TRAMA
Le antinomie e le similitudini degli opposti, dal Cile alla Cina.
RECENSIONI
Opera di estrema complessità, Vivan las Antipodas è un teorema visivo seducente e ipnotico, risultato di un lungo lavoro di ricerca. Kossakowsky compie un mezzo miracolo, riuscendo e rinverdire e giustificare, ogni volta, il motore propulsore del poema, sfuggendo al rischio dell'arbitrarietà e dell'iterazione gratuita di un dispositivo che prevede la connessione, tematica o formale, di eventi e figure dislocate agli antipodi. L'autore gioca su tre linee immaginarie, verticale, orizzontale e obliqua, e varia le angolazioni di ripresa al variare delle peregrinazioni dello sguardo dell'istanza, dal Cile alla Cina, dalle Hawaii al Botswana. Al fine di suggerire il passaggio da un antipodo all'altro, la macchina da presa ruota sul proprio asse di 360° (sopra/sotto); per annunciare invece uno spostamento in direzione di un'altra coppia di antipodi, lo sguardo scivola da nord a sud ruotando di 180° (sinistra/destra). Per comporre il suo poema globale, Kossakowsky non si avvale soltanto di innovative e sorprendenti tecniche di ripresa, ma istituisce una rete di alleanze e opposizioni simboliche e tematiche tra gli accadimenti e gli attanti dei diversi segmenti narrativi. Gioca di riflessi e specularità – lo specchio (la superficie dell'acqua come ideale confine tra il qui e il là) inganna sovente lo spettatore con gli azzardati e spettacolari rovesciamenti di prospettiva che produce – e tratta le immagini come un poeta le parole, stabilendo legami profondi, arcani e insospettabili tra le cose e gli esseri. Ad esempio, in un sublime sintagma narrativo l’autore giustappone un lunare paesaggio vulcanico hawaiano alla pelle di un elefante del Botswana. Come le rime in un poema, figure ritornanti cadenzano il ritmo, segnano il passaggio da una strofe all'altra, rendono facilmente riconoscibile un luogo. Tuttavia, con l'avanzare del racconto, pur continuando a distinguerli, cominciamo a “vivere” gli antipodi non più come il riflesso speculare l'uno dell'altro, ma come una diegesi uniforme che è il riflesso dell'occhio di chi guarda e di chi (ri)compone. I diversi elementi che qualificano i singoli “quadri” finiscono con l'essere unificati nella coscienza di chi guarda. Per questo, il volo del falcone nell'episodio sudamericano (una pagina di virtuosismo che toglie il fiato) e la metamorfosi del bruco divenuto farfalla non vengono più percepiti come azioni e figure autonome, ma come varianti di un gesto che diviene metafora: la sospensione, la conquista del cielo, la perdita del suolo. Alla fine perdiamo letteralmente la bussola: abbinando alla mostrazione dell'immagine speculare di una montagna riflessa su un lago una rotazione di 360° gradi della macchina da presa, la distinzione tra il reale e il suo doppio diventa infatti problematica. Il regista, tessendo le lodi delle estremità, celebra contestualmente le funzioni dell'arte cinematografica: lo schermo è il doppio rovesciato del reale, agli antipodi del mondo rappresentato; eppure, esattamente come gli antipodi geografici, in esso riconosciamo un mondo reso conforme ad una logica narrativa e compositiva “unificante”. Il cinema è il doppio del mondo, gli antipodi sono un mondo sdoppiato. Vivan las antipodas è un doppio che unifica poeticamente un mondo sdoppiato.