TRAMA
Un’isola siciliana a metà Ottocento. Angela entra in età da marito ma è attratta da Sara, sua amica di infanzia, e inizia il corteggiamento.
RECENSIONI
Qual è il problema di Viola di mare? Quale il limite di un film che affronta il Tema Scomodo con svolgimento corretto? Azzardiamo una spiegazione: la regista, Donatella Maiorca, reputa forse che la materia considerata costituisca un valore in sé. In virtù di questa convinzione di fondo, che suona lampante in più fasi, si 'accontenta' di modi ordinari per rappresentarla. E' così che la storia gay tra due donne, in un contesto inevitabilmente ostile, e il conseguente cambio di genere (da donna a uomo) di una di queste per sviluppare la relazione, si ferma consapevolmente al timbro televisivo: primi piani, piani medi, campi e controcampi, qualche pedinamento tremolante. Ne risulta che il film, se analizzato per negazione, non ha cadute eccessive nei punti più scivolosi, non ha svolte tramiche inverosimili, non ha irricevibili derive nelle prestazioni attoriali (volendo tacere della Cucinotta, che produce). Se visto in positivo, però, è impossibile segnalare anche un solo pregio al suo attivo. La scelta dei moduli rappresentativi invade tutto: sempre ordinari, senza guizzi sostanziali, pieni di difetti tipici, come l'usanza dell'espressione contrita e delle urla per significare disagio, disperazione, follia. E dire che la fonte primaria, (il romanzo di Pilati da cui lopera è tratta) a quanto si può intuire dal plot, offriva nodi interessanti: ovviamente il contesto atavico, con un padre avvezzo alla violenza domestica, ma anche il dato naturale (il film è girato nel trapanese) che allinea le asperità dell'isola a quelle dei personaggi, e parecchi altri archetipi: da segnalare almeno la Prigionia, sempre in un luogo oscuro (la lunga punizione di Angela), e soprattutto la Maschera, che poteva riaprire il dibattito sul genere indicando l'uomo come bozzolo da cui fuoriesce la donna (il finale). La viola di mare è un fiore che cambia sesso per amore come la protagonista; ma per coglierlo serve un'esplicitazione, quella affidata alla didascalia conclusiva, quando lo schermo è già andato in nero: insomma la metafora non vive spontaneamente nel narrato che, come detto, resta tutto in superficie. Se il clamore dell'argomento non può farsi criterio di giudizio, resta allora l'impressione che la sala cinematografica vada larga alle misure di un prodotto evidentemente concepito con metodi e ambizioni minori.
