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VIDEO DELL’ANNO 2020 – TOP 20

A seguire la top 20 dell’anno e tutti i consueti addentellati (artista, regista, commercial etc), con un occhio al fashion film e chiusura su lunghissimi titoli di coda.
Buona lettura, buona visione.

# 20
WAR (Idles)
diretto da Will Dohrn

Cambiano gli ambienti, mutano i personaggi, ma sono sempre mani quelle che occupano il centro dei diversi quadri in movimento: non sappiamo a chi appartengano e possiamo solo intuire quali siano le circostanze nelle quali agiscono. Col procedere del promo, mentre i dettagli aumentano – fino al lento, ma progressivo allargamento di campo, con visione dall’alto – lo spettatore viene definitivamente a capo della logica dei contesti e delle rispettive situazioni. Video, dunque, tutto fondato su un parallelismo – non solo narrativo, ma anche formale e figurativo – che suggerisce, sulla base della pura suggestione visiva, che protagonista sia un’unica mano, quella dell’attualità di una Gran Bretagna problematica e inquieta.
Will Dohrn dirige un lavoro intenso, fondato su un dispositivo tanto ferreo quanto coinvolgente che, stante la frantumazione del congegno narrativo e l’incrocio dei racconti, richiede e sollecita la revisione. Lo fa sintonizzandolo a dovere col poderoso sound degli Idles, gruppo che, per la promozione dell’album
Ultramono, punta in modo deciso sul discorso video (per tutti la deliziosa animazione di Michel e Olivier Gondry per Model Village).

# 19
Heaven (Daphne Guinness)
diretto da David LaChapelle

Come un film dell’epoca d’oro dello studio-system, una fantasia sfrenata made in LaChappelle, con tutto il consueto immaginario fiorito-sexy-kitsch che lo correda: una favola ambigua dove la donna fatale ruba la giovinezza del bel maggiordomo? O dove una donna eterna continua ad amare il suo uomo anche quando diventa vecchio? Comunque la si pensi, un delirio popparolo sublime che di nuovo ha nulla e di bello tutto.

# 18
How You Like That (Blackpink)
diretto da Seo Hyun-seung

How You Like That ha battuto il record di visualizzazioni nel primo giorno su YouTube e in 32 ore ha superato i 100 milioni di click. La cosa non sorprende perché il K-pop da tempo tiene banco con clip sofisticatissimi, dal budget importante (tanto più in un’era che fa del pauperismo la sua cifra) e con riscontri sbalorditivi (il record era detenuto da un altro campione coreano, quel Boy with Luv dei BTS di cui mi ero occupato nello speciale del 2019). Seo Hyun-seung, collaboratore consueto delle Blackpink, se per il clip si affida a una retorica consolidata, la applica con una verve fuori dal comune. Così la presentazione standard del contesto e delle quattro artiste (quello che in gergo si chiama hero shot) dà la stura a racconti incrociati caratterizzati da leggibili mood depressivi, incorniciati da differenti sipari simbolici, virati su tinte livide. Sarà la coreografia di gruppo a sancire la reazione alle avversità, consacrata in una danza fatta di movimenti dinamici (con zoom sincronizzati al beat e inquadrature abbinate al fraseggio) ed esaltata dai colori vivacissimi di una nuova scenografia. Perché è qui la forza del promo: il suo mutare continuo, il suo moltiplicare soluzioni e situazioni, il suo adeguare la narrazione alla struttura del brano (l’accelerazione progressiva del bridge). Spettacolo e talento.
Per approfondire il discorso, imperdibili nel 2020:
Lovesick Girls (Blackpink) diretto da Seo Hyun-seung
Stay Gold (BTS) diretto da Ko Yoo Jeong
Dynamite, Dynamite – B-Side, ON (BTS) diretti da Yong Seok Choi

# 17
Past Life (Trevor Daniel, Selena Gomez)
diretto da Vania Heymann e Gal Muggia

Comincia come uno dei tanti quarantine video, Past Life, con gli artisti a esibirsi da casa, in split screen a bassa definizione. Ma il punto di vista  all’improvviso cambia, l’occhio della camera rompe la quarta parete dello schermo e penetra all’interno della stanza di Selena, a inquadrarla con lo smartphone in mano. Giocano per contrasto i registi, dunque, e, smentendo il piatto registro omologato del clip casalingo, posano lo sguardo sul dettaglio ravvicinato del volto della star. Il sembiante dell’artista – il dato inevitabile e ossessivo del video al tempo del lockdown – si trasforma in un paesaggio immaginifico, in un “fuori” tutto da esplorare, che si oppone a quel “dentro” che ci ha imprigionati in questi mesi. Un modo molto intelligente per riflettere su un format, su una tendenza e sull’attualità, e di farlo con il proprio linguaggio. Perché come sempre il duo opera per associazioni stravaganti, logiche sovvertite, ribaltamenti di senso in chiave suggestiva, effettistica visiva poeticizzata, mood del brano tradotto in visioni.

# 16
Me in 20 years (Moses Sumney)
diretto da Allie Avital

Se Heymann e Muggia in Past Life ribaltano il discorso sul quarantine video sul piano concettuale, Allie Avital fa del lockdown un motivo narrativo sotterraneo, descrivendo, sull’onda del testo della splendida canzone di Sumney, il marcire lento e inesorabile del protagonista nell’isolamento della propria casa, fino all’inghiottimento nella metaforica voragine del proprio letto. Un racconto di orrore quotidiano, uno strazio che oggi ci appartiene da vicino e che si traduce in immagini potenti, oscure, ammonitorie.
Un video peraltro coerente con tutto il filone d’inquietante fantascienza che la regista spesso pratica.

# 15
NTWFL (Sam Dew)
diretto da Young Replicant

Le narrazioni in clip di Young Replicant (Alex Takács) sono esaltanti rompicapi che sollecitano l’investigazione dello spettatore: NTWFL, primo video di una trilogia (Moonlit Fools) per Sam Dew sembra fondarsi sulla mitologia classica in ambientazione contemporanea: il rito di una Venere nera funge da chiamata per una schiera di Cupidi che si risvegliano, pronti ad agire. Ognuno di questi, in virtù del messaggio, riceve due figurine che ritraggono i termini di una coppia da combinare. La messa in scena insiste su un taglio realistico (la base degli emissari amorosi è un cantiere abbandonato, le loro dotazioni sono un cellulare e un motorino), ma presenta deviazioni fantasy decisive (l’invisibilità, l’incorporeità). Il Cupido protagonista raggiunge il ragazzo (è lo stesso Sam Dew) e la ragazza che dovrà far incontrare e li connette. Compiuta la missione, aggiunge le due figurine al fragile castello di carte che simboleggia le relazioni che ha contribuito a costruire. Il finale lo vede in spiaggia: il vento trascina via una figurina con la sua immagine e il mare risucchia quella di una giovane, probabile riferimento a una fallita combinazione amorosa di cui egli stesso è stato parte (e pessimo auspicio per il sodalizio che ha contribuito a creare – i segnali non erano positivi dall’inizio: il motorino lo lascia a terra, fa il tragitto a piedi -). In lontananza vediamo Venere che, esaurito il rituale, torna a immergersi in mare.
I due capitoli successivi approfondiscono il punto di vista dei due “prescelti”: in Gone Sam Dew fa i conti con i timori legati all’incontro e al possibile coinvolgimento emotivo, la paura del contatto – simboleggiata da un tecnico addetto alle comunicazioni – è vissuta in una dimensione visionaria parallela; in DJ la prospettiva è quella della ragazza che vive l’incontro con l’uomo designato in un nuovo trip allucinatorio. La trilogia si chiude con un dubbio: i due protagonisti, forti delle loro visioni, condurranno la connessione innescata su un piano di realtà?

# 14
Always (Waze & Odyssey)
diretto da Nelson De Castro

Seguendo la lezione di Gondry, De Castro prende il trucco (il mirror effect) e ne riproduce la logica dal vivo, alternando poi immagini manipolate digitalmente e non, confondendone i piani e spingendo sull’acceleratore dell’illusionismo visivo (il doppio a volte è autentico – ci sono di mezzo due gemelle -), con connesso corredo di scenografie e costumi. Ma non si accontenta dell’idea, ne fa bella applicazione, non solo esperendone diverse possibilità, ma anche sfruttandola al meglio per la coreografia centrale. Il tutto nell’ottica di un omaggio-citazione ai multipli del video della canzone-campione di George Michael e Mary J. Blige (As, diretto da David Fincher). Preferibile il director’s cut.

# 13
Coffee (Kelly Rowlands)
diretto da Steven Gomillion

Che stile, ragazzi. E che leggerezza. Quadri di moda in movimento, black girl empowerment, ma senza quella patina intellettuale à la Solange, senza sentire il rumore della testa che macina ragionamenti. Tutto nitidamente fluido e plastico. Elegante pure, senza essere mai patinato: un vestito di immagini significative che la canzone indossa come un guanto. Che boccata di aria fresca in un’epoca in cui i video performance traboccano di ogni eccesso.
Confesso che ho goduto.

# 12
To Die For (Sam Smith)
diretto da Grant Singer

Splendida narrazione metaforica in cui la solitudine cantata nel brano (quella del single forzato, dell’incompreso, dell’outsider: «Voglio soltanto qualcuno per cui morire») è simboleggiata dalla testa di un manichino esposta in una vetrina, circondata da altre con cui non ha alcun contatto, essa stessa congelata in un soliloquio dolente. Mentre la gente passa, guarda e non vede (quando sul capo Smith ha una corona, è quella a venire notata: la modalità simbolica è sempre attiva). Solo una bambina intuisce il dramma, senza capirlo. Rimasta sola nel negozio ormai abbandonato, la testa viene “rapita” da un ragazzo che spacca la vetrina solo per portarsela via: in conclusione c’è chi è disposto a rischiare per l’infelice Sam.
Grant Singer (lo diciamo ogni anno) è uno dei massimi videomaker in circolazione: il racconto minimale ha uno svolgimento intensissimo e l’americano gioca sapientemente con ambientazione e topic, costruendo un’escalation quasi impercettibile, infine dirompente. Realizzazione al solito mirabile, con interno ed esterno che dialogano attraverso il filtro del vetro e con i suoi riflessi.
Molti, molti cuori.

# 11
Mesmerize (Duck Sauce)
diretto da Keith Schofield


L’ho già scritto: da sempre Schofield punta all’uso concettuale delle tecniche visive, facendo riferimento a un’idea di americanità pop quale emerge dal crogiuolo di segni scaturiti dai fenomeni culturali di massa. Immerso negli immaginari tipici dell’industria culturale popolare (la televisione, la pubblicità, la pornografia, il fumetto, i videogiochi) vi fa costante approdo, ponendo sempre lo spettatore nella posizione di individuare agevolmente l’ambito trattato, di far sì che vi si ambienti, per poi farlo deragliare bruscamente dal sistema complesso di riferimenti dato, conducendolo in un campo ignoto e sorprendente. In questo senso è stato il regista che, più di ogni altro, ha giocato al meglio il cambio di piattaforma che la videomusica ha vissuto nell’era di YouTube. L’irrappresentabile in videoclip è diventato la sua materia prima. In Mesmerize rimette in campo il suo armamentario, pigiando tutti i tasti consueti, complice-aggravante il covid-moment: il metadiscorso, l’elasticità della rete, la manipolazione digitale, celebrità & post-verità, il linguaggio del porno virato nel comico. È una specie di schizzato, esplosivo bignami della sua poetica, con alcune autocitazioni e l’irriverenza che ce lo fa amare da sempre.

# 10
Killjoy (Anna Meredith)
diretto da Ewan Jones Morris

Una moltitudine di GoPro disposte in circolo e al centro una coreografia (curata da David Ogle) che è concepita proprio in funzione della modalità tecnica con la quale verrà ripresa. Del resto ci troviamo nello studio di Wayne McGregor, uno che ha riflettuto moltissimo sul rapporto tra arte e scienza e che, nel dialogo tra spazio e tempo, sperimenta come il corpo possa dare di sé differenti percezioni proprio grazie all’uso della tecnologia. Applicato al presente video, il sofisticato principio si traduce in un paradossale ritorno al primitivo: il montaggio del videoclip in chiave squisitamente ritmica, una traduzione visiva letterale del brano musicale. Ewan Jones Morris consegna una sorta di promo post-90 (Gondry, Jonze, ça va sans dire), in cui coreografia e mezzo tecnico, idea e azione, teoria e gioco s’incontrano.

# 9
Let Go (The Irrepressibles)

diretto da Savvas Stravou

Sodale di The Irrepressibiles, Stravou quest’anno regala al gruppo un paio di perle. Questa Let Go, soprattutto, incontro a un club tra due uomini che si sfiorano prima e poi, in un crescendo di desiderio che coinvolge l’intero locale, arrivano a baciarsi. L’escalation – che è anche una prima esperienza (There’s something in the way that you smile at me/ That makes me lose all concept of me), una messa in discussione di un’identità e dei ruoli sessuali precostituiti – è visivamente potente: fotografia virata su categorici rossi e blu che si apre all’intero spettro cromatico (arcobaleno, no?) quando alla fine la coreografia marziale sfocia nel movimento libero. Come dire: l’inibizione è venuta meno, le regole saltano, liberi tutti (di amare chi si vuole).
The Most Beautiful Boy, il secondo titolo, è un intenso sonetto filmato: legami forti, amore e guerra, passato e presente.

# 8
Lonely (Justin Bieber, benny blanco)
diretto da Jack Schreier


Jacob Tremblay, nella parte della star prodigio bambina, dal camerino attraversa i corridoi del teatro per entrare in scena: solo con se stesso a gestire paure e pressione (Bieber adulto lo guarda dalla platea). Video intenso come brano comanda, è un one shot meraviglioso (con l’operatore della steady che, nel momento in cui ci si allontana dal palco, si direbbe che salti sul carrello per poi discenderne alla fine e chiudere sul volto di Bieber) che cattura, con il suo unico movimento, la semplicità del concetto. Bieber autoreferenziale, come la temperie comanda (lo si diceva leit motiv della videomusica dell’era di YouTube): cresciuto, già processa se stesso. Ne è riprova Monster, il duetto con Shawn Mendes. Qui c’è Colin Tilley alla regia e nello splendido, aereo gesto registico (un altro pianosequenza, ambientato in un bosco notturno dove un palco magrittiano accoglie il confronto onirico tra star consolidata ed emergente, due esperienze di precocità artistica che si riflettono) c’è ancora la volontà di non spezzare la tensione confessoria, il mettersi a nudo e discutere su un tempo, che per quanto breve e non così distante, è già il passato. Ed è già storia: «Avevo 15 anni quando il mondo mi ha messo su un piedistallo».
Di Colin Tilley – per contrasto e per sottolinearne l’eclettismo –  si guardi anche il commovente cinerealismo di Holy, ancora per Bieber (feat. Chance The Rapper).
Per chiudere il double bill di Justin agli AMA’s.
Lo amiamo sempre molto.

# 7
Trouble in Town (Coldplay)
diretto da Aoife McArdle

Meravigliosa Aoife: clip sempre splendidi e di marca riconoscibile (il lavoro fotografico è un portento, la costruzione del racconto solidissima, l’equilibrio tra immagini e brano musicale sublime), un primo film di tutto rispetto (Kissing Cadice, visto a Berlino 2017 e ora su Amazon) e finalmente il ritorno al promo musicale nel flusso video di prima qualità dei Coldplay. Un mondo alternativo popolato da animali antropomorfi, una storia di ordinario squallore metropolitano: delinquenza, solitudine, ingiustizie, discriminazione e tra le righe (neanche tanto) le logiche di un’orwelliana fattoria riveduta e corretta. Dramma, tensione, commozione, groppi in gola. Meravigliosa Aoife.

# 6
Deeply (Meryem Aboulouafa)
diretto da Zhang + Knight

Basterebbe la sempre splendente art direction (Z + K sono una garanzia, sul punto) per laureare questo video tra le creazioni dell’anno. Ma c’è molto di più: c’è una concezione dell’impianto visivo che, nel suo taglio originale, rivela consapevolezze fortissime (l’incipit che sembra uscito da un lavoro di videoarte di Alex Prager; il lavoro sui colori e sulle forme, il contesto metafisico e il modo in cui si fanno agire in esso le figure: come in un’installazione di El Conde de Torrefiel) e una narrazione enigmatica che fa del set design qualcosa di più di un elemento fascinoso e di più sostanzioso della pura rilettura onirica dell’Edward Hopper vista in projector: lo scenario inquietante che restituisce un’idea di società. E di una disperazione senza scampo che si nasconde nelle tinte soffuse delle architetture, nel mix languido di luci e ombre, nel solenne movimento coreografato.

#  5
Sad Day (FKA Twigs)
diretto da Hiro Murai

Un grande ritorno alla videomusica quello di Hiro Murai, che, jonzianamente, usa il linguaggio del cinema, mescolando generi: shaolin-movie, western moderno (il saloon, no?), coreografie da musical. E offrendo il sogno come dimensione alternativa e incerta che spiazza lo spettatore. Lo fa nel rispetto di una narrazione splendidamente scandita – da sempre un suo punto di forza -, rendendo tra le righe il senso della canzone e facendo delle immagini un testo aperto a più interpretazioni. Applausi.


# 4
FRANCHISE (Travis Scott feat. Young Thug & M.I.A.)
diretto da Travis Scott, White Trash Tyler, Jordan Hemingway

Travis Scott è un personaggio discusso (a volte discutibile e basterebbe il game-evento Fortnite a darne la misura: nel mondo in lockdown il rapper lancia un concerto in remoto che rivelerà la totale assenza di una sua performance). Un musicista che produce dischi ambiziosi e imperfetti. E un artista che, come il cognato-idolo Kanye West, ha un’attenzione costante al mondo della moda e dell’arte tutta. Ne consegue che tutto il suo discorso video ha sempre avuto un rilievo forte (si guardino le firme: Nabil, Hype Williams, Dave Meyers, Nathalie Canguilhem, BRTHR, Grant Singer etc) , tanto che ha spesso diretto o co-diretto i suoi clip.
Al di là dei motivi per i quali il video ha fatto parlare di sé (è ambientato nella tenuta del cestista Michael Jordan, che apre il lavoro con un estratto del documentario Netflix The Last Dance), quello che impressiona è la scelta della pellicola e il lavoro di costruzione che c’è dietro ogni sequenza, che viene concepita come quadro suggestivo a sé. In questo senso è un promo sorprendente per la freschezza dell’invenzione, per la consapevolezza linguistica, per il fitto, spiazzante citazionismo (La montagna sacra di Jodorowski, ovviamente, ma The Footlight Parade di Berkeley & Bacon, pure; M.I.A., poi, nella parte firmata da Jordan Hemigway, sfoggia un costume floreale che ricorda Midsommar).
Forse manca un concetto forte che leghi tutte queste intuizioni (e le diverse mani. E i diversi set), ma la carica visionaria del lavoro è indiscutibile, come se Scott, perso in una selva di prodotti & loghi (Franchise!), tutti direttamente e indirettamente riferentisi al suo ultimo brand/persona Cactus Jack, proponendosi come un prodotto in serie anch’egli (la sequenza in cui si moltiplica), accogliesse ed elaborasse, per promuoversi, qualsiasi istanza culturale trendy. Ed è proprio nella libertà dell’impianto, basato su un pensiero che si alimenta del suo stesso esercizio, della semplice gioia estetica dell’atto creativo (che riflette quella di un testo tutto assonanze e giochi di parole – In my white tee/ Call up Hype Williams for the hype, please), nella purezza del suo flusso delirante che il video si impone.
In America FRANCHISE viene lanciato come evento da sala IMAX (abbinato al film TENET di cui Scott ha scritto e interpretato il tema), ricevendo i complimenti di Christopher Nolan.

# 3
Nonbinary (Arca)
diretto da Frederik Heyman

Heyman, ibridando la sua fotografia “narrativa”, il fashion movie e il consueto approccio multimediale, finisce (involontariamente?) col riprendere con vigore una tradizione videomusicale biotecnologica che, partendo dall’immaginario di Björk (a quando l’inevitabile incontro?) e Marilyn Manson – solo per fare due esempi -, incrocia il cammino di videoartisti come Chris Cunningham e Floria Sigismondi. Ma il suo mondo digitale – che replica, deformandolo, quello reale – è pienamente originale e trova in Arca una sponda perfetta: suggestioni passate (la Venere di Botticelli) sono riportate, rivedute e corrette (post-prodotte?) ai giorni nostri, proposte in un set spudoratamente sintetico, dichiaratamente post – human, in cui l’artista diventa rifugurazione idealmente contemporanea, perché mutante, dell’immagine classica.
Altri pianeti.

# 2
Room with a View (Rone)
diretto da Marine Brutti, Jonathan Debrouwer, Arthur Harel

Dalla platea al corridoio del teatro, alle prove, al palcoscenico, all’esterno: il vento della danza che investe una spettatrice e la trascina fuori di sé, in un’esperienza che potrebbe essere puramente visionaria e che la rende entità unita indissolubilmente al resto del corpo di ballo (lo stesso alla cui esibizione assisteva). Si mette in scena, del resto, proprio uno spettacolo che della interconnessione dei corpi, della energia salvifica del caos, della tensione fisica – come beni rifugio in un mondo che crolla – fa il suo centro. Fino a vederlo dentro e fuori, questo coacervo umano indivisibile, sul tetto del Théâtre du Châtelet, occhio di un ciclone che lancia uomini e donne verso un nuovo orizzonte, come in un sogno che, partendo dalla danza, alla danza torna (di nuovo nel teatro, i ballerini come ectoplasmi). E di cui Rone è testimone, presenza costante (fin dall’inizio: è accanto alla protagonista) e parte del gruppo, in esso assorbito. Magia della scena.
Prosecuzione in video della collaborazione del musicista con il collettivo La Horde (che si occupa anche della regia del clip) per lo spettacolo omonimo con il Balletto Nazionale di Marsiglia.
Capolavoro. Vive la France.
Making of.

# 1
Physical (Dua Lipa)
diretto da Lope Serrano x CANADA
Fotografia: Niklas Johansson
Coreografia: Charm La’Donna
Montaggio: Carlos Font Clos
Animazione: MATHEMATIC
Produzione: CANADA

CANADA al loro meglio, convincenti come non lo erano da anni: forti di una cifra ormai magistrale, lontani dall’immaginario iniziale del collettivo catalano, ma anche dalle sue declinazioni più urbane e astute. Qui, dunque, pura invenzione ed energia: una coreografia esaltante, in un unico grande spazio diviso in riquadri il cui differente colore (come le scritte riportate sull’abbigliamento dei ballerini) è un implicito inneggiare alla poetica arcobaleno della diversità (e ogni sezione della canzone troverà la sua corrispondente cromatica): in questo senso l’animazione è un supporto didascalico necessario per sottolineare che, al di là dell’esibizione, c’è una storia che viene narrata e uno schema preciso che viene rispettato (si guardi anche il teaser). E la regia portentosa, che esalta il movimento da ogni prospettiva e il dato dell’intimità fisica (il pezzo si intitola Physical, Serrano non lo dimentica mai), trae il meglio da una scenografia originalissima (il vertiginoso trompe l’oeil), si inventa punti di vista imprevedibili, fa danzare la macchina da presa con il corpo di ballo, scompone e ricompone le cromie come in un caleidoscopio (o un cubo di Rubik) umano, moltiplica ambiguamente Dua Lipa (lo shot col gioco di specchi è incredibile: sacrosanto Mtv award agli effetti speciali) e lavora sull’ambiente (il dettaglio) con un’enfasi che aderisce al brano musicale (il bridge da lacrime) fino all’apoteosi finale (il totale: l’orgasmo). Sul filo di una tensione e di un rilascio continuo, le immagini respirano all’unisono col pezzo: un Busby Berkeley del nuovo millennio.
Grande, grande video.
Da non perdere anche l’esaltante workout – clip diretto da Daniel Carberry.

REGISTA
Colin Tilley

Quest’anno tocca a lui: è da più di un decennio che sforna video a raffica, ma, a differenza di tanti colleghi prolifici, ha sempre qualcosa da dire. Di capolavori consacrati ne vanta parecchi (Anaconda per Nicki Minaj a Alright di Kendrick Lamar sono quelli che lo consegnano alla Storia, anche se, come per certi grandi autori, le sue perle si trovano dove non te le aspetti). Quest’anno (una dozzina di titoli…), a parte il successo di WAP e lo splendido pianosequenza per Monster (Mendes/Bieber) mette a segno l’incredibile ciclo per J Balvin (Colores), un’impresa produttiva girata tra Los Angeles e il Messico, scritta e realizzata a tempo di record, e in cui trova finalmente una sponda naturale quella sua fissa per i colori che da sempre rende inconfondibili i suoi clip, video concepiti con una progressiva alzata della posta creativa.
È il videomaker più vicino al maestro Joseph Kahn per eclettismo, approccio sanamente pop, varietà di temi & lucidità di svolgimento, ampiezza di visione, sfida produttiva, padronanza tecnica.

Rivelazione: Tanu Muiño

COMMISSIONING ARTIST
The Weeknd

Ovviamente non ce n’è per nessuno. The Weekend prosegue imperterrito nel suo percorso di videostar al maschile dei nostri anni proponendo, con la cifra che oramai gli riconosciamo, una nuova parabola sul suo personaggio scisso tra lo status di uomo di successo e un lato oscuro ingovernabile, fatto di deboscia e solitudine. Questa nuova persona (oramai l’artista ne propone una variazione a ogni progetto discografico) si manifesta ancora una volta in una dimensione visionaria, inquietante e oscura, che fa i conti con le atmosfere da horror e slasher d’antan (soprattutto anni 80, in linea con lo stile del suo album) e che, complice l’ormai sodale Anton Tammi (solo un paio di anni fa lo segnalavo come rivelazione), cita tanto altro cinema (dallo Scorsese di Casino e Cape Fear, al Polanski di Chinatown, dal Gilliam lisergico di Paura e delirio a Las Vegas fino a cose più recenti come Joker e Uncut Gems, film nel quale peraltro Abel appare).

È tutto spettacolo di decadenza metaforica che poggia la sua riflessione in una terra di mezzo tra sfera privata e pubblica, ambito che, tutto, invade il suo vissuto. Il progetto video sfilacciato e delirante, si apprezza alla luce dell’intero ciclo, più rarefatto e allucinato del solito, in cui The Weekend attraversa esperienze diverse in un’escalation di perdizione. Un lavoro che dà testimonianza, attraverso situazioni ed eventi limite (dall’omicidio alla possessione), di tormento e dissoluzione reali, associandovi riflessioni sulle perversioni manipolative dello star-system (le fasciature narrano dell’ossessione delle celebrità per la chirurgia estetica). E che si dirama in direzioni inaspettate, impegnando altri registi (a cominciare dai Cliqua di Too Late – la contemporaneità riletta come film splatter nel quale Nicolas Winding Refn sembra incontrare Pappi Corsicato – e del decadente, spettacolo finale simil-kubrickiano di Save Your Tears – in cui Il Personaggio svela un volto paradossalmente sfigurato dalla plastica facciale -), altri linguaggi (l’animazione, la Tik Tok Experience) e coinvolgendo nell’unica narrazione anche teaser, trailer, eventi live (clamorosi quelli agli MTV Awards e agli AMA), tutti affrontati come ulteriori prove e sfide videomusicali.
Il Grammy? Ha perso un’altra occasione.
10 e lode. 

Heartless
Blinding Lights
After Hours (short film)
In Your Eyes
Until I Bleed Out
diretti da Anton Tammi

In Your Eyes (feat. Doja Cat) diretto da Jeron Braxton
Snowchild diretto da Arthell Isom
Save Your TearsBlinding Lights diretti da Daniel Sierra
Too LateSave Your Tears diretti da Cliqua

Heartless (Live, Late Show with Stephen Colbert)
Blinding Lights (Live On The 2020 MTV VMAs)
Save Your Tears / In Your Eyes (Live on The 2020 AMA)
Alone AgainFaithIn Your Eyes (live) diretti da Micah Bickham
Super Bowl Show 

COMMERCIAL/AD

Heart (PlayStation)
Coeur battant (Louis Vuitton)
diretti da Romain Gavras

Born in quarantine (Facebook)
Half a Million Mikes (Wealthsimple)
diretti da Martin De Thurah

Ingenious (Dacia Duster)
diretto da Gal Muggia & Vania Heymann

A New World To Play In (Apple)
diretto da Ian Pons Jewell

Snap (Apple)
diretto da Kim Gehrig, coreografia di Ryan Heffington

Change (DNB)
diretto da Philippe Tempelman, coreografia di Sidi Larbi Cherkaoui

The New Fragrance (Dior)
diretto da The Blaze

Nous sommes pour ceux (GMF)
diretto da Frédérique Planchon

Francesca (Diesel)
Le Male (Jean-Paul Gaultier)
diretti da François Roussellet

Y Eau de perfume (Yves Saint-Laurent)
diretto da Anton Corbijn

“It’s about that fearless…” (Burberry)
diretto da Megaforce

The Show Must Goes On (Amazon)
diretto da Melina Matsoukas

For The Joy Of Home (John Lewis & Partners)
diretto da Traktor

N°5. THE FILM (Chanel)
diretto da Johan Renck

The Edge – Play Has No Limits (PlayStation)
diretto da Daniel Wolfe

You Can’t Stop Our Voice (Nike)
diretto da Hiro Murai

Give A Little Love (Waitrose & John Lewis)
You Can’t Stop Us (Nike)
diretti da Oscar Hudson

Christmas 2020 (Coca Cola)
diretto da Taika Waititi

FASHION FILM

È stato l’anno che ha portato la moda a ripensare il concetto di sfilata, stante la pandemia. Lo ha fatto in forma video e, in molto casi, ricorrendo a registi che nel clip musicale sono nati e cresciuti. Ci siamo trovati di fronte a un fenomeno interessantissimo: sfilate come videoclip, ma senza la penuria del budget che è la cifra del promo contemporaneo. Tutt’altro: mezzi e sontuosità da golden age. Con cose da occhi fuori dalle orbite (First Light per Alexander McQueen, diretto da Jonathan Glazer: capolavoro), serialità d’autore (Something That Never Ended per Gucci, diretto da Gus Van Sant), fashion film letterali (Autumne-Winter e Spring-Summer per Dior diretti da Matteo Garrone). E, per quello che ci importa più da vicino, pastiche deliziosi come The Ramones x True love Stories diretto da Ace Norton per Happy Socks, Silent Madness diretto da Jordan Hemingway per Mowalola (logica da clip contemporaneo per uno dei più giovani e talentuosi fashion director in circolazione) e una sempre splendente Nathalie Canguilhem per la Collezione Uomo, Primavera estate di Yves Saint-Laurent (anche nel deserto). Ma l’elenco sarebbe troppo lungo (c’è anche un Gaspar Noé argentiano e un po’ automatico, ancora per Saint-Laurent, con Charlotte Rampling) e allora sparo subito il mio vincitore. Che è un grande ritorno, e che per il modo in cui aderisce al protocollo video davvero potrebbe candidarsi al titolo di clip musicale dell’anno. E vincere a mani basse. Walter Stern porta la collezione estate di Balenciaga a spasso: una, nessuna e centomila creature della notte ad attraversare Parigi con falcate degne del Richard Ashcroft di Bittersweet Symphony (suo capolavoro del 1997), passando per tunnel che rievocano le inquietudini di Firestarter, per riunirsi e vivere felici fino all’alba e oltre. Il tutto sulle note di Sunglasses at Night di Al Corley nella cover wow di BFRND, collaboratore fisso delle sfilate di Balenciaga (e marito di Demna Gvasalia).
9 minuti supremi, che frullano 4 decenni, da godersi con tutti i crismi: luci basse, a schermo intero, cuffie in testa a volume adeguato.
L’orgasmo è lecito.

Summer 21 (Balenciaga)
diretto da Walter Stern

LONG/SHORT, CICLI

Color Me (Active Child)
diretto da Martin De Thurah
Al di là del risultato (eccelso), quello che mi sembra importante rimarcare in questa sede è la rivendicazione del progetto come film di Martin De Thurah, pur essendo, questo Color Me anche il videoclip della canzone omonima d(egl)i Active Child. Un progetto sì condiviso, ma in cui il regista non si mette semplicemente a servizio del brano, ma lo considera come parte integrante di una creazione complessa che gli va attribuita. E quello che vediamo, infatti – come sottolineato nel sito creato per l’artwork e come confermato dal regista -, è dethuriano al 100%.
Ed è solo per la peculiarità del format, in un’epoca in cui è sempre più difficile segnare dei confini e individuare delle categorie nel magmatico campo videomusicale, che non lo inserisco in top 20 (e sul podio).

Flora & Caic (Ferran Palau)
diretto da Pablo Maestres
Che bravo Pablo Maestres. Qui alle prese con un mystery che, collegando tre storie (e tre modalità di rappresentazione: c’è anche una coreografia) a due canzoni distinte, mescola certe suggestioni simboliche di Martin De Thurah (complice l’ambientazione nordica) ai percorsi onirici del primo Young Replicant. Più che il discorso allegorico e il dichiarato tema del mito della Fenice, quello che colpisce del video sono la tensione e il taglio cinematografico delle potenti immagini che il regista usa per dare corpo e sostanza al suo racconto.

Queen Of The Rodeo (Orville Peck)
diretto da Austin Peters
Poetica dell’ibrido quella di Austin Peters: uno sguardo semidocumentaristico adulterato da deviazioni surreali, parentesi lynchiane (deformazioni dello schermo, epoca indefinibile, figure enigmatiche), il costeggiare la realtà con un piede nell’inquietudine come fa solo il Wareheim più visionario. Una mitologia contemporanea messa semplicemente in scena, senza progressione drammatica, come pura sequenza di siparietti-rebus. Dietro lo sguardo estetizzante si agita un’intimità che si vuol far percepire sottilmente, La conduzione è magistrale anche per come serve l’indubbio fascino della maschera Orville Peck, quella di un crooner queer, in sbandante equilibrio sul filo teso tra tutte le dimensioni in gioco. 10 e lode.

CHANGES: The Movement (Justin Bieber)
diretto da Nick DeMoura, Phillip Chbeeb
Come era accaduto per il precedente Purpose, anche per l’ultimo Changes Bieber propone un visual-album coreografato.

The Long Goodbye (Riz Ahmed)
diretto da Aneil Karia
Un corto gavrasiano (Born Free è una matrice fin troppo evidente) col quale l’attore britannico lancia il suo album omonimo: la quotidianità della famiglia di Riz è sconvolta dall’irruzione in casa di un commando squadrista. 

La vita nuova (Christine and the Queens)
diretto da Colin Solal Cardo
Tutto l’Ep in un lavoratissimo long video: una personalità artistica degna di ben altra attenzione in un percorso di danza coreografato da Ryan Heffington. Una metamorfosi enigmatica, mutazione di pelle e stile, che si dipana all’Opéra Garnier. Magnifico.

Sad Night Dynamite (Sad Night Dynamite)
diretto da Will Hooper
Enigma bizzarro che gioca con atmosfera e toni, azzeccando l’oscura connessione tra piani narrativi apparentemente distanti.
Di Hooper anche la notevole riflessione sulla finzione virtuale nella performance celestiale di Declan McKenna.

Colores (J Balvin)
diretto da Colin Tilley
Tutte le tinte dell’album di J Balvin affidate al re dei colori: Colin Tilley.

Black is King (Beyoncé)
diretto da Beyoncé
Visual album ispirato a The Lion King e fondato su un adattamento dello score creato per il film. In streaming su Disney+.

Just Wait (Nada Surf )
diretto da Mark Pellington
Film astratto e filosofico basato sulla performance e sul flusso verbale di Matthew Caws, leader della band.

TITOLI DI CODA

Falling (Harry Styles)
diretto da Dave Meyers
Styles quasi onirico in un ambiente classico sommerso. Un gioco di riflessi e morbido ondeggiar di panni in cui Meyers depreda Bill Viola e la fa franca.

Say You’ll Stay (James Smith)
diretto da Jamie Thraves

Fedele alla linea del racconto struggente, il ritorno di Thraves gioca facile con un prevedibile twist (?) finale. Ma è lecito piangere.

Trauma (Fhin ft Louis VI)
diretto da Thibault Dumoulin
La fine del mondo come in Melancholia di Lars von Trier (e i titoli iniziali come quelli di Europa): il selfie definitivo è quello di una coppia indifferente fino all’ultimo alle ragioni ambientali. Centrare il punto, senza orpelli.

Bad Decisions (The Strokes)
diretto da Andrew Donoho
Solito Donoho sci-fi, ma con registro vintage e un’idea assai carina.

Champion of the World (Coldplay)
diretto da Cloé Bailly
Superderivativo, ma non c’è caso che i Coldplay sbaglino un video.

Boycycle (Salvatore Ganacci feat. Sébastien Tellier)
diretto da Vedran Rupic
Ancora l’accoppiata Rupic-Ganacci, la demenzialità come politica.

Fa il paio con HYPNODANCE di Little Big, diretto da Alina Pasok, Iliya Prusikin, Yuriy Muzychenko.

Concrete Pony (Ghostpoet)
diretto da Thomas James
Un’idea visiva forte, un video d’atmosfera un po’ novantesco.

Sue Me (Wale feat. Kelly Price)
diretto da Kerby Jean Raymond
Cambiare la realtà rovesciandone una logica, ricollegare il discorso all’attualità (il finale). Con Lucas Hedge.

Wildflower (Five Seconds Of Summer)
diretto da Andy DeLuca
Figli dei fiori analogici.

Boyfriend (Selena Gomez)
diretto da Matty Peacock
Brava Selena: non fa mai video a caso, c’è sempre la cura del dettaglio, un’idea (piccola o grande), una messa in scena ponderata.

Find Yourself (Thunder Jackson)
diretto da Dano Cerny
Pochi elementi, ma molto ben utilizzati per creare un’atmosfera e consegnarle l’intero lavoro.

Pointless (Duñe X Crayon ft. Ichon)
diretto da Alice Kong
Rose rosse per te, ho comprato stasera.

Una delizia targata Partizan.

Are We Having Any Fun Yet? (Larkins)
diretto da GRANDMAS
Una simbolica passeggiata post-mortem?

Dansingas (Solo Ansamblis)
diretto da Titas Sūdžius
Interessante soprattutto per l’ambizione, qualche sparsa intuizione e lo sforzo produttivo, più che per l’esito.

Criss Cross (The Rolling Stones)
diretto da Diana Kunst
Per capire perché Diana Kunst è una delle firme videomusicali più rilevanti in circolazione. Fa il paio con Scarlet, sempre per gli Stones, in cui gli Us mettono in scena un videomessaggio che il protagonista, l’attore Paul Mescal (la serie Normal People), manda alla sua amata. Le cose, però, prendono una piega imprevista.

WE ARE CHAOS (Marilyn Manson)
diretto da Matt Mahurin
Per segnalare la griffe di Mahurin, sempre più sporadico nel settore, e il ritorno di Manson, che non vuole sfigurare nel confronto col suo videopassato.

E a proposito di vecchie glorie: Kevin Godley e Tim Pope. 80 (ri)rulez?

Afterlife (Flatbush Zombies)
diretto da Arnaud Bresson
Quando l’effetto (raggi x) non è tutto. 

Hypnotized (Purple Disco Machine + Sophie and The Giants)
diretto da Mary Rozzi
Il video vintage di quest’anno.

Corner of my sky (Kelly Lee Owens feat. John Cale)
diretto da Kasper Häggström
Splendida narrazione, misteriosa e divertita, ma forse, più che un bel clip, è un bel corto. Con Michael Sheen.

Feel Away (slowthai)
diretto da Oscar Hudson
Un Oscar Hudson comico-visionario, ma un po’ troppo Gondry. Minore. Quello maggiore è nei commercial quest’anno. Vi rimando lì.

I Feel Better (Novo Amor)
diretto da Lisette Donkersloot
Macabro e scenicamente attraente. Forse un po’ troppo fermo sugli stessi elementi, ma ha una sottile narrazione che lo riscatta.

All About You (Leon Bridges, Lucky Daye)
diretto da Lamar+Nik
Sempre più complesse e raffinate le animazioni del’adorato duo americano. Un’altra notevole chicca di quest’anno la trovate qui.

Hypno (T.I. feat. Rahky)
Diretto da Hype Williams
Driiiiiiiiiiiiiiiiin, suona la campanella: tutti a lezione.

Gold (Paloma Faith)
Diretto da David Wilson
Al di là del discorso sotteso (la Londra gentrificata), Wilson è davvero uno dei pochi registi contemporanei capaci di creare videoclip autenticamente queer. E vanta anche questo semplice, atmosferico promo per i Glass Animals, perfetto per rendere il crescendo drammatico di It’s All So Incredibly Loud, una delle più belle tracce dell’anno.

Decoration (TV Priest)
diretto da Joe Wheatley
Peccato per la ripetitività, ma lo spirito surrealista è quello giusto e ricorda certe stramberie brit che imperversavano felicemente una decina di anni fa.

Unveiled (Flohio)
diretto da Daniel Sannwald
Il protocollo del video hip hop sconvolto dal taglio visivo (taratura, monocromia) e da un’atmosfera da incubo claustrofobico di intensità rara.

High On You (Sigma, John Newman)
diretto da Crooked Cynics
Rom com ai tempi del Covid: lockdown, distanziamento, mascherine. L’amore vincerà anche questa volta?

Keep Moving (Bronson)
diretto da StyleWar

And, We Disappear (Alaskan Tapes)
diretto da Meredith Hama-Brown

Get Me Back In The Game (LL Burns)
Comet Face (King Krule)
diretti da CC Wade

Allo (Samaran)
diretto da Cédric Legrand

Moor (Zebra Katz)
diretto da Žanete Skarule

Hypercolour (Camelphat feat. Yannis Philippakis)
diretto da Max Vatblé

Losing You (Flyte)
diretto da Mark Jenkin

Holiday (Little Mix)
diretto da Sophia Ray

 

PRIMA PARTE

I VIDEO DEL DECENNIO

VIDEO DEL 2019