TRAMA
Il più grande partito di opposizione. Il segretario, il grigio Enrico Olivieri, pur essendo ancora il leader indiscusso, è in preda ad una crisi personale e politica che sta conducendo tutta la baracca allo sfascio. Per dimostrare al paese come egli sia necessario e insostituibile, decide di scomparire per qualche giorno. Nella più stretta segretezza i suoi più intimi collaboratori lo rimpiazzano con il fratello matto Giovanni. Le cose cambiano?
RECENSIONI
Non v'è dubbio che sia l'attualità la cifra discorsiva di Viva la libertà, un film che porta inscritto nei propri geni la situazione sociopolitica che lo ha prodotto. Non certo per il gioco di rispecchiamenti, nemmeno troppo sottile, tra personaggi diegetici e personaggi reali che al momento occupano la scena pubblica (la cancelliera inflessibile, il leader trafficone della maggioranza, il giovane indocile e il cinico stratega con baffetti dell'opposizione, un presidente della Repubblica eternamente crucciato). Né tanto meno per il tempismo con il quale il film intercetta il cicaleccio elettorale, le timide metamorfosi adattive della vita partitica nazionale, il disorientamento proprio di una fase che si autorappresenta come transizione verso la Terza Repubblica. Al contrario, a mio avviso, l'attualità che è salutata con calore dalla critica nasce dal rispecchiamento, questo sì sottile, tra una tendenza del cinema italiano contemporaneo che fino a non molto era maggioritaria e il più grande partito che fino a non molto era di opposizione. Per semplicità di esposizione chiamerò questi due incidenti storici «cinema medio impegnato» e «Partito Democratico». Per correttezza invece specifico che, come sempre, le asserzioni necessariamente politiche che seguono sono imputabili esclusivamente al sottoscritto.
Dal neorealismo ad oggi il cinema italiano ha mantenuto alcuni caratteri talmente incancreniti da riuscire a resistere alle mutazioni più disparate, alle crisi e agli sbandamenti degli ultimi tre decenni (a titolo di esempio: il familismo, la tendenza al melodramma, il nazionalpopolare, un imbarazzatissimo progressismo), il più clamoroso dei quali, senza dubbio, è la natura di industria parastatale, ovverosia dipendenza dai finanziamenti pubblici e quindi dalla politica partitica. Per questa ragione, ma non solo per questa, il cinema (che ha voluto essere) politico ha sempre patito quando ha voluto raccontare la vita politica italiana lontano dalla protezione del PCI: i destini dei casi più incisivi (penso a Todo modo, a Colpo di stato, a Il potere) sono stati un potentissimo monito, tant'è che le generazioni a venire hanno a cuor leggero optato per l'accanimento sui cadaveri, una perversione patologica nota con il nome di rullipetraglismo. Presentandosi il «cinema medio impegnato» come figlio della grande stagione del cinema civile (Petri, Montaldo, Rosi etc.), e non legittimamente come il cugino tarato e depresso della commedia all'italiana, esso rivendica una legittimità ed un'autorità che a conti fatti non spende in alcun modo, essendo evidente il rifiuto della politica come dimensione attiva e come prassi critica – si concede una sopravvivenza come tensione morale.
Questo decennio si è aperto con due eventi significativi per il discorso che qui si tenta di portare avanti: la cerimonia di sepoltura del «cinema medio impegnato» officiata da Goffredo Fofi nella forma di invettiva contro La nostra vita e lo strepitoso successo dei due film di Checco Zalone che critici-termometri come Marco Giusti e Gianni Canova hanno portato in palmo di mano. Mi pare che, grazie alla pervasività dei comici della seconda e della terza generazione della neo-televisione (Albanese, Bisio, Zalone), si sia dentro un mutamento del paradigma politico dai codici del melodramma a quelli della commedia di costume. Mentre si mantengono inalterate tanto la funzione rassicurante quanto la visione fatalista proprie del macrogenere, quel che muta è sul versante del popolare, nella doppia accezione di fenomeno collettivo e di fenomeno di classe. Per farla spiccia, si assiste ad un recupero cosciente dei moduli della Commedia dell'Arte e lo si spinge verso un allusivismo tutto occhiolini e sgomitate, ben diretto contro uno spettatore medio(cre) postulato come giovane, proletario, incolto ma 'moderno'. Il politico diventa impolitico prematurato con scappellamento a destra.
Viva la libertà ha una posizione ambigua in questo processo, come dimostra l'ibridismo di una sceneggiatura che si regge su situazioni drammatiche, tipiche del «cinema medio impegnato», con tentativi di grottesco che necessariamente fanno affidamento sugli sketch del mattatore, tipici della commedia di matrice neo-televisiva. Più che alla Commedia dell'Arte, infatti, è il riferimento al Goldoni de «I due gemelli veneziani» che può risultare particolarmente efficace: una commedia di argomento «rancido», «maneggiato da tanti ne' tempi addietro in tante fogge», che ha la sua ragion d'essere nel grande attore per il quale è stata scritta. Ed è anche di derivazione goldoniana il residuo di una cultura borghese connotata come nevrotica, lo sberleffo delicato degli intrighi per la conquista del potere (sublimato in forma di donna), lo spirito vitalistico e carnevalesco, l'ideologia timidamente riformista ma fermamente ancorata ad una società classista. Più in generale, è sul palcoscenico del teatro che il cinema e la politica trovano il luogo prediletto per costruirsi come finzioni appassionate e creatrici, depurate da ogni pretesa di restituzione ingenua della realtà (ed è in questo senso che secondo me Anna Karenina di Joe Wright è soprattutto un film politico).
Delle crisi di cui il film si fa narratore ce n'è una più drammatica delle altre: quella del senso del politico. Su quale terreno si consuma la differenza tra il politicante bollito e il gemello vincente che restituisce lustro al partito e speranza al paese? Sulla vacuità populista, purtroppo. La «rivoluzione» di Giovanni è una finzione appassionata ma non creatrice: le uniche sequenze dell'attività politica pubblica, cioè fuori dai corridoi e dalle stanze del potere, sono performance verbali che ruotano attorno ad una retorica scipitamente obamiana, altrimenti detta veltroniana, e all'idrofobia grillina. La sua tesi, in soldoni, è che la gggente ha capito tutto, la casta niente. C'è una sola eccezione: tre brevi cartoline ambientate in una classe scolastica, in un cantiere e in un ospedale – la scuola, il lavoro e il welfare come pilastri senza anima, e quindi semplici bacini (elettorali), del centro-sinistra – nelle quali Giovanni, accolto da piccole folli giubilanti, si lascia riprendere e fotografare dai media. Nella tragedia della politica ridotta a spettacolo una rappresentazione del rinnovamento passa per una produzione meccanica del consenso, consenso fine a se stesso – lo scopo della narrazione è la risalita nei sondaggi – ed esente da qualsivoglia attività di governo, da una seppur minima idea politica in senso proprio.
Qui, in conclusione, entra in campo l'incidente storico noto come «Partito Democratico». A differenza degli altri partiti di massa italiani, il PD si è dimostrato incapace di cucirsi addosso un immaginario e Viva la libertà porta inciso sulla pelle questo handicap. Per capire a cosa si allude è sufficiente vedere una sequenza qualunque di Commedia Sexy o di Viva l'Italia e, tenendo comunque ferma la distinzione tra satira politica e commedia di costume, confrontare la rappresentazione del PDL in questi con quella del PD nel nostro caso. Che «Partito Democratico» e «cinema medio impegnato» siano edificati sul compromesso – tradizione cattolica e tradizione comunista nell'uno, melodramma familiare e cinema civile nell'altro – di certo non aiuta. Che entrambi costituiscano il proprio discorso critico a partire dalla retorica populista, un virus che ha infettato trasversalmente la campagna elettorale appena trascorsa, non può considerarsi una coincidenza, semmai il sintomo della crisi del politico di cui sopra.
Tolto tutto questo, cosa rimane? Un film piacevole, denso di momenti brillanti e di buoni sentimenti, completamente sperduto nel tentare di guardarsi intorno. La prova d'attore superba di Toni Servillo che fa impallidire il resto del cast, ed è una punizione che gli altri non meritano. Ingiusto anche non citare la fotografia di Calvesi, il Caravaggio dei direttori italiani. O la regia di Andò elegantissima, in loden, in cui qualcuno ci ha persino visto Frank Capra. Tante cose lodevoli, per carità, anche se poi non vanno da nessuna parte: in fondo Viva la libertà è il Ciapaiev del Partito Democratico. Bisognerà rivederlo tra qualche anno.