illusione capitalista: è tutto un grande effetto fata morgana, impalpabile e destinato a condurci all’infelicità.
La casa così, atavico luogo dell’orrore cinematografico (eviteremo stavolta elenchi, avendo già dato qualche consiglio di collegamento a proposito di Men, Alex Garland 2022), è qui svuotata sin da subito dalla semantica del rifugio o della dimora. In questo senso Vivarium si guadagna un posticino tutto suo, evitando quel pattern tipico per cui il focolare domestico è prima luogo di asilo e poi di assedio. Va detto che in questo ottimo punto di partenza c’è anche, in un certo senso, un parziale disinnesco della retorica politica del film: non si capisce mai davvero perché i due debbano essere puniti così duramente. Loro, in quella casa, non ci volevano davvero andare. Vi ci sono stati tratti con l’inganno. È forse questa, come anticipavamo, la vera inclemenza di Finnegan-Shanley (sceneggiatore). La coppia è vittima sacrificale, capro espiatorio, incolpevole di per sé ma portatrice dello stigma di una intera ideologia. Catapultati a forza nel loro formicaio artificiale (ricordano un po’ i tunnel delle formiche le immagini misteriose che il bambino guarda sul televisore) non è nemmeno coi loro demoni che debbono confrontarsi. Tom, giardiniere, inizia a scavare incessantemente una buca in giardino, metafora di una ricerca nel profondo di sé che non lo porta assolutamente a nulla. Gemma tenta di accudire Martin, il bambino-mostro che è stato loro appioppato, ma rifiuta fino alla fine di indossare le vesti di madre, di calarsi in un ruolo impostole dall’esterno; se avesse voluto, un figlio l’avrebbe fatto. Il bambino-mostro, infine, è tale non solo o non già per i suoi comportamenti indegni, ma soprattutto perché privo di ogni forma di immaginazione. Non vede nelle nuvole che nuvole. È privato del fascino della pareidolia infantile (vedere nelle nuvole nient’altro che nuvole significa non saper uscire dalla pura referenzialità delle cose). È, anch’egli, un simulacro, un contenitore vuoto, come tutto a Yonder, inferno obitoriale che ingabbia nelle sue spire prive di senso e, alla fine, uccide. È così, e basta. Il titolo già diceva tutto: la casa è vivarium, vivaio, luogo non a caso deputato all’allevamento delle bestie incolpevoli, giocoforza costrette a sussumerlo come propria abitazione, incapaci di vedere che là fuori qualcuno le sta guardando, e non nutre intenzioni benevole nei loro confronti.
Alla fine tout se tient, ma non si aspettino i lettori qualsivoglia tipo di catarsi o di spiegazione esaustiva. L’eterno ritorno dell’identico la farà da padrone. Questa, in definitiva, e per l’ultima volta, la piccola grandezza di un piccolo (pochi attori, messinscena oculatamente “povera”, impiego parco di mezzi salvo che nel pre-finale con altre case e altre dimensioni forse un po’ sbrodolone) grande film, che ha la temerarietà di non ammiccare mai, di non prenderci (quasi) mai per mano, di metterci di fronte al vuoto di certe isterie collettive e lì abbandonarci, soli, inermi.
